tratto dall'ultimo (inconcluso) libro di Albert Camus, Amelio racconta la storia di Jean, un ragazzino algerino francese che ce l'ha fatta.
Jean torna ad Algeri per trovare la madre, e ricorda la sua infanzia, quando gli aguzzini francesi opprimono e torturano i partigiani algerini, quando i bambini erano bambini.
e ricorda e va a trovare la madre, e anche il suo vecchio maestro, grazie a lui gìha studiato e ha potuto diventare un uomo di successo, in Francia.
il film riesce a non annoiare mai.
buona visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo, su
Raiplay
…Un'opera raffinata e umanissima, in
grado di rivendicare l'importanza della memoria non solo personale ma
collettiva, una memoria che deve essere adoperata come strumento d'indagine
delle contraddizioni del presente. Sotto questo punto di vista quindi un film
che guarda al passato per farsi attuale e necessario. Cinema di qualità
estetica elevata e d'importanza civile. Da applauso.
…Nel rielaborare il testo del premio Nobel, Gianni
Amelio contamina l'autobiografia (sotto falso nome) di Camus con invenzioni
ispirate (la scena dell'accalappiacani) e diversi aneddoti della propria
infanzia. Confeziona così un film al contempo elegante e personale, che
riprende ancora una volta il tema della paternità negata o assente,
proiettandola nella Storia. La pellicola è al contempo una summa del
suo stile narrativo: misura e controllo della recitazione, carrellate
realizzate con la steadycam, campi e controcampi “televisivi” che si
alternano a elaborate riprese lunghe. Il tutto con un cast misto di esordienti
e attori di esperienza che gli permettono di superare tutti i limiti del biopic,
dando vita a un lungometraggio toccante, impegnato e ricco di contenuti
importanti. Notevole, dal primo all'ultimo minuto.
… Il basso profilo della recitazione suona come un
vistoso gioco di interni umani accarezzati e di rimosse speranze passate. Sì,
perché il mondo che vive lo scrittore al ritorno è quello di un bambino
riconosciuto (dentro), nel volto di Nino Jouglet (ridente ed efficace), che si
allontana dalla sua casa per misurarsi con vie e dintorni vicini (sapendo bene
che sua nonna usa maniere forti nei rimproveri). Come quando giocherella con i
cani in gabbia e con altri ragazzini li libera tutti; ma il ‘signore dei cani’
(come un nomignolo di favole illustrate) non vuole sapere del suo candore
(forse questa volta era nel giusto) e lo tiene rinchiuso nella sua gabbia per
molte ore (lì di fronte all’orizzonte del mare con un’immagine che è degna di
romanzi d’avventura, di fasulli eroi e di reconditi vezzi di fantasie
aggrumate). Una scena di speranze passate e di livori presenti: rinchiudere il
se e il ma in un connubio di intenti ideali. E sì che i bambini prima riescono
a darsela a gambe scendendo dagli alberi in un nascondimento perenne e
solitario mentre la loro corsa appare vivace e piena di cieli. La prigione del
bambino Jean è di fianco al carrozzone di legno del Gatto e la Volpe (Franchi e
Ingrassia) all’inizio del ‘Pinocchio’ di Luigi Comencini come il suo urlare è
quello di Pinocchio che vuole assolutamente correre (e capire il mondo intorno)
e avere le gambe di carne e ossa. Ma il suo sguardo fisso e attraente ricorda
quello di Bruno (Enzo Staiola), un commiserato povero di famiglia di “Ladro di
biciclette” o uno ‘sciuscià’ (Pasquale o Giuseppe del film di Vittorio De Sica)
di strada che ha voglia di voler pulire le scarpe del suo folletto animo.
Siamo negli anni venti quando il
giovanissimo Jean andava a scuola e colloquiava con pochi e si menava con
Hamoud Djamel Said) per ‘urgenze’ razziali e religiose. “Femminuccia”, mai
dirlo ad un bambino che al minimo appiglio può partire senza pensarci e
darl(se)le di santa ragione. Un bambino e il suo maestro, ciò che un ruolo non
riesce dimenticare e quando quel ruolo ricorda una frase di una vita: “ogni
bambino contiene già i germi dell’uomo che diventerà“ (quell’incontro dopo
tanti anni è suggestivo non nel luogo e nei modi ma nel profondo delle vite di
due persone oramai avanti negli anni).
Ma i fatti narrati e il riassunto
di uno scrittore (seppur famoso) non possono essere la cartina da tornasole di
un paese e della sua civiltà. “Chi scrive non è mai all’altezza di chi muore”:
qui sta il nocciolo importante e fondamentale di un gruppo o di una
nazione che aspetta fatti più che giochi romanzati. E così che l’approccio di
Jean adulto all’Università (di fronte agli studenti) è solo tradimento per chi
li ha lasciati ed è diventato famoso scrivendo in terra ‘straniera’ (la Francia
di cui ogni comunicazione coloniale si vorrebbe tranciare). Sì appare e lo è un
tradimento irreparabile, una sconfitta di un ideale e una denigrazione del suo
popolo (è proprio vero che più volte, quando si torna nella ‘propria casa’ di
origine, i nemici attorno crescono e l’invidia cova sotto la cenere…).
E sì che Amelio riesce a mettere una passione
dirompente lungo tutta la pellicola nonostante pare tutto un susseguirsi di
schemi ameni ed inermi: i visi, le gesta e i dialoghi rivelano un pastoso animo
‘filmico’ in subbuglio. Tutto in merito destabilizzante e meno in luci
sgargianti: l’uomo isola se stesso e sconquassa l’intorno comunque. Devastante
lo scandagliare i visi e i loro interiori modi con traini e spinte narrative
affrante e salivari. Un film pieno di istantanee perse e ritrovate da ciascuno.
E una sedia, un tavolo e un bicchiere vuoto che cade tra le mani di Jean
(adulto) subito viene rimesso a posto: un silenzio e un piccolo rumore
assordante con le voci in sottofondo di una bevuta in lontananza di un bambino
vicino al mare (“Il ladro di bambini” e la scena in spiaggia con bicchieri che
si annodano tra le mani); nello stesso tempo il bambino assapora il gusto marinaresco
tra la mamma e lo zio in un colore ammantato di vapori (in)passato in un lungo
riva di stile che fu e di nostalgia stantia. Il gusto mescolante di posti,
luoghi, tempi e film diversi desta nello spettatore un’allegoria e una fantasia
acclamato ria fuori da ogni gesto autoreferenziale e acclamante. Una regia
sobria, delicata e di grande efficacia rendono i posti fermi e compatti come se
i vari personaggi fuoriuscissero a piacimento per scorrere nei percorsi
temporali e spaziali. Su accorgimenti carezzevoli e piani immagini a spirale
nelle profondità interne non certamente negli allunghi di un teleobiettivo
imbastito di presente-passato come fuorilegge di colori festanti nell’orizzonte
chiuso da un aborto ignoto. Quello che non si vede è il senso profondo della
fine e del tempo inesistente. Un giorno che sta volgendo alla fine: una sera
estiva per Jean adulto, una sera autunnale per sua madre e i ricordi sempre più
sottratti…
…Il film, nel suo passare continuo e fluido tra
presente e passato, tra anni '20 e anni '50, mette in scena l'impossibile
integrazione di francesi e algerini lungo più di 30 anni, raccontando il
colonialismo strisciante di Parigi e dei suoi generali, il fascismo culturale
delle istituzioni e della scuola e le figure che con umile dignità seppero
ribellarsi alle costrizioni, se non quelle politiche, almeno quelle umane.
Decisamente mi sembrava a tratti di vedere un
film di Rossellini, maestro nel raccontare in soggettiva di bambino (non so se
qualcuno di voi ha visto lo splendido Germania Anno Zero).
Descrivere la realtà guardandola con gli occhi
di un bambino e riuscirci con tale risultato, e comunque descrivere la realtà
con tutte le complesse sfumature sociali politiche, umane con tale dovizia di
particolari e sensibilità, fa di Amelio (e lo ha già dimostrato più volte)
colui che in qualche modo continua il percorso intrapreso da
Rossellini...Bellissimo film, davvero, altamente consigliato anche per chi non
conosce D'Amelio, un'occasione per pensare di andare a rivedere capolavori come
"Lamerica", "Ladro di bambini", "Cosi' Ridevano"...
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