tratto da una storia di Giorgio Scerbanenco, il film nelle mani di Fernando Di Leo diventa un gioiellino.
una storia terribile, nei primi minuti si vede e si capisce tutto e poi tocca al commissario Lamberti cercare di capire cosa è successo.
una sceneggiatura che non lascia respiro, non perdetevelo.
buona (violenta) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo
…Qualche
anno prima di “Arancia meccanica” di Kubrick, Di Leo ci mostra i “nostri”
drughi nostrani, che bevono anice lattescente al posto di “latte più” e
risultano molto ma molto più brutali e meschini di Alex e la sua banda. Di Leo
prende come spunto il lavoro di Scerbanenco per costruire una storia che per
l'epoca era davvero attuale e per alcuni fatti di cronaca quasi premonitrice.
Ottima la scelta di Pier Paolo Capponi, che riesce
ad incarnare un commissario dalle mille sfumature: deciso ma tenero con chi
capisce che potrà condurlo alla soluzione finale, convinto a catturare il
mandante contro tutto e tutti, anche a costo della propria carriera.
Ottima la scelta di utilizzare per il “branco”
ragazzi di strada, non attori professionisti, scelti esclusivamente per le loro
caratteristiche fisiche e per i volti segnati da una reale vita difficile.
Alcuni di loro hanno cercato in seguito una
carriera nel settore cinematografico, invano.
Un' "Arancia
meccanica" arrivata in anticipo e senza lo straordinario talento
visionario di un genio come Kubrick, ma di Leo, con pochi mezzi (si notano
alcune inquadrature da "buona la prima"!), riesce a rendere
un'atmosfera angosciante e coinvolgente, tutta italiana ma esportabile. Viene
voglia alzarsi dalla poltrona e stringere la mano al regista per dirgli:
"Bravo! Davvero bravo!"
Quando osserviamo quel
manipolo di delinquentelli farsi stupratori e assassini della loro giovane
insegnante, la prima impressione che ne riceviamo è di essere dinnanzi a dei
figli del demonio. Le loro facce torve sono il manifesto incontestabile
del Male che li governa. La loro impassibilità, o meglio ancora la
loro ferrea serenità, ci è insostenibile. Di fatto tutto ciò che vien
dopo, nel film, si configura come un'umanizzazione progressiva di questi
piccoli mostri, a partire da quella prima, orrifica, Polaroid
iniziale. Per esempio uno dei ragazzi, il più giovane, non ha il coraggio
di guardare la fotografia dell'insegnate straziata; un altro ha sonno, quasi in
maniera infantile; un altro ancora sembra raggiungere il suo stato di
beatitudine massima solo per il fatto di poter indossare giacca e cravatta,
sotto la Galleria Vittorio Emanuele, come una persona perbene. Sono più gli
adulti, incredibilmente, nel seguito, a farci ribrezzo: chi non ha intenzione
di contribuire a risolvere il caso, chi vuole disfarsi dell'ingombrante
presenza dei ragazzi il prima possibile, chi vuole conservare la poltrona... e
soprattutto colui che ha empiamente corrotto le menti dei giovani
prospettando loro soldi e donne facili. A quest'Omino di Burro
è sufficiente una lucente Porsche - e un po' di alcol - per catturare
la loro fantasia, e ingabbiarli in un bituminoso sogno da Paese dei
Balocchi. Io tuttavia non credo ci sia un intento giustificazionista alla base:
come dire, i giovani sono cattivi perché sono cattivi gli adulti. E non è
neanche lontanamente presente un sottotesto consolatorio, del tipo, l'uomo
nasce secondo principi di bontà, e viene contaminato dall'ambiente che lo
circonda. Penso piuttosto che la poetica di Di Leo si cibi di una visione del mondo
in cui tutto è nero, sia il giovane sia l'adulto, sia la persona perbene sia
l'uomo dei bassifondi, sia il criminale sia il poliziotto. Solo il burbero
commissario Lamberti rimane estraneo a questo inferno, ma la sua faccia ci dice
moltissimo sul fardello della sua battaglia in solitario.
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