un'opera cupa, due scarti della società s'incontrano e da lì nasce un rapporto complicato, ma si capiscono subito.
Roberto Herlitzka è perfetto per quel ruolo.
le sette opere di misericordia sono quelle del Vangelo secondo Matteo.
i registi poi hanno girato solo Spaccapietre.
da non perdere.
buona (misericordiosa) visione - Ismaele
Torino. Luminita è una giovane clandestina
moldava che sopravvive grazie al borseggio di cui deve poi dare i frutti ai
suoi 'padroni'. Luminita ha però un piano per sfuggire al loro controllo e
ottenere dei documenti falsi. Inizia a metterlo in atto scegliendosi una
vittima a caso. La vittima è Antonio, un uomo anziano e malato che vive in una
situazione di semidegrado ed è costretto periodicamente a farsi ricoverare in
ospedale. È lì che la ragazza lo incontra e inizia a seguirne le mosse.
Se vivessimo nell'area francofona in cui la passione cinefila è ancora
intensamente vissuta si potrebbe paragonare l'esordio nel lungometraggio di
finzione dei fratelli De Serio a quello dei Dardenne con La Promesse.
Temiamo invece (sperando ovviamente di essere smentiti) che questo film non
riceva l'attenzione che invece merita. Perché la rilettura delle cristiane
opere di misericordia non ha nulla di confessionale e invece ha moltissimo di
quel cinema che sa scavare a fondo nell'animo umano tout court…
Luminita ha una vita fatta di espedienti ed emarginazione, Antonio invece
consuma le sue giornate nella solitudine di una vecchiaia senza parole.
L'emancipazione di entrambi passerà attraverso un incontro, in cui le
differenze ed i contrasti si scioglieranno nella consapevolezza di una
sofferenza comune.
Modulato sulle estetiche di un cinema derivato dalla realtà, ma capace di
superarla per diventare apologo esistenziale, e qui ci riferiamo alla
fenomenologia del quotidiano dei fratelli Dardenne, ed al Krzysztof Kieslowski
del "Decalogo", ripreso nella traslazione sul piano laico e prosaico
di un tema evangelico e religioso, "Sette opere di misericordia" vive
sul contrasto tra l'essenzialità di un racconto minimalista, quasi muto,
costruito sulla gestualità, anche corporale dei personaggi, e la complessità di
una messinscena, dalla fotografia desaturata al puzzle di suoni reali ed
artificiali, organizzata per dare voce all'ineffabile, nel tentativo di far
emergere l'universale dal particolare. Immergendo la vicenda in un paesaggio
urbano tanto concreto, per la specificità di ambienti quasi sempre lontani
dall'iconografia del benessere, quanto rarefatto, per il progressivo diradarsi
degli elementi che normalmente costituiscono la cornice della storia, quelli
che permettono di inserirla in un contesto geografico o temporale, i fratelli
De Serio, al loro esordio in un lungometraggio di finzione, danno vita ad una
serie di quadri, ognuno dei quali è introdotto da una didascalia riferita
all'opera di misericordia (corporale) che i personaggi stanno per compiere…
Schermo nero. Rumori, presenze. E poi Luminita, giovane
moldava, marginale persino in una baraccopoli, clandestina in cerca del minimo
riconoscimento sociale, di un documento falso che documenti una (comunque)
falsa integrazione. O quantomeno certifichi la sua esistenza. E poi Antonio,
anziano prossimo alla morte, dedito ad affari la cui mancanza di limpidezza ha
probabilmente bruciato e bucato la gola, uomo solo, bisognoso di cure mediche.
Lottano, entrambi, per la sopravvivenza. E si scontrano: lei rapisce un neonato
per rivenderlo in cambio di un’identità, aggredisce l’uomo, gli si installa in
casa, lo sequestra nella sua stessa dimora. Poi, muti per divergenza
linguistica e handicap fisico, si incontrano. Si guardano. Si comprendono. I
gemelli De Serio, classe 1978, non sono una scommessa: le loro opere, tra
installazioni, corti e documentari (l’ultimo, in ordine di tempo, è il
bellissimo Bakroman), hanno girato il mondo,
sono state premiate ovunque. E hanno creato una poetica riconoscibile, una
visione del mondo e del cinema: un’arte che cammina verso i margini, che si
muove lungo i bordi, che guarda e insegna a guardare al di là di ogni
pregiudizio, di ogni significato automatico, cristallizzato, stantio. Per
questo scelgono, per il loro esordio nel lungometraggio di finzione, di
riempire il Cinemascope, il formato dello Spettacolo, dello spettacolo misero e
umano della realtà. Per questo non ricorrono a facili drammatizzazioni, per
questo creano vuoti ellittici in una narrazione potenzialmente piena di
thrilling. Per questo non invitano all’immedesimazione classica, non
addomesticano i personaggi per renderli gradevoli allo spettatore, per questo
se ne fottono del manicheismo: non ci sono buoni e cattivi, qui. Ci sono
uomini, prima che funzioni narrative. Per questo i cartelli che, tra Kieslowski
e Godard, citano le sette opere di misericordia e punteggiano la storia si
svestono dell’iniziale ironia, fino ad astrarsi dagli eventi mostrati. Perché
questo è cinema, rarissimo oggi in Italia, che mostra la realtà e chiede di
andare oltre, dallo stato delle cose allo spirito. Per questo parte dal vero e lo
scolpisce nel tempo, con i suoi suoni, la sua luce: per dare forma a un
concetto, a un sentimento di comprensione. E se il rigore si compiace, se
l’idea di cinema si dice troppo esplicitamente, è per marcare la propria - già
evidente - differenza: un neo giustificabile, in un’opera prima.
Dal Vangelo secondo Matteo: 1. Dar da mangiare agli affamati;
2. Dar da bere agli assetati; 3. Vestire gli ignudi; 4. Alloggiare i
pellegrini; 5. Visitare gli infermi; 6. Visitare i carcerati; 7. Seppellire i
morti. Sono queste le sette opere di misericordia del titolo. Rilette in altra
forma dai due gemelli De Serio, Gianluca e Massimiliano.
Se nel Vangelo queste sono quelle richieste dal
Cristo, per ottenere il perdono dei peccati ed entrare nel suo regno, nel
cinema dell’esordio dei fratelli De Serio queste diventano i sette fondamenti
su cui si poggia un’estetica della vita e dell’azione, che al suo interno
conserva, ma nello stesso tempo distrugge, ogni genere…
E’ un film che si può sintetizzare in un unico aggettivo:
crudele. Le sette opere di misericordia corporale (poi ci sono anche quelle
spirituali perché giustamente sette sole non bastavano) sono quelle richieste
da Gesù per guadagnarsi il regno del Padre. A prescindere dai significati
cristiani la rappresentazione delle realtà proprie dei due protagonisti (con la
superba espressività del sempre splendido Herlitzka) ben rappresenta alcune
situazioni sociali e l’effettivo calvario di molte esistenze. Due percorsi
pregni di differente sofferenza si scontrano, s’incontrano accudendosi e infine
trovano due distinti e personali momenti di sofferta gratificazione nel
“riscatto” del neonato e nel ravvedimento e restituzione dello stesso. La
conseguente immancabile punizione evidenzia la componente “bestiale” di tanti
umani a prescindere dall’etnia. Il film si chiude con l’unica speranza che,
come sempre, dovrebbe risiedere nell’amore. A mio parere è un film che anche
senza alcune ostinate sequenze (es: svestizione della moldava o nel finale
assurdo persistere del bianco al lunotto del bus) e con qualche dialogo in più
non avrebbe perso nulla del suo messaggio. In questo nasce il sospetto
d’inutile forzatura verso il cinema d’essai…tranquilli gemelli! …anche con
qualche taglio non sarebbe stato ugualmente un film per tutti.
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