martedì 29 aprile 2025

Anime nere - Francesco Munzi

in questo film i delinquenti non hanno fascino, l'ndrangheta è morte, il regista va in controtendenza rispetto alla 'bellezza' delle organizzazioni criminali che spesso appare sullo schermo.

la storia diventa dramma nel dramma, quando il terzo fratello, quello rimasto nel paese calabrese, non sopporta più quello che succede e sembra impazzire.

un film da non perdere, promesso.

buona (drammatica) visione - Ismaele


 

  

Bel film e utile a vedersi. Sul disastro morale interiore, fatto di ansia e infelicità, che comporta la scelta di vivere da criminali: i soldi e il potere, che ne derivano, non rendono meno fallimentare tale scelta, per lo stesso che la compie. Il registro drammatico è dosato benissimo, e culmina in un finale stupendo e sorprendente…

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Ci sono tre fratelli molto diversi tra loro, a capo di una famiglia mafiosa in ascesa tra la Calabria, Milano e la Spagna, ma il pensiero non corre a Il Padrino di Sonny, Michael e Fredo, piuttosto alla tragedia sublime de I Fratelli Karamazov. Complimenti. Un film consigliatissimo.

Ci sono tre fratelli molto diversi tra loro, a capo di una famiglia mafiosa in ascesa tra la Calabria, Milano e la Spagna, ma il pensiero non corre a Il Padrino di Sonny, Michael e Fredo, piuttosto alla tragedia sublime de I Fratelli Karamazov. Come nel romanzo di Dostoewski, ognuno è a suo modo condizionato dal fantasma ingombrante del padre, ucciso anni prima in una faida con la 'ndrina rivale. E nessuno dei tre sfuggirà al finale che è già scritto per loro.

Il film è recitato quasi per intero in dialetto calabrese (con sottotitoli). Di solito sono piuttosto scettico sugli escamotages "realisti" di certi autori che si crogiolano nel vezzo di rappresentare la realtà "senza filtri". Che illusione! Il cinema è una finzione a beneficio dello spettatore, che ha diritto a un prodotto godibile e non a una lezione universitaria. Ma in questo caso, la scelta del dialetto paga, eccome! Ci accompagna dentro il dramma, senza appesantire più di tanto la visione, grazie alla mimica dei (bravi) attori, che spesso lasciano intuire il senso del dialogo anche se non indugiamo nei sottotitoli.

Complimenti. Un film consigliatissimo.

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Il regista, Francesco Munzi, non indugia in scene esplicite di violenza agìta, non ammicca ai generi (gomorra e suburra), non sbraita, non cerca l’effettaccio. Racconta i fatti con freddezza, e senza giudicare: le vicende sono di per sé implosive; i personaggi hanno sui volti immobili la condizione esistenziale di infelicità, indipendentemente da quanto va accadendo; la logica ineludibile della vendetta e del sangue-chiama-sangue è più agghiacciante e annichilente di ogni brutalità.

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Anime nere rinuncia a ogni fronzolo e a ogni artificio narrativo, raccontando con sincerità e amarezza una storia di uomini e di famiglia, ma anche un triste spaccato di una parte della nostra società, incapace di lasciarsi alle spalle un meccanismo marcio e perverso che corrode ogni cosa con cui viene a contatto. In un incessante susseguirsi di violenza e vendetta, a emergere sono allora l’ineluttabilità del proprio destino e l’impossibilità di arrestare un’assurda spirale autodistruttiva, ben simboleggiate da un nucleo familiare apparentemente normale, ma che in realtà cela al suo interno una lotta intestina fra impulsività e raziocinio, tradizione e progresso, onore e perdono.

Francesco Munzi centra l’obiettivo di raccontare i meccanismi alla base della criminalità organizzata con una regia asciutta e dal taglio documentaristico, ma anche con un ottimo lavoro in fase di sceneggiatura, che scava in profondità nella mente di personaggi complessi e ricchi di sfaccettature, ben compensando qualche piccolo calo di ritmo con qualche prevedibile ma ben assestato colpo di scena, e un incalzante finale che chiude perfettamente il cerchio della storia. Su tutto domina un Aspromonte mai così cupo e opprimente, che osserva e accompagna i protagonisti diventando un vero e proprio personaggio del film…

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domenica 27 aprile 2025

I fantasmi del cappellaio – Claude Lelouch

tratto da un romanzo dell'ottimo e prolifico Georges Simenon, nelle mani di Claude Chabrol diventa un gran film, che ha come protagonisti Charles Aznavour e Michel Serrault.

girato in Bretagna, il sarto Kachoudas (Aznavour) e il cappellaio Labbe hanno i laboratori (e case) uno di fronte all'altro. Kachoudas sospetta che Labbe sia il serial killer di diverse donne della cittadina e lo marca stretto, lo segue dsppertutto, ha capito tutto, ma ha paura.

un film che non si dimentica, un gioiellino da non perdere.

buona (tormentata) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in italiano

 

 

Il film offre almeno tre aspetti di visione: il principale o quello che sembra tale ovvero la vicenda delittuosa del cappellaio, che coinvolge il suo dirimpettaio, così vicino e così lontano, che chiede solo di poter continuare a vivere in quel posto così tranquillo; poi la vita del piccolo borgo, descritta minuziosamente, i suoi personaggi, le sue vie, il mercato, il cinema Lux che programma film distanti tra loro più di vent'anni, i bar del centro e quelli del porto, la prostituta, signora riverita che conosce l'intimo di tutti; infine la solitudine.

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Un duetto di attori,diretto in modo magistrale dal maestro Chabrol....per chi ama il giallo...e le solitudini.

In una piccola cittadina piovosa della provincia francese,il sarto Kachoudas  (Aznavour) si domanda perche' la moglie del cappellaio Labbe' (Serrault) ,che abita di fronte ,sia sempre cosi' immobile dietro le tende,infatti e' un manichino,perche' la donna e' stata uccisa.A partire da un romanzo di George Simenon e sceneggiato dallo stesso regista,restera' per sempre uno dei massimi lavori di Chabrol,che sforna uno splendido dramma "chabroliano" nel vero senso della parola,un vero omaggio a Psycho e La Finestra Sul Cortile.Il tema e' sempre quello della provincia marcia,non tanto per il "giallo" (Chabrol scopre subito le carte) quanto a descrivere il rapporto con il suo dirimpettatio,il sarto voyeur,interpretato da un duetto di attori in forma strepitosa.Tutto sa di solitudine,le vie,la pioggia incessante,i bar fumosi,i personaggi di contorno,tutto racchiuso in un umido autunno.Chapeau Serrault....sei stato veramente una sorpresa (per me)....qualcosa di inimitabile,vedere per credere.Piu' che consigliato.

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Non è proprio un vero giallo, perché mancano la componente thriller e il mistero, visto che si sa già tutto dall'inizio. Ciò che sorprende è la perfetta resa del romanzo e l'atmosfera di grande morbosità che come sempre è in grado di creare Claude Chabrol quando si cimenta in storie di questo tipo. Va comunque detto che è anche grazie a uno straordinario Michel Serrault se il tutto funziona perfettamente. Poco utilizzato Charles Aznavour, ed è un peccato. Le citazioni da Hitchcock impreziosiscono il tutto.

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Entre l'intimité de la chambre conjugale où il monologue son délire, seul avec ses fantômes et le vernis glacé de la notabilité provinciale dont il se pare chaque jour au comptoir de son atelier comme à la table du café où il ne partage que l'apparence de l'amitié dans les sempiternelles et impersonnelles parties de carte avec ses faux amis, Léon Labbé passe son temps à jouer double jeu, à cacher la réalité de son existence : la peur, l'indicible peur qui le malmène tout le temps, la peur de souffrir, mais également l'incapacité de vivre dans la norme, comme Kachoudas ou les notables qu'il croit ses congénères…

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sabato 26 aprile 2025

Calcutta - Louis Malle

nel 1969, tre anni prima di Michelangelo Antonioni, Louis Malle gira in Asia, a Calcutta.

la vita di quell'immensa città si vede, si ascolta, mancano i brutti odori, ma s'immaginano.

quella città fondata dagli inglesi (il Signore li maledica) è piena di poveri, di miserabili, di malati, di schiavi, che a volte riescono a sorridere.

un film documentario come pochi.

buona visione - Ismaele


 

 

QUI il film completo, con sottotitoli in inglese

 

 

 

In “Calcutta” Louis Malle gira con la sua macchina da presa: riprende, testimone di quello che gli passa davanti. Una ripresa realistica, senza mai giudicare, senza nessuna forzatura o costruzione, senza mai volere ricreare certe situazioni … un documento, una testimonianza quanto più reale e concreta di Calcutta.
Certo la macchina da presa non passa inosservata e da osservatore si accorge ben presto di essere osservato ed ecco che decide di fare degli sguardi, dei primi piani il motivo dominante del documentario.
Oltre alle immagini si sentono i suoni e rumori di Calcutta, la sua voce fuoricampo di Louis Malle si sente raramente, solo quando è necessario aiutare lo spettatore nei repentini cambi di scena o le specifiche situazioni lo richiedono.

Louis Malle proveniva dal documentarismo e prima di allora aveva lavorato con l’oceanografico Jacques Cousteau. In questo documentario la sua ripresa è quanto più possibile vicino alla realtà, evitando manipolazioni  per tradire o sfigurare la realtà. Il regista non da indicazioni e a parte la lunga ripresa del documentario, il suo lavoro si limita nel montaggio a circoscrivere l’enorme materiale all’interno dei tempi cinematografici.

Quello che appare è una quotidianità dura, una lotta per la sopravvivenza, dove la morte si confonde con la vita, il matrimonio con il funerale. Folle di fedeli e di mendicanti per strade brulicanti, treni stracolmi, manifestazioni femministe, marce di protesta di operai o studenti, abitazioni fatiscenti, bidonville, mancanza di igiene … ma anche i suoni, la magia, i colori, il fascino delle tradizioni, della quotidiana ritualità, di etnie diverse, di canti, danze, di sentimenti e di persone che si riuniscono per festeggiare.

Un documento che non può lasciare indifferente, perché confonde lo spettatore, lo attira ma anche lo respinge come un elastico che si tende e si rilascia, così è per lo spettatore… 

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At the end of this cyclical coverage of Calcutta, one is left with a feeling of the crowded, cacophonous, almost lurid conditions of life in Calcutta. Since Calcutta was not an ancient Indian city, but was created as a service centre for British imperial interests, Malle is evidently castigating the West for creating these monstrous, inhuman conditions and not rectifying the faults that linger on. This is a fairly grim viewpoint, seen by an outsider, and it is one that might not be shared by Indians aware of the rich Bengali traditions and culture. Still, the film is a fascinating record, because Malle was one of the first people to get out on the streets and make movies about life as it existed there. He had amazing access to a wide spectrum of city life in Calcutta, and the images are not staged or faked. Malle’s interesting kaleidoscopic perspective is still available on film, as it was forty years ago, for anyone to see and make of it what he or she will. For Malle, and for Mehta and Kipling, too, Calcutta may have been “the city of dreadful night”. Whatever perspective one takes, though, we are still trying to understand and learn, as Malle was, from what seems to be an alluring phantom.

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giovedì 24 aprile 2025

Sinners (I peccatori) - Ryan Coogler

un film che racconta gli Stati Uniti con lo sguardo dei neri, degli schiavi, degli ultimi.

due fratelli riescono ad aprire un locale dove i neri possano ballare e bere ascoltando la musica degli schiavi neri, il blues.

un luogo di libertà, per chi è sempre costretto a servire.

tutto va per il meglio, c'è anche un giovane superchitarrista, cugino dei fretelli per una serata indimenticabile.

ma i bianchi non ci stanno, e allora inizia la seconda parte del film, una questione di vita o di morte, una lotta senza quartiere, tutta da vedere.

e poi appaiono anche quegli assassini del Ku Klux Klan, è bellissimo vederli ammazzati, è quello che si meritano.

la fine è un dolce sogno, negli attimi prima di morire.

un film da non perdere, una bella sorpresa, andate e godetene tutti.

buona (musicale e mortale) visione - Ismaele 


ps: non uscite dal cinema subito, vi perdereste tre minuti importanti.


 

 

 

Si diventa immortali se ci si assimila all’elemento bianco. E quello che mette in scena Coogler è un conflitto fra identità culturali, all’interno del quale, una, la bianca, tenta in tutti i modi di appropriarsi dell’altra. Ancora più dell’utilizzo delle convenzioni di genere, corrette, ritmate, interessanti soprattutto nella rottura della suspense, ma non dissimili da molte altre altrettanto riuscite, è soprattutto nelle scene di raccordo dell’azione che va ricercato il senso più profondo. Quanto fascino e inquietudine c’è nella contrapposizione tra il blues grezzo suonato nel Juke Joint dal giovane Sammie (Miles Caton, esordiente nel cinema e musicista dall’ancora esiguo seguito: poco più di 2000 followers su YouTube, ma qualcosa mi dice che la cifra s’innalzerà a breve) e la Rocky Road To Dublin cantata e danzata da Jack O’Donnell nello spiazzo antistante insieme a tutti i vampiri? Sembra un numero coreografato da musical, e invece è uno scontro violentissimo in cui una cultura (quella europea, incarnata dal folk irlandese, in questo caso) cerca di fagocitare le radici di quella nera per assimilarla e poi riproporla. Vampirizzandola, appunto. Non è quello che è successo davvero nell’industria musicale? (faccio ammenda: anche da parte dei miei amati Led Zeppelin, che senza i bluesman avrebbero scritto non più di 4 canzoni originali). Non vedevo una scena del genere dal 1960, quando Lillian Gish ne Gli inesorabili di John Huston suonò un pianoforte a coda davanti alla sua casa nella prateria per contrapporre la propria superiorità (musicale, culturale, razziale) ai flauti kiowa che risuonavano minacciosi nella vallata. Come dire: beccatevi Beethoven, selvaggi. Peggio solo Vecchioni alla manifestazione per l’Europa…

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Aiutatemi voi a dire quanto è bello Sinners perché a me manca la favella. E pensare che non avevo idea di cosa fosse, perché il trailer è decisamente ingannevole e lo fa sembrare un action coi vampiri che ha, come unica particolarità, il fatto di essere ambientato nel Sud degli Stati Uniti negli anni ’30. Già di per sé, questo non è poco, chiariamo: è il motivo per cui sono andata a vederlo, data la mia nota debolezza per tutto ciò che può essere definito Southern Gothic. Ma niente vi può preparare a Sinners, neanche se io ci scrivessi un saggio sopra, cosa che non sono in grado di fare perché mi mancano gli strumenti culturali.
Per rendere la cosa più semplice possibile, nella seconda parte, diventa un film di John Carpenter, un western d’assedio violentissimo coi vampiri che spuntano da ogni angolo; c’è persino la scena del test de La Cosa, però con uno spicchio d’aglio come discriminante per capire chi è infetto e chi no.
Potrei chiuderla qui, dirvi di andare a vederlo e di non considerare niente altro sia nelle sale in questi giorni…

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…La regia e il montaggio danzano a ritmi a volte placidamente insidiosi e spesso invece forsennati o irruenti, in un assedio che più volte viene fragorosamente interrotto prima del faccia a faccia finale. La musica non si spegne nemmeno quando iniziano i titoli di coda, che anzi danno solo il via al vero epilogo del film. Sarebbe un crimine raccontarlo, quindi ci limitiamo a dire che se da una parte può essere un eccesso didascalico - quasi Coogler volesse chiarire in modo del tutto esplicito il senso del suo film - dall'altra è però un colpo di coda. Riscrive quel che poteva passare per una risoluzione convenzionale sui toni, ancora una volta, di un dolente blues.

Coogler si avvale di un ottimo cast, spesso chiamato a performance canore o di danza. Tanto che non è la doppia performance di Michael B. Jordan (interpreta i due gemelli) a emergere, ma sono soprattutto l'esordiente Miles Caton, la nemesi Jack O'Connell e, in una scena di ballo indimenticabile, Jayme Lawson. Ha una forte presenza anche Wunmi Mosaku, black mama in contatto con gli spiriti e interesse romantico fuori dalle convenzioni per uno dei due gemelli Jordan. Più sexy che mai è poi Hailee Steinfeld, in controcasting rispetto ai ruoli cui ci aveva abituato di teenager deliziosamente a modo, in un film come Bumblebee e nelle serie Dickinson e Hawkeye. Michael B. Jordan ha soprattutto il merito di saper rendere facilmente distinguibile per la mimica facciale e del corpo i due gemelli Stack e Smoke: un'impresa non trascurabile. Che ciò nonostante siano gli altri a rubargli spesso la scena, non fa che testimoniare il valore di un cast in stato di grazia.

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…Un film che osa, azzarda, persino esagera nel suo costruire un racconto che parte sin troppo lentamente e si trasforma poi repentinamente in un film di genere che osa utilizzare una metafora vampiristica per denunciare un malessere insito nella innata malvagità umana.

Un horror, inoltre, che sa cogliere l'essenza del male fine a se stesso e elevato a qualcosa di assoluto e sin teorico, utile a giustificare una inguaribile indole umana predisposta alla violenza e alla prevaricazione.

Poi certo I Peccatori si evolve, si trasforma, esagera accavallando finali su finali, senza farsi mancare nemmeno sparatorie esaltate degne di Rambo, più che di Apollo Creed, per rimanere in zona di "zio Stallone".

Ma è anche un film sostanzialmente riuscito e coraggioso nel suo azzardare sin spudorato temi e tematiche che riguardano l'uomo nella sua inquietante essenza.

Scegliendo il vampirismo come metafora riuscita di un male che avvolge a sé e trasforma le proprie vittime attraverso una mutazione-dannazione da cui è impossibile tornare indietro.

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Quello di I peccatori è il medesimo territorio che percorrono Tarantino e Jordan Peele, ovvero lavorare in modo politico sui generi classici e rimettere in scena parte dell’immaginario tradizionale del cinema con una prospettiva personale. Solo che qui non c’è alcuna prospettiva personale ma un film che fa quello che fanno tutti gli altri, che obbedisce a ogni regola come un horror dozzinale, anche la parte di effetti digitale creazione del fantastico non ha nessuna personalità visiva! Una fotografia di primo livello, un montaggio estremamente abile e una confezione in generale professionale, danno l’idea di essere davvero davanti a un film importante. Peccato che non lo sia. Avrebbe potuto esserlo, viste le idee. E invece no.

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domenica 20 aprile 2025

Lavoro a mano armata (Dérapages) - Ziad Doueiri

Tratto da un romanzo di Pierre Lemaitre, diretto da Ziad Doueiri (regista de L'insulto e L'attentato), protagonista è Eric Cantona, circondato da tanti bravissimi attori e attrici.

Alain (che nel doppiaggio viene pronunciato da schifo, a Netflix sono ignorantissimi!), interpretato da Eric Cantona, è un disoccupato della felice età capitalista neoliberista, nella quale chi lavora ci mette un minuto (a volte meno) per diventare uno scarto umano.

I capitalisti sono descritti come sono nella realtà, vampiri assetati di licenziamenti e di soldi.

Alain vuole ritrovare una dignità che gli hanno tolto, accetta un lavoro pericoloso, mettere su un sequestro come ultimo rimedio di selezione del personale,  per riuscire a essere riamato e rispettato di nuovo in famiglia, e decide di rubare ai capitalisti, con l'aiuto di un amico hacker (Gustave Kervern), rubare ai ladri non è un peccato, pensa.

Una serie breve, si vede come un film lungo, non delude.

Buona convincente visione - Ismaele

 

 

 

L'Eric Cantona che troviamo a recitare in questa serie tv è esattamente quanto ci si possa aspettare: in grado di accentrare l'attenzione su di sé, ma anche di apparire naturale e di mostrare eccellente capacità di immedesimazione. Non si può certo dire che la vita di Alain Delambre possa essere simile a quella dell'ex star calcistica, ma il marsigliese di origine italo-spagnola rende benissimo nel ruolo dell'uomo di mezza età devastato dalla disoccupazione e dall'incapacità di trovare sbocchi. A livello caratteriale invece Delambre diventa abbastanza affine a Cantona, che deve riportare un personaggio tendente all'irascibilità e di estrema passionalità: e Cantona convince molto, anche nelle parti riflessive, dimostrando (ma ormai confermando) di essere ben più di una star sportiva prestata alla recitazione, ma di essere un attore a tutto tondo….

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Il titolo originale della trasposizione è Dérapages, slittamenti, sbandate: e Alain scivola progressivamente, nei sei episodi della miniserie, ai margini (e oltre) di una società dove tutto, dai luoghi istituzionali alle relazioni interpersonali, sembra dominato da quel «modello aziendale» iper-competitivo per cui «chi cerca lavoro è in guerra».

Ma è anche uno slittamento morale, perché lo stesso Alain, che ci narra a posteriori la sua vicenda da una cella di prigione, è il primo a dover fare sua la legge marziale non scritta che regola (ormai) i rapporti sociali: e la sua lotta per riconquistare una vita dignitosa si confonde allora col desiderio di rivalsa verso quel sistema e col rischio di diventarne lui stesso un perfetto esemplare...

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…Lavoro a mano armata risulta solido ed efficace, nella sua trattazione del capitalismo immorale, disumano e avido, che mantiene la povertà per arricchire i benestanti. Ma la buona riuscita dell’opera è data anche da altri due elementi, legati a doppio filo tra loro. Questo tipo di prodotti si focalizza normalmente solo su un aspetto del racconto, omettendo o elidendo il prima e il dopo. Lavoro a mano armata, invece, offre una visione completa e onnicomprensiva non solo sul sequestro ma anche sulla vita in carcere e sulle conseguenze economiche ed esistenziali di ciascun carattere in gioco…

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“Lavoro a mano armata” potrebbe sembrare estremo, strabordante, eccessivo. A ben pensare però riesce perfettamente nell’intento di rappresentare con ardimento e onestà l’immorale avidità del sistema economico che governa le nostre vite. La serie non si limita a raccontare l’umiliazione dovuta alla perdita del lavoro, né vuole concentrarsi sulla furiosa ribellione di un uomo ferito. Si spinge oltre, narrandoci le conseguenze, materiali e esistenziali, subite da ogni singolo attore in gioco. Ci si aspetterebbe ragionevolmente un malinconico finale, una qualche resa, un’ammissione di colpa? La sceneggiatura sceglie di invertire nuovamente la rotta, spazzare via ciò che restava del dramma sociale, per cedere nuovamente il passo ad un ritmo carico di tensione.  Un finale narrativamente accattivante, che non teme di svilire l’autenticità della critica sociale che la serie avanza.

Si inizia alla Ken Loach e si finisce alla Tarantino. Tutto ha inizio da un realismo sociale così ben fotografato da risultare violento. Si continua con un pathos crescente, iperbolico. Si conclude, o si ricomincia, là dove non ci aspetteremmo, o forse dove non vorremmo. Come in ogni storia in-credibile che si rispetti.

Una narrazione che si insinua nelle nostre menti, sgomita tra altre frivole visioni e resta lì, ad occupare il posto conquistato, domandandoci: assecondare un sistema disumano, magari illudendoci di giocare semplicemente la nostra personale partita, non ci rende forse altrettanto disumani?

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giovedì 17 aprile 2025

Panique – Julien Duvivier

tratto da un romanzo di Georges Simenon, Michel Simon (immenso) è Monsieur Hire, un uomo che non disturba nessuno, ed è mal sopportato da tutti.

il problema fatale è che s'innamora di una donna, lui si dà completamente, lei lo inganna dall'inizio e lo mette in trappola.

la calunnia è un venticello, dicono Gioacchino Rossini ed Edoardo Bennato, così in quel quartiere di Parigi la folla, non anonima, ma composta da persone che conoscevano l'antipatico barbuto, si attiva per linciare Monsieur Hire.

l'esito è terribile, con una sorpresa finale.

un film da non perdere, nessuno se ne pentirà.

buona (simenoniana) visione - Ismaele


  

QUI il film completo, in francese



Dal romanzo di Georges Simenon “Les fiançailles de Monsieur Hire” sono stati ricavati due adattamenti cinematografici:  “Panique” di Julien Duvivier (1946) e il più noto “L’insolito caso di Monsieur Hire” di Patrice Laconte (1989). Si tratta di due capolavori e non saprei dire quale sia il migliore. Alla sceneggiatura del primo lo stesso Simenon collaborò con Charles Spaak. Siamo di fronte ad un noir d’epoca di raffinatissima fattura, degno di titoli come “Le jour se lève” o “Quai des brumes” di Marcel Carné. Rispettando lo spirito del romanzo, regista e sceneggiatori non si interessano tanto al giallo, quanto all’atmosfera che si viene a creare intorno, al carattere del protagonista e alla mentalità del mondo meschino che lo circonda. In una località imprecisata della Francia, è  stato ritrovato il cadavere di una donna. Allo spettatore viene ben presto rivelata l’identità dell’assassino, come avviene in molti film di Alfred Hitchcock. I sospetti della collettività cadono invece sul taciturno e misantropo Monsieur Hire, uomo solitario e innamorato della giovane Alice (Viviane Romance), legata sentimentalmente ad Alfred, un malvivente cinico e volgare, che sappiamo essere l’autore dell’omicidio. Pur di salvare il suo compare, la ragazza fingerà di accettare la corte di Monsieur Hire, per poi abbandonarlo ad un atroce linciaggio. Film nerissimo, dunque, ma perfetto nella descrizione della piccola gente assetata di vendetta, di quel passa-parola meccanico e irrazionale che sfocia nella più feroce violenza. Michel Simon, che in questo ruolo non sembra proprio essere già un cinquantenne, ci appare alto, slanciato, con folta barba nera, occhi roteanti, ironico e talvolta sarcastico. Oscilla costantemente tra ingenuità e saggezza, incomprensione della realtà che lo circonda e giudizi sferzanti. La sua imponenza, la fermezza della sua recitazione ricordano le fenomenali prestazioni del migliore Orson Welles. Un film gigantesco, da riscoprire e valorizzare.

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Il misantropo Hire, astrologo di professione e fotografo per diletto, "immortala" un omicida e si innamora della donna di questi. Esemplare racconto sull'irrazionalità della "folla", con Duvivier che trasforma il caustico racconto di Simenon in apologo sul bisogno di capro espiatorio nella Francia non ancora libera dal "fascismo" di Vichy. Simon, possente e misurato reietto quanto ingenuo e delicato innamorato, è superlativo, accerchiato da una congerie di tipi "infami": la prostituta, il macellaio, il ladro inamidato, la donna perduta (sensuale Romance).

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Da un Simenon senza Maigret (Il fidanzamento di Monsieur Hire), Duvivier si conferma abilissimo nel catturare atmosfere, il crimine resta secondario, ed è opportuno evidenziare due date: il romanzo uscì nel 1933, fra i primi in cui lo scrittore si firmò con il suo vero nome, il film arrivò tredici anni dopo, compiuta la parabola delle leggi razziali e del collaborazionismo, categorie di persone erano state schedate, perseguitate, sterminate.

Nel 1895, il sociologo Gustave Le Bon aveva pubblicato Psicologia delle folle, testo discutibile ma terribilmente profetico; Le Bon si era interrogato sulle cause della paranoia e sulla malvagità in cui sprofondano le folle, attizzate da qualcuno o preda di paure irrazionali. Fritz Lang ne ricaverà M, il mostro di Dusseldorf, Clouzot il non meno tragico Il corvo. Anche Simenon aveva annusato l’aria, percepito l’incubo che stava arrivando, quanto è facile seminare sospetti e identificare un colpevole, pur di sentirsi innocenti.

Duvivier può contare su tre punti di forza: lo sceneggiatore belga Charles Spaak (il padre di Catherine, che aveva firmato La grande illusione); lo scenografo Serge Piménoff (sue le scene del Napoléon di Abel Gance); un attore come Michel Simon (L’AtalanteIl porto delle nebbie e tanto altro), fisicamente antitetico al personaggio narrato da Simenon.

La trama si sviluppa a Villejuif, sobborgo parigino. Monsieur Hire è un tipo solitario, non lega con nessuno, “diverso” dalla brava gente che compone quella comunità. Viene trovato il cadavere di una donna, proprio quando Hire si sta innamorando di Alice (Viviane Romance), che si è fatta qualche mese di prigione pur di salvare Alfred, il suo uomo. Certo, Hire è brutto, è un voyeur, ma il suo corteggiamento è gentile, delicato, si illude di poter iniziare una nuova vita, non sa del patto fra l’assassino e Alice, che – per amore – si presta a incastrare un innocente.

Il finale del film è ancora più tragico del romanzo.

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…Sin duda el encanto de la realización de Duvivier, con un guión firmado por él mismo y Charles Spaak, reside en la complejidad del triángulo romántico y la decrepitud moral de fondo: Hire la ve a ella desde la ventana de su habitación porque ambos comparten hotel, así se enamora y le hace saber que su novio es el verdugo de Noblet, algo que el susodicho le confirma en la cama para luego espantarse cuando la fémina le aclara que su vecino incluso tiene una prueba incriminatoria irrefutable que a su vez lleva al dúo de criminales a manipular a Hirovich ganándose su confianza para que ella plante la cartera de la occisa en el cuarto del hombre, estrategia que para colmo complementan con la “difusión” de nuevos chismes acerca del misántropo que incluyen la hipnosis, la pederastia y hasta el clavar agujas en las fotos para desencadenar dolencias varias en los retratados de ocasión. El opus explora con lujo de detalles lo fácil que resulta direccionar el odio popular hacia un chivo expiatorio que libere de culpas al verdadero responsable del crimen o los crímenes de turno, sobre todo en una dinámica social conservadora y claustrofóbica que castiga de manera tácita a cualquiera que no se amolde a los patrones prefijados y/ o cierto ideario en común. Varios son los personajes que encarnan a esta pusilanimidad obrera y burguesa en general: está Capoulade (Max Dalban), el carnicero con ocho hijos del barrio que ataca a Hire porque le critica la carne, luego viene Sauvage (Guy Favières), un patético recaudador de impuestos que la va de intelectual y despotrica contra las artes ocultas, y finalmente está el mismo Chartier, un payaso que fanfarronea cual criminal experimentado ante Alice pero que frente a Hirovich no puede hacer nada ante el ingenio, la rapidez y el brío del hombre.

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mercoledì 16 aprile 2025

L'attentato - Yves Boisset

il regista ricostruisce l'omicidio di Ben Barka, con un insieme di attori straordinari, tutti perfetti nel loro ruolo, merito di Yves Boisset, un grande, sottovalutato, regista.

tutti sono d'accordo per uccidere Ben Barka, servizi segreti, polizia, governi, giornalisti fanno parte di un complotto mortale.

la sceneggiatura non fa mai annoiare, si tratta di un film politico, senza sconti per nessuno, un thriller contro il tempo.

un film da non perdere, promesso.

buona (Ben Barka) visione - Ismaele


 

QUI il film completo, in francese


QUI e QUI la ricostruzione dell'omicidio di Ben Barka, anche il Mossad ha una parte importante.


 

Se la prima parte del film è tutta ben calibrata sul complotto che a poco a poco avvolge nelle sue spire il leader d’opposizione, esiliato a Ginevra, di un non meglio precisato paese arabo (un sempre ottimo Gian Maria Volonté), successivamente nella battaglia per la verità promossa dal personaggio di Darien L’attentato mostra le sue pagine migliori, nell’ordine di un’opprimente caccia all’uomo scandita su alcune splendide sequenze d’azione. Azione qui intesa nel suo senso più originariamente cinematografico: lontano dall’epoca dei dominanti effetti speciali, Boisset confeziona sequenze di puro inseguimento in cui l’unico strumento per mettersi in salvo è correre più veloce di chi insegue. Boisset mostra grande gusto nella scelta funzionale delle location, mentre sulla smorfia d’angoscia di Trintignant in mezzo alla strada risiede lo strumento di maggiore immedesimazione per chi vede, catapultato in un universo dove è impossibile trovare rifugio in nessuna istituzione, e in nessun luogo. Ovunque arriva un potere più forte e tentacolare, e qualsiasi figura, anche la più rassicurante, può tramutarsi in carnefice nel volgere di due inquadrature.
A differenza delle distorsioni petriane, Boisset ricorre alle sicurezze del cinema di genere, con sfruttamento fortemente espressivo dei luoghi reali di ripresa. Un appuntamento a due passi dall’Arco di Trionfo, un dialogo serrato in un’affollata metropolitana, una bidonville di periferia, una stazioncina ferroviaria: collocato nell’atmosfera di un realistico incubo diurno, L’attentato si pone a un crocevia espressivo tra polar francese e poliziesco all’italiana (eccellente e funzionale il commento musicale di Ennio Morricone), riletti alla luce del pieno e dichiarato impegno politico…

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La forza de "L'attentato" non sta nella trama tinta di intrigo geopolitico. Ma in quella solidità filmica tipica di un certo cinema anni settanta, data dal talento degli attori che si mettevano al servizio della storia e dal mestiere di un regista come Boisset che sapeva come non strafare. Ovvero, quel buon cinema medio che si sa fare sempre meno.

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Nel 1972 Gian Maria Volontè era all’apice della sua carriera. Le sue interpretazioni erano uno spettacolo dopo l’altro: tra il persuasivo Enrico Mattei de “Il caso Mattei” di Rosi, il redattore reazionario di “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio e il laconico “Lucky Luciano” ancora di Rosi, infilò il carismatico leader socialista di un ipotetico paese del Nord Africa, riconducibile al politico marocchino Mehdi Ben Barka, ucciso pochi anni prima a Parigi.

Il Sadiel di Volontè è un bel personaggio sobrio, rispetto alla media di sue interpretazioni dell’epoca, sofferente perché in esilio. Ricorda il Moro stritolato psicologicamente dalla prigionia e dagli eventi del film di Ferrara. In tre sequenze di dialogo/confronto esplica la sua personalità con tre personaggi opposti e differenti quali l’amico Darien di Trintignant, il nemico Kassar di Piccoli e l’ex allievo di Denis Manuel. Nel primo sentiamo le radici proletarie che contribuirono all’esigenza di riscatto e formazione dell’uomo politico pronto a tornare in patria per liberare il popolo; nella seconda il duro confronto con Kassar, al quale chiude ogni apertura con la forza degli ideali contrapposti alla violenza della proposta; nella terza avvertiamo il cuore e la nostalgia.

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Capolavoro del cinema francese di denuncia politica. Ispirato da un fatto realmente accaduto nel 1965 in Francia, è un film crudo violento e con un alto livello di tensione. Il protagonista magistralmente interpretato da Trintignant è uno scrittore fallito labile e debole pian piano viene incastrato in un gioco più grande di lui. Eccellente come sempre l'interpretazione di Volontè (ci sono inoltre delle attinenze con Il caso Mattei, che proprio lui interpretò). Cast straodinario con attori tutti di altissimo livello (in particolare Cremer, Bouquet e Perier).

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Sadiel sta per tornare in patria per far parte del nuovo governo. Il ministro militare Kassar vuole impedirlo, con l'aiuto della CIA e di personalità francesi legate ai servizi segreti. Si organizza segretamente un incontro tra i due con l'inconsapevole tramite di Darien, amico ricattabile di Sadiel. Bosset muove con sapienza i pezzi della sua scacchiera: tutti "Re". Il tormentato Darien (Trintignant), l'idealista Sadiel (Volonté), il sulfureo Kassar (Piccoli), i viscidi Garcin e Lempereur (Noiret e Bouquet). Film inevitabilmente politicizzato, ha ritmo serrato e ottima colonna sonora

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martedì 15 aprile 2025

ricordo di Yves Boisset

 

Yves Boisset, regista di denuncia tra Italia e Francia - Giorgio Gosetti

Yves Boisset, il regista che si vantava di esser stato "l'artista più censurato di Francia", se ne è andato oggi a 86 anni nella clinica franco-britannica di Levallois-Perret, a pochi minuti da Parigi, dopo alcuni giorni di ricovero.

Era nato a Parigi il 14 marzo 1939 e si era ritirato nel 2010, probabilmente scoraggiato dalle pressioni che lo avevano fatto desistere dall'ennesimo progetto di un film di denuncia. Affiderà le sue memorie a una polemica autobiografia, "La vita è una scelta" del 2011.

Per Boisset l'Italia e il suo cinema hanno sempre giocato un ruolo importante. Figlio di un maestro di scuola e di un'insegnante di tedesco, fin da giovane è un appassionato di cinema, specie quello americano, e ne scrive a più riprese da critico, in particolare sotto la guida di Bertrand Tavernier con cui collabora alla prima edizione di "Vent'anni di cinema americano" nel 1960. È proprio il futuro regista a presentarlo a Riccardo Freda che lo porterà a Cinecittà dopo averlo visto all'opera come assistente alla regia per Yves Ciampi (il suo primo maestro sul set), Jean-Pierre Melville, Claude Sautet. A Roma incontra Sergio Leone che lo sceglie per il suo debutto ("Il colosso di Rodi",1961) e Vittorio De Sica che si avvale della sua collaborazione per il quasi dimenticato "Un mondo nuovo" del 1966 con Nino Castelnuovo. Sono gli anni d'oro delle coproduzioni italo-francesi e Freda lo chiama, alla fine del decennio, per ben tre film in due anni, formando il suo stile nel thriller e spy story, ma anche nello spaghetti-western "La morte non conta i dollari".

In Italia scopre il cinema d'impegno civile, si appassiona al lavoro di Francesco Rosi, Damiano Damiani, Elio Petri e decide che quella sarà la sua vocazione in patria. Nel '68 debutta riprendendo il personaggio di un agente segreto, parente stretto di 007, con "Coplan sauve sa peau", ma già il successivo "Il caso Venere Privata" (dal romanzo di Scerbanenco) conferma la sua vocazione civile. Militante nel Partito socialista, propone la sua visione critica della polizia, priva di morale e capace di infrangere la legge per ottenere risultati nel successivo "L'uomo venuto da Chicago (Un Condé)" del 1970. Brutalmente censurato fino a richiederne la distruzione dal ministero degli Interni, il film esce comunque e il profumo di scandalo ne fa un successo. Sarà questa deliberata unione di un linguaggio diretto e popolare sommato alle battaglie in difesa della giustizia, a diventare l'immagine pubblica del regista. Continuerà a far clamore nel 1972 con "L'attentato" sull'uccisione del leader terzomondista Ben Barka; l'anno dopo se la prenderanno con lui gli estremisti di destra dell'OAS per "R.A.S." sulle brutalità dei francesi in Algeria; poi toccherà a magistratura e politica con "Il giudice d'assalto" (1977). Tornerà, con ben altri accenti rispetto ai suoi esordi, sull'oscuro mondo dello spionaggio ("Alzati spia", 1981). Seguiranno le sue denunce sulla distorsione delle tv e dei media in "Il prezzo del pericolo", la brutalità del mondo contadino ("Canicule" con Lee Marvin), gli scandali della provincia ("Radio Corbeau"). Dopo essersi scontrato di nuovo con le organizzazioni di estrema destra per "Tribù" del 1990, Boisset decide di dedicarsi soltanto alla tv con una serie di prodotti di elegante confezione ("L'affare Dreyfus" o "Jean Moulin" candidato agli Emmy) che spesso non rinunciano alla sua matrice più autentica, compreso il progetto (mai portato a termine per pressioni politiche) di "Barracuda" scritto con Jean-Patrick Manchette.

Robusto, gioviale ma facile alla collera, sempre connotato dal suo giubbotto di pelle e dallo sguardo ironico, Yves Boisset è stato un personaggio prima ancora che un regista. La sua voce tonante contro l'ingiustizia, la sua difesa delle donne, gli umili, gli "invisibili" è stata per la Francia un costante monito critico che nessuno è riuscito a zittire se non la vecchiaia e il disincanto.

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lunedì 14 aprile 2025

Sotto le foglie (Quand vient l’automne) - François Ozon

un altro film francese che viene dalla campagna.

dopo L'uomo nel bosco, di Alain Guiraudie, tocca a François Ozon girare una storia ambientata in luoghi dove si può andare a cercare funghi (il titolo francese cambia nel passaggio al titolo italiano, purtroppo).

film sulla memoria, sul rancore, sul passato che non passa, sul perdono, e su un futuro migliore.

gli attori sono perfetti, sotto la direzione del regista, che non sbaglia mai.

si parte da un piccolo incidente, funghi velenosi in tavola, e da lì parte la storia.

un film che non delude, purtroppo in meno di cinquanta sale.

buona (sorprendente) visione - Ismaele



 

La sceneggiatura, scritta da Ozon assieme a Philippe Piazzo, riesce a mescolare abilmente l'implacabilità di un dramma familiare e le sorprese di un thriller anche perché, giocando consapevolmente con la premessa delle amnesie vere o presunte dei personaggi, si sceglie di omettere alla vista degli spettatori alcuni fatti cruciali in modo che non sia possibile avere certezza di ciò che sia accaduto; per lo stesso motivo non ci si affida mai neppure ai flashback, nonostante gli eventi passati abbiano grande rilevanza. 

Dimenticare fa il paio con nascondere, e permette anche di immaginare: è più facile e rassicurante dialogare coi propri fantasmi, che con le persone reali. Dimenticare è anche un modo per assolversi dalle proprie colpe: con l'illusione, però, che il futuro senza più il fardello della memoria possa essere più fortunato per tutti.

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Nonostante questa leggerezza di fondo (da non confondersi con una mancanza di attenzione), Sotto le foglie è comunque un’opera dalla profonda sensibilità. Lo vediamo, ad esempio, in una breve inquadratura che mostra Michelle, da sola sull’altalena, piangere in silenzio. Lo vediamo nel personaggio di Valérie, eco ineliminabile del sepolto e delle mancate occasioni. Immagini “semplici” che colgono però il carico emotivo di un intreccio che scava in territori “difficili” dell’esperienza umana, dal dolore della perdita alla necessità del contatto empatico. Una dimensione, quest’ultima, che François Ozon evidenzia con grande tatto nel valore che attribuisce alle seconde possibilità, un valore che viene colto anche dal giovane Lucas nel suo ultimo confronto con la polizia. Lieve e intimo sotto ogni punto di vista, Sotto le foglie ci ricorda ancora una volta la grande intelligenza emotiva del suo autore, in un film minore che riesce comunque a toccare le giuste corde.

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La ruggine che si è sedimentata tra Michelle e la figlia rimane nello spazio del non detto, anche se le origini diventano gradatamente più chiare attraverso le scelte delle due donne e le conseguenze che hanno determinato esistenze radicalmente diverse.L’amore della nonna per il nipote viene raggelato da una madre distante, ostile alle premure di Michelle e più interessata ad ottenere la casa nella campagna Borgognona dove l’anziana signora vive da sola.
Nel perimetro dove tutte le famiglie si uniscono per dividersi implicitamente, quello di un desco conviviale, si verifica la prima e più importante rottura e soprattutto la sottile sovrimpressione tra casualità e predeterminazione del gesto. Una porzione di funghi velenosi, creduti innocui champignon, spediscono in ospedale la figlia di Michelle per una lavanda gastrica e separano la nonna da Lucas, l’adorato nipote.Gli elementi del dubbio che potrebbero far pensare ad un crimine immaginato per riequilibrare rapporti famigliari compromessi, attraversano tutto il film, nonostante la bonomia con cui l’intero paese, incluse le forze dell’ordine, preferisce derubricare l’accaduto ad una comune svista…

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Ozon usa l'accortezza, ma anche la scaltrezza, di non rivelarci certi particolari della disgrazia/misfatto che fa da perno a tutta la vicenda, creando i presupposti per imbastire un giallo da camera che funziona alla grande, permettendo poco per volta di sviscerare i caratteri e le sfaccettature dei vari personaggi man mano che il tempo scorre, senza peraltro trovare necessario rivelarci alcunché riguardo al mistero che sta al centro della vicenda.

Alla riuscita del film contribuiscono non poco le prestazioni del solido cast coinvolto, che vede impegnata in prima linea la favolosa Hélène Vincent, che incarna una protagonista afflitta da sensi di colpa relativi ad una vita passata trascorsa affrontando un mestiere che predispone a pregiudizi, intrapresa per garantire alla figlia un dignitoso sostentamento.La bravissima attrice francese è assecondata da una tetra e spugolosa Ludivine Sagnier nel ruolo della figlia, da Josiane Balasko in quelli della migliore amica della protagonista, e dal bravissimo Pier Lottin, che vive costantemente nel disagio di pregiudizi nei suoi confronti, di una confusione sessuale con cui stenta a venire a patti, e di una natura un po' balorda con cui è destinato ad essere trattato con sufficienza da una società crudele piena di preconcetti.

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Diretto con sguardo ispirato, sempre teso a osservare la vita che esplode ai lati dell’inquadratura – e anche per questo non è importante vedere ciò che accade, ma sentire ciò che l’accaduto sprigiona nell’aria –, Sotto le foglie è uno dei parti più maturi e compiuti di un regista senza dubbio disomogeneo negli esiti artistici ma mai banale, mai incardinato in un percorso prono. Non dà risposte nette, Ozon, non crede in nessun modo che la verità possa passare attraverso l’immagine, e al di là di questo non giudica mai i suoi personaggi, ma li accompagna nel loro percorso di vita, come un fantasma che riappare accanto al guidatore, perché tutti sono carnefici, tutti sono vittime, tutti hanno memorie traumatiche, tutti continuano pervicacemente a vivere, a edificare case che siano famiglie prima che immobili. Dove si possa ancora perseverare nella memoria degli affetti.

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