Niels Arden Oplev riesce a tenere alto il livello della storia, dosando morte e amore, senza annoiare mai.
buona visione - Ismaele
…L’asso nella manica del regista danese è la debordante componente
melodrammatica di Dead Man Down,
enfatizzata dalla fisicità dei due protagonisti. Lasciandosi trascinare in
questo tourbillon di vendette personali e sentimenti irrefrenabili, che
prendono il sopravvento e rattoppano il côte gangsteristico, si possono
probabilmente apprezzare anche gli eccessi narrativi. Tra i tanti, l’irruzione
suicida con la macchina nel villino: una classica e impossibile situazione di
“uno contro tutti”, con i proiettili che fischiano all’impazzata mancando
sistematicamente l’eroe senza paura, ma non senza macchia. E allo stesso tempo,
probabilmente, ci si può immergere nel mood della sequenza, che sembra presa di
peso dal cinema hongkonghese anni Ottanta/Novanta. Insomma, un interessante
cortocircuito geografico: Danimarca, Hong Kong e Stati Uniti. Ma non solo,
visto che il tenebroso Victor è ungherese e la sfortunata Beatrice francese. Un
melting pot che ci trascina in una New York grigia, tra capannoni industriali
che nascondono macabri segreti e palazzi che ospitano silenziose solitudini.
La storia d’amore tra Victor e Beatrice e le ferite
interiori e fisiche del loro passato sono il motore del film, la vera ragion
d’essere di Dead Man Down. Più della
vendetta, delle sparatorie e del piano arzigogolato contano la redenzione e il
riscatto. È il viso sfigurato di Beatrice/Noomi Rapace (in netta ripresa
dopo Sherlock Holmes – Gioco di ombre e Prometheus) a distogliere l’attenzione dalla
maldestra detection della banda di
Alphonse; sono le ombre e i fantasmi di Victor/Colin Farrell (attore dalle
scelte spesso imprevedibili) a prendere il sopravvento su alcune sequenze dal
basso grado di verosimiglianza. È la potenza del melodramma a riscattare
un vengeance movie altrimenti meccanico e
convenzionale…
…Badando poco al bunker dei
ricordi che sa di parecchio già visto, in particolare ci colpiscono alcuni
punti del film: il momento della cena al ristorante, con i goffi tentativi di
Victor e Beatrice di camuffare la verità sulla rabbia che covano, sull'accecata
sete di giustizia, lasciando però trapelare quanto desiderino disperatamente
ricominciare con qualcuno; le persecuzioni che Beatrice subisce quotidianamente
dai bambini del quartiere, culminate sul vestito chiaro depositario di sogni e
aspettative, pagina bianca da voltare che ancora una volta si macchia di
sangue; il legame profondo e protettivo che la stessa ha con la madre (una
splendida e sempreverde Isabelle Huppert), parzialmente sorda, con cui
condivide il problema della disabilità.
Dettagli apparentemente
insignificanti, ma da cui s'intravede lo zampino di una sensibilità europea,
infiltrata anche nella miscellanea di un cast di provenienza francese,
ispano-svedese, irlandese ed inglese. Un'influenza che fortunatamente si
ripercuote sulla retorica a stelle e strisce, riuscendo a smorzarne la
tradizionale stucchevolezza.
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