lunedì 22 ottobre 2018

Bronson – Nicolas Winding Refn

Tom Hardy interpreta Charles Bronson, l'uomo più cattivo della Gran Bretagna, ed è un mostro di bravura.
il film è davvero strano, dall'inizio, e bellissimo, non è un film che racconta le storie di un nonviolento come Gandhi.
Bronson non riesce a non dire sempre l'ultima parola, anzi l'ultimo pugno, non importa come andrà a finire, lottare per lottare è la sua fede.
ma come fai a raccontare di un film come questo?
bisogna vederlo.
e allora buona visione, non ve ne pentirete mai - Ismaele






Una vita incredibile, assurda ed estrema, un monumento al nichilismo, una titanica ed insopprimibile tendenza all’annientamento, alla mortificazione del corpo e dello spirito. Ma pure un problema sociale irrisolvibile, che manifesta, con il caso Bronson, l’incapacità del sistema detentivo di assicurare il rispetto della dignità fondamentale di un uomo costretto a vivere gran parte della propria esistenza in isolamento. NWR ci racconta la storia di quest’uomo in maniera non convenzionale e antinaturalistica. Pur se con qualche consonanza cromatica, il carcere disegnato da NWR, entro il quale si svolge gran parte della pellicola, è distante anni luce da quello messo in scena in Hunger da Steve McQueen (entrambi i film sono del 2008). Due storie vere, in egual modo, che raccontano la vicenda reale di due primatisti delle peggiori esperienze carcerarie britanniche, ma che indagano e perseguono finalità profondamente differenti. Quello di Steve McQueen è un affresco politico, il corpo di Michael Fassbender / Bobby Sands è lo strumento per raccontare una lotta, per mostrare un atto di sacrificio, ed il carcere è nel suo film il luogo dell’oppressione, dell’annientamento, dell’abiura, ma anche del gesto sovrumano, della volontà (politica) che domina la biologia. NWR è invece interessato all’indagine dell’istinto di questo straordinario e sbalorditivo personaggio, d’un posseduto da un’aggressività irrefrenabile, incapace di vivere nella società, quasi che fosse una belva feroce, una cristallizzazione genomica proveniente da un lontano passato della specie. Il carcere è dunque un set, una ribalta, la sola della quale dispone Charlie, sopra la quale mettere in scena il suo spettacolo. Una ribalta reale che diviene immaginaria nel film: Charles stesso interagisce con il pubblico immaginario di un teatro, truccato da clown o con il viso diviso a metà, narrando le proprie gesta come un attore che mette in scena una storia. È solo alla fine che il carcere diventa una gabbia, una terribile scatola di metallo dentro alla quale rinchiudere il “caso” Charles Bronson, ed il dolore – estetizzato in chiave gore – prenderà il sopravvento…
da qui

Ogni facile sociologismo, ogni giustificazionismo che riconduce la violenza dell’individuo a cause sociali e di deprivazione economica, viene fortunatamente spazzato via dal film di Refn. Peterson/Bronson nasce e cresce in una famiglia middle class assai perbene che, come usa dire, non gli fa mancare niente, non è dunque il prodotto di chissà quale triste emarginazione. Il suo primo colpo, quello alla banca con un fucile a canne mozze, lo fa semplicemente perché ne ha voglia e gli piace, per puro gusto dell’infrazione e dell’effrazione, forse anche per pura malvagità. E tutto quello che in seguito combinerà in carcere (rivolte devastanti, risse, combattimenti bestiali con detenuti e secondini) lo farà per usare la violenza come piedistallo del proprio mito, e (forse) anche per trasformare il proprio corpo, i propri muscoli, la propria animalità-belluinità in opera d’arte, in performance e esibizione dandistica, secondo un processo di estetizzazione della brutalità e della violenza, del sangue e della carne, non si sa quanto istintivo e inconsapevole, e quanto invece assai consapevole. A un certo punto della sua parabola Bronson scoprirà in carcere, attraverso l’intervento maieutico ma non disinteressato di un insegnante, di essere un artista dotato, di avere cioè una visione estetica del mondo e di saperla trasferire in lavori, in disegni, che immediatamente hanno successo e gli procurano fama fuori dal carcere…

"I showed magic in there!" he shouts after one brawl, bleeding in triumph. How's that? Magic, like in opening night? Does he expect a standing ovation? I believe most of us, no matter how self-destructive, expect some sort of reward for our behavior. It may not be some people's idea of a reward, but it's ours. Is Bronson then an extreme masochist, who only wants to be hurt? They say there are masochists like that, but surely there's a limit. What kind of passionate dementia does it require to want to be beaten bloody for 34 straight years?
I suppose, after all, Nicolas Winding Refn, the director and co-writer of "Bronson," was wise to leave out any sort of an explanation. Can you imagine how you'd cringe if the film ended in a flashback of little Mickey undergoing childhood trauma? There is some human behavior beyond our ability to comprehend. I was reading a theory the other day that a few people just happen to be pure evil. I'm afraid I believe it. They lack any conscience, any sense of pity or empathy for their victims. But Bronson is his own victim. How do you figure that?

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