lunedì 30 settembre 2024

Il primo uomo – Gianni Amelio

tratto dall'ultimo (inconcluso) libro di Albert Camus, Amelio racconta la storia di Jean, un ragazzino algerino francese che ce l'ha fatta.

Jean torna ad Algeri per trovare la madre, e ricorda la sua infanzia, quando gli aguzzini francesi opprimono e torturano i partigiani algerini, quando i bambini erano bambini.

e ricorda e va a trovare la madre, e anche il suo vecchio maestro, grazie a lui gìha studiato e ha potuto diventare un uomo di successo, in Francia.

il film riesce a non annoiare mai.

buona visione - Ismaele


  

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 


Un'opera raffinata e umanissima, in grado di rivendicare l'importanza della memoria non solo personale ma collettiva, una memoria che deve essere adoperata come strumento d'indagine delle contraddizioni del presente. Sotto questo punto di vista quindi un film che guarda al passato per farsi attuale e necessario. Cinema di qualità estetica elevata e d'importanza civile. Da applauso.

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Nel rielaborare il testo del premio Nobel, Gianni Amelio contamina l'autobiografia (sotto falso nome) di Camus con invenzioni ispirate (la scena dell'accalappiacani) e diversi aneddoti della propria infanzia. Confeziona così un film al contempo elegante e personale, che riprende ancora una volta il tema della paternità negata o assente, proiettandola nella Storia. La pellicola è al contempo una summa del suo stile narrativo: misura e controllo della recitazione, carrellate realizzate con la steadycam, campi e controcampi “televisivi” che si alternano a elaborate riprese lunghe. Il tutto con un cast misto di esordienti e attori di esperienza che gli permettono di superare tutti i limiti del biopic, dando vita a un lungometraggio toccante, impegnato e ricco di contenuti importanti. Notevole, dal primo all'ultimo minuto.

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 Il basso profilo della recitazione suona come un vistoso gioco di interni umani accarezzati e di rimosse speranze passate. Sì, perché il mondo che vive lo scrittore al ritorno è quello di un bambino riconosciuto (dentro), nel volto di Nino Jouglet (ridente ed efficace), che si allontana dalla sua casa per misurarsi con vie e dintorni vicini (sapendo bene che sua nonna usa maniere forti nei rimproveri). Come quando giocherella con i cani in gabbia e con altri ragazzini li libera tutti; ma il ‘signore dei cani’ (come un nomignolo di favole illustrate) non vuole sapere del suo candore (forse questa volta era nel giusto) e lo tiene rinchiuso nella sua gabbia per molte ore (lì di fronte all’orizzonte del mare con un’immagine che è degna di romanzi d’avventura, di fasulli eroi e di reconditi vezzi di fantasie aggrumate). Una scena di speranze passate e di livori presenti: rinchiudere il se e il ma in un connubio di intenti ideali. E sì che i bambini prima riescono a darsela a gambe scendendo dagli alberi in un nascondimento perenne e solitario mentre la loro corsa appare vivace e piena di cieli. La prigione del bambino Jean è di fianco al carrozzone di legno del Gatto e la Volpe (Franchi e Ingrassia) all’inizio del ‘Pinocchio’ di Luigi Comencini come il suo urlare è quello di Pinocchio che vuole assolutamente correre (e capire il mondo intorno) e avere le gambe di carne e ossa. Ma il suo sguardo fisso e attraente ricorda quello di Bruno (Enzo Staiola), un commiserato povero di famiglia di “Ladro di biciclette” o uno ‘sciuscià’ (Pasquale o Giuseppe del film di Vittorio De Sica) di strada che ha voglia di voler pulire le scarpe del suo folletto animo.
   Siamo negli anni venti quando il giovanissimo Jean andava a scuola e colloquiava con pochi e si menava con Hamoud Djamel Said) per ‘urgenze’ razziali e religiose. “Femminuccia”, mai dirlo ad un bambino che al minimo appiglio può partire senza pensarci e darl(se)le di santa ragione. Un bambino e il suo maestro, ciò che un ruolo non riesce dimenticare e quando quel ruolo ricorda una frase di una vita: “ogni bambino contiene già i germi dell’uomo che diventerà“ (quell’incontro dopo tanti anni è suggestivo non nel luogo e nei modi ma nel profondo delle vite di due persone oramai avanti negli anni).
   Ma i fatti narrati e il riassunto di uno scrittore (seppur famoso) non possono essere la cartina da tornasole di un paese e della sua civiltà. “Chi scrive non è mai all’altezza di chi muore”: qui sta il nocciolo importante e fondamentale di un  gruppo o di una nazione che aspetta fatti più che giochi romanzati. E così che l’approccio di Jean adulto all’Università (di fronte agli studenti) è solo tradimento per chi li ha lasciati ed è diventato famoso scrivendo in terra ‘straniera’ (la Francia di cui ogni comunicazione coloniale si vorrebbe tranciare). Sì appare e lo è un tradimento irreparabile, una sconfitta di un ideale e una denigrazione del suo popolo (è proprio vero che più volte, quando si torna nella ‘propria casa’ di origine, i nemici attorno crescono e l’invidia cova sotto la cenere…).
   E sì che Amelio riesce a mettere una passione dirompente lungo tutta la pellicola nonostante pare tutto un susseguirsi di schemi ameni ed inermi: i visi, le gesta e i dialoghi rivelano un pastoso animo ‘filmico’ in subbuglio. Tutto in merito destabilizzante e meno in luci sgargianti: l’uomo isola se stesso e sconquassa l’intorno comunque. Devastante lo scandagliare i visi e i loro interiori modi con traini e spinte narrative affrante e salivari. Un film pieno di istantanee perse e ritrovate da ciascuno. E una sedia, un tavolo e un bicchiere vuoto che cade tra le mani di Jean (adulto) subito viene rimesso a posto: un silenzio e un piccolo rumore assordante con le voci in sottofondo di una bevuta in lontananza di un bambino vicino al mare (“Il ladro di bambini” e la scena in spiaggia con bicchieri che si annodano tra le mani); nello stesso tempo il bambino assapora il gusto marinaresco tra la mamma e lo zio in un colore ammantato di vapori (in)passato in un lungo riva di stile che fu e di nostalgia stantia. Il gusto mescolante di posti, luoghi, tempi e film diversi desta nello spettatore un’allegoria e una fantasia acclamato ria fuori da ogni gesto autoreferenziale e acclamante. Una regia sobria, delicata e di grande efficacia rendono i posti fermi e compatti come se i vari personaggi fuoriuscissero a piacimento per scorrere nei percorsi temporali e spaziali. Su accorgimenti carezzevoli e piani immagini a spirale nelle profondità interne non certamente negli allunghi di un teleobiettivo imbastito di presente-passato come fuorilegge di colori festanti nell’orizzonte chiuso da un aborto ignoto. Quello che non si vede è il senso profondo della fine e del tempo inesistente. Un giorno che sta volgendo alla fine: una sera estiva per Jean adulto, una sera autunnale per sua madre e i ricordi sempre più sottratti…

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Il film, nel suo passare continuo e fluido tra presente e passato, tra anni '20 e anni '50, mette in scena l'impossibile integrazione di francesi e algerini lungo più di 30 anni, raccontando il colonialismo strisciante di Parigi e dei suoi generali, il fascismo culturale delle istituzioni e della scuola e le figure che con umile dignità seppero ribellarsi alle costrizioni, se non quelle politiche, almeno quelle umane.
Decisamente mi sembrava a tratti di vedere un film di Rossellini, maestro nel raccontare in soggettiva di bambino (non so se qualcuno di voi ha visto lo splendido Germania Anno Zero).
Descrivere la realtà guardandola con gli occhi di un bambino e riuscirci con tale risultato, e comunque descrivere la realtà con tutte le complesse sfumature sociali politiche, umane con tale dovizia di particolari e sensibilità, fa di Amelio (e lo ha già dimostrato più volte) colui che in qualche modo continua il percorso intrapreso da Rossellini...Bellissimo film, davvero, altamente consigliato anche per chi non conosce D'Amelio, un'occasione per pensare di andare a rivedere capolavori come "Lamerica", "Ladro di bambini", "Cosi' Ridevano"...

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