Quando Kirk Douglas-Spartacus pretese la riabilitazione del comunista Trumbo - Alberto Crespi
“Amore: la prossima volta che ti dico di voler girare
un kolossal in costume, per favore, mi spari?”. Era finita la grande
avventura di Spartacus, e Kirk Douglas era talmente esausto che chiese questo
favore a sua moglie Anne. Lei rispose: “Se ne fai un altro me ne vado”. E lui:
“Se te ne vai vengo con te”. Era il 1960. Sessant’anni fa. Kirk Douglas non ha
più fatto kolossal e Anne è rimasta sempre con lui. Per la cronaca, lei è
ancora viva: il 23 aprile compirà 101 anni. Che coppia! Lui, invece, se n’è andato
a 103 anni compiuti: era nato il 9 dicembre 1916.
Un uomo con un coraggio da leone
Kirk Douglas è stato un grande di Hollywood. E non
solo perché era un grande attore, più di presenza e di spavalderia che di
tecnica; ma perché è stato per anni un produttore intelligente, uno dei primi
divi della vecchia Hollywood a prendere in mano la propria carriera e a
produrre i propri film al di fuori delle majors (alle quali poi si affidava per
la distribuzione: Spartacus, ad esempio, era un film Universal). E come
produttore, aveva un coraggio da leone. Spartacus fu un’avventura incredibile
non solo da un punto di vista finanziario e logistico, ma anche da quello
politico.
È una storia che lo stesso Douglas ha magnificamente
raccontato in un libro bellissimo, Io sono Spartaco!, pubblicato in Italia dal
Saggiatore nel 2013. Una storia che ha vari protagonisti, uno dei quali si
chiama nientemeno che Stanley Kubrick – ma non è il protagonista principale! La
vera storia dietro Spartacus è quella di Dalton Trumbo, lo sceneggiatore
comunista che da anni era sulla lista nera del maccartismo e firmava sceneggiature
(quando gliele chiedevano) sotto falso nome. Trumbo era uno dei “10 di
Hollywood”, i dieci sceneggiatori e registi che rifiutarono di testimoniare
davanti alla commissione McCarthy e furono arrestati e messi al bando
dall’industria. Uno di loro, Edward Dmytryk, se la cavò denunciando alcuni
compagni e passò il resto della sua vita a espiare raccontando nei suoi film
storie di amicizie tradite e di amori tormentati (Dmytryk, diciamolo una volta
per sempre, era un fior di regista). Altri emigrarono in Europa. Altri ancora,
come Trumbo, continuarono a lavorare senza apparire, o firmando con nomi falsi.
La cosa incredibile è che Trumbo vinse due Oscar mentre era “persona non
grata”: uno per Vacanze romane, assegnato a Ian McLellan Hunter che si era prestato
a fargli da “front”, da prestanome; l’altro per La più grande corrida (film
francamente non indimenticabile) con lo pseudonimo ironico di Robert Rich
(“rich” significa “ricco”).
La parabola del gladiatore schiavo
Quando Douglas decide di fare Spartacus, e di farlo
scrivere a Trumbo costi quel che costi, sa di andare incontro a un mare di
guai. Tanto per cominciare, è comunista anche l’autore del romanzo al quale ci
si ispira, Howard Fast; e poi è profondamente “comunista” anche la storia,
quella del gladiatore schiavo che si ribella all’impero romano, sfida gli
eserciti di Crasso e finisce crocifisso sulla via Appia con tutti i suoi
compagni. Talmente comunista che dal 1928, in Urss e poi nei paesi del Patto di
Varsavia, si svolgono le Spartachiadi, la risposta bolscevica alle Olimpiadi; e
la squadra di calcio più amata e famosa di Mosca si chiama Spartak. Ma Douglas
è un attore di enorme successo, e va avanti come un treno: mette insieme un
cast pazzesco, con i romani interpretati da attori britannici (Laurence
Olivier, Peter Ustinov, Charles Laughton) e gli schiavi da americani di varia
etnìa (l’ebreo Tony Curtis, l’afroamericano Woody Strode… e naturalmente
l’ebreo bielorusso Kirk Douglas!). Inventa per Spartaco una storia d’amore, nel
nome del box-office, e chiama la bellissima inglese Jean Simmons a interpretare
la schiava Varinia. E alla regia convoca un veterano, Anthony Mann, autore di
alcuni tra i più bei western degli anni ’50.
Dopo poche settimane di lavorazione, Douglas capisce
che Mann non funziona. Girando le scene della scuola dei gladiatori dà troppo
spago a Peter Ustinov, che si riscrive le battute e tenta di dirigere il film
in prima persona. Il veterano viene gentilmente cacciato e Douglas si ricorda
di un regista poco più che trentenne, con il quale ha lavorato tre anni prima
per un filmetto sulla prima guerra mondiale intitolato Orizzonti di gloria.
Avevano litigato non poco, ma il film era venuto fuori bene, un capolavoro. Nel
libro suddetto, Douglas racconta di aver raggiunto Kubrick al telefono mentre
gioca a poker, offrendogli 150.000 dollari per subentrare a Mann nel giro di 24
ore. “Avevo due certezze. Primo, a soli trent’anni Stanley aveva il talento e
la fiducia in se stesso indispensabile per portare avanti un’impresa così
ambiziosa. Secondo, a volte la sua sicurezza rasentava l’arroganza. Il che
poteva esserci sia d’aiuto che di ostacolo, lavorando con attori come Olivier,
Laughton e Ustinov, personaggi di prim’ordine ma talvolta difficili da tenere a
bada”.
Lo scontro sul set con Stanley Kubrick
La più famosa litigata sul set fra Douglas e Kubrick
riguarda proprio la scena che dà il titolo al libro: quella in cui gli schiavi,
sconfitti dai romani, vengono arringati da Crasso. Avranno salva la vita se
indicheranno chi di loro è Spartaco, altrimenti verranno tutti crocifissi. E
tutti, uno dopo l’altro, si alzano a dire “Io sono Spartaco!”. È una scena
fortissima, un’incredibile metafora dell’uguaglianza e… sì, del comunismo: e Kubrick
non vuole girarla. La trova stupida! Douglas lo affronta sul set, rimanendo a
cavallo, sovrastandolo e apostrofandolo “Ehi, Eisenstein!”. La vince lui.
Kubrick gira la scena, che diventerà la più famosa del film. Nel frattempo
quasi tutti, sul set e in produzione, sono convinti che la sceneggiatura che
stanno girando sia firmata da “Sam Jackson”. Ma Douglas si è stufato della
finzione, e a film finito decide di forzare la mano. In un drammatico e buffo
showdown con Trumbo, decide di “uccidere” Sam Jackson e di resuscitare Dalton
Trumbo. Alla fine tutta Hollywood accetta, chi con gioia, chi obtorto collo,
che la lista nera sia finita.
Kirk Douglas non è stato solo un grande attore e un
produttore coraggioso. È stato anche un bravo scrittore. Ha pubblicato libri di
poesie, una notevole autobiografia, e il libro suddetto: scritti da lui, niente
ghost writers. Ha lavorato anche in Italia, nell’Ulisse di Camerini, voluto da
De Laurentiis (Silvana Mangano, in quel film, interpreta sia Penelope sia la
maga Circe: scelta intrigante). Ha girato decine di film, è stato tre volte
candidato all’Oscar senza vincerlo (l’ha vinto suo figlio, Michael, che lo
adorava). Ha avuto una vita lunga e splendida: non bisogna essere tristi per
lui. E uno dei modi migliori di ricordarlo è rivedere Spartacus e leggere lo
splendido libro di cui vi abbiamo parlato.
“Come attore è
facile fare l’eroe; lottiamo contro i cattivi e ci battiamo per la giustizia.
Nella vita reale le scelte non sono sempre così semplici. Le liste nere di
Hollywood, che sono state ricreate in maniera potente nel film “L’ultima parola
– La vera storia di Dalton Trumbo”, fanno parte di un’epoca che ricordo
molto bene. Le scelte erano difficili, le conseguenze dolorose e molto reali.
Nel periodo delle liste nere ho avuto amici che sono stati costretti ad
esiliare, perché nessuno li faceva lavorare; attori che si sono suicidati dalla
disperazione. Lee Grant, mia giovane co-protagonista nel film “Detective Story”
(1951), non ha potuto lavorare per quasi dodici anni, dopo essersi rifiutata di
testimoniare contro il marito di fronte al Comitato per le Attività
Antiamericane.
Fui minacciato di essere additato come comunista e rovinare
così la mia carriera, se avessi fatto lavorare in “Spartacus”, il mio
amico Dalton Trumbo, sceneggiatore proscritto nelle liste nere. Ci sono momenti in cui bisogna lottare per i proprio principi. Sono davvero
orgoglioso dei miei colleghi attori che usano la loro influenza pubblica per
lottare contro le ingiustizie. A 98 anni ho imparato una lezione dalla storia:
spesso si ripete. Spero che “L’ultima parola – La vera storia di Dalton
Trumbo”, importante pellicola, ricordi a tutti noi che le liste nere sono state
un periodo terribile per la nostra nazione, ma che possiamo trarne insegnamento
in modo che fatti del genere non si ripetano mai più”.
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