un film con un altro film all'interno, quello che ha scritto Ismael, su un atipico diplomatico francese e la sua fidanzata.
Ismael è un vedovo da anni e trova la sua anima gemella, ma riappare al sua ex moglie e le cose si complicano.
attori bravissimi, un film da non perdere, promesso.
buona (fantasmatica) visione - Ismaele
(Im)perfetto.
È proprio così I fantasmi d’Ismael (Les fantômes d’Ismaël). Un film (im)perfetto.
Desplechin continua a mescolare le stesse carte, a ruotare attorno a ricorrenti
centri gravitazionali: il cinema, la scrittura, l’arte, la vita, l’amore, la
famiglia. La rappresentazione di quello che siamo. Un eterno ritorno, un
insieme di rimandi interni alla sua filmografia. Ovvero, a se stesso, a questo
cinema così personale. Vitale. Universale.
Il cinema di Desplechin cerca di catturare l’energia che ci tiene in vita,
cerca di darle una forma sul grande schermo. Un senso, un barlume di ragione.
Una sfida impossibile: I fantasmi d’Ismael è
squilibrato, vive di sussulti, di vitalissimi strappi, di emozioni intense e di
cadute e ricadute. Cinema di fantasmi e di incubi, di passioni e amori caotici.
Un film di scrittura, disordinata e creativa. Ordinata e distruttiva.
È
una spy story I fantasmi d’Ismael.
Almeno nei primissimi minuti. Ritroviamo un (misterioso) Dédalus, in un
racconto che è sfacciatamente fiction. E poi le scartoffie che vorrebbero
sostituirsi alla vita e alla morte, come era già successo al Dédalus di Trois souvenirs de ma
jeunesse. Ma la vita e la morte non si lasciano
cristallizzare dalle parole, da un racconto, nemmeno da una sceneggiatura.
Forse si possono solo evocare, come i fantasmi, come gli amori passati, come le
vite che abbiamo vissuto, pensato, immaginato. I fantasmi d’Ismael non è una spy story, nonostante il
Quai d’Orsay, le cimici, il Tajikistan e l’amico russo. È un film di fantasmi, di
rimpianti, di incubi.
Desplechin
si specchia, non teme le sabbie mobili dell’autoreferenzialità, ragiona sulla
sua vita, sulla sua arte. Come i noir degli anni Quaranta/Cinquanta, I fantasmi d’Ismael è una seduta psicanalitica, è la messa
in scena di processi labirintici, di meccanismi che non possono essere
completamente decriptati. Desplechin scrive e prova a dare forma alla battaglia
della ragione e dei sensi. È Ismaël alla prese coi fili e le prospettive, con
quadri che dovrebbero restituire il tutto, il senso della vita e del cinema.
I fantasmi d’Ismael è intricato e leggiadro.
È passionale e disperato.
È spassoso e dispersivo.
Alti e bassi, con improvvise fiammate. Cinema vivissimo, che nutre e si nutre
del talento e dei corpi di Mathieu Amalric, Marion Cotillard e Charlotte
Gainsbourg.
Cinema che si nutre della stessa vita che insegue.
I fantasmi d’Ismael è un piccolo paradosso cinematografico. Come Ismaël,
Desplechin è intrappolato, si è perso tra i mille fili che ha cercato di
riordinare. I fantasmi d’Ismael è
un film su questa impasse,
ma è proprio la (caotica) messa in scena dell’impasse ad alimentare la vivida fiamma
della vita. Quella stessa vita che ha guidato i vari personaggi, come la donna che visse due volte Carlotta, come l’uomo che sapeva troppo Ivan.
Ancora, ancora, ancora.
Lo dice Ismaël, lo dice Amalric, lo dice Desplechin. Ancora è la chiave di lettura de I fantasmi d’Ismael, di questo cinema che non smette di
cercare, di indagare, di insinuarsi attraverso la finzione o il documentario
nelle pieghe della vita, e quindi del cinema stesso. Imperfetto, senza dubbio.
Ma vivo e pulsante come gli occhi di Ismaël/Amalric, di un personaggio e del
suo interprete. Finzione e realtà. Ancora fantasmi, ricordi, amori che
tornano e che se ne vanno. Ancora.
…Ismael se encuentra realizando un filme sobre
un personaje llamado Ivan Dedalus, que es, quizás, un espía insomne. El propio
Ismael, a su vez, no puede dormir en las noches y es la hora en la cual tiene
sus momentos de mayor creatividad, solo que en el momento en que nos lo
encontramos, está en crisis de imaginación. Su esposa lo abandonó hace veinte
años y ha mantenido una relación paterno-filial con su suegro, otro director de
cine llamado Henri Bloom, quien ha sido, además, su mentor artístico. Bloom no
se ha podido recuperar de la pérdida de la hija, a la cual Ismael ha tenido
recientemente que declarar oficialmente muerta. Ismael comienza una relación
con Sylvia, una astrofísica que conoce en una fiesta y se la lleva a su casa
frente al mar para ver si esto le devuelve la creatividad. En medio de ello,
reaparece Carlota, su esposa desaparecida, creando un frágil triángulo de una
manera tan natural como incoherente. Ismael comienza a rozar los límites de la
locura, se ahoga en alcohol y confunde cada vez más su vida con la de sus
personajes.
Dedalus, Bloom, los nombres invocan a Joyce y
las pesadillas parece que nos van a llevar a una epifanía, que para el escritor
irlandés era el propósito de la obra de arte, pero desgraciadamente, Desplechin
deja correr lo que se convierte en un monólogo joyceano que resulta todo un
despropósito...
…Arnaud Desplechin sait
sublimer l’esthétique de certains de ses plans. Il s’amuse pour ce faire à
utiliser les codes artistiques d’un vieux polar, comme dans la scène où il
filme Mathieu
Amalric dans un vieux train en proie à ses cauchemars. Le
film a également quelques moments insolites, surtout vers la fin lorsque le
réalisateur se déride un peu de son savoir-faire classique et qu’il fait rire
le spectateur…
…Procede per
accumulo, Les Fantômes d’Ismaël. Somma, taglia, ricuce, svolta,
ritorna. Come gli anni che passano, come una gravidanza inizialmente scambiata
per menopausa, come un film da finire, come un eccesso di entusiasmo quando hai
in mano una pistola. Ancora, come le donne che Pollock non ha mai avuto
ritratte tutte insieme nei suoi nudi femminili, ancora, come il corpo nudo di
Marion Cotillard quando lentamente scende la vestaglia, ancora, come l’amore di
Charlotte Gainsbourg negli incroci di lacrimati sguardi e nella passione, nella
sua voglia di capire le stelle. Les Fantômes d’Ismaël è un
film di scrittura e di messa in scena, fatto di lente aperture a iride quando
partono i flashback narrati da Sylvia, fatto di scavalcamenti di campo che
genialmente si rivelano uno specchio, fatto di musiche incalzanti, di
slabbrature, di ellissi, di finestrini dei treni che si rivelano altri schermi,
materia, riflessi, proiezioni. Sono confessioni alla macchina da presa,
(psic)analisi, bidimensionalità e fisicità del set, delle diapositive, dei
quadri, delle inquadrature, delle tecniche cinematografiche, dei sentimenti.
Fino alla fuga dall’industria, dal set, dalla vita, quando le ragioni del cuore
(straziato) superano quelle della mente. Il nuovo lavoro di Desplechin è un
film in cui non è necessario che torni tutto – anche se, su questo punto, pesa
il dubbio sulla doppia versione del lungometraggio, presentato a Cannes in una
durata di 114′ mentre si vocifera che in sala uscirà direttamente il Director’s
cut da circa due ore e un quarto –, quello che conta è interrogarsi sulle mille
tematiche affrontate, è perdersi nei suoi cambi di registro e di stile, è
tastare le emozioni di chi ha perso una moglie, di chi ha perso una figlia, di
chi ha perso la ragione, nei rapporti di coppia, nei doppi, nel cinema. E poco
importa, nella meta-messinscena, che nella Praga sovietica una tangente venga
pagata in Euro, poco importa che non tutte le fila narrative e concettuali
trovino assoluta compiutezza, poco importa se non tutto ciò che il film semina
viene raccolto: non è più la compattezza di Trois souvenirs de ma jeunesse il
punto, quello che conta qui è la suggestione, il mistero, l’emozione, perché la
vita non è perfetta e l’atto stesso del cinema non può che compiersi
nell’imperfezione. E diventa quindi necessario l’overacting del
produttore, perché non conta la credibilità assoluta, e forse neanche le
dinamiche personali: quello che conta è la vitalità di una realtà/cinema che
inesorabilmente fa il suo corso, fra i dialoghi in comune nelle varie storie
parallele e le variazioni sui temi autobiografici. Les Fantômes
d’Ismaël è un film inclassificabile, sfilacciato, complesso: un
frullato di generi e abbracci dal quale traspare una fisica umana
incontenibile. Come la danza di Marion Cotillard sul Bob Dylan di It
ain’t me Babe, come le destinazioni esotiche di Dedalus e le microspie,
come il ritrovarsi, il perdersi ancora, come morire con la propria figlia a
fianco. Come un’ecografia e un’attesa spasmodica. Come fare cinema, o fare
l’amore. Ancora, ancora, ancora.
…La macchina fluida e
pudica – c’è sempre una distanza di rispetto con i personaggi – manovrata da
Desplechin coglie ogni sfumatura, tutto è credibile, dubbi, angosce, tormenti
tremiti e fremiti, e grazie a Dio dialoghi belli e di massima naturalezza anche
in una materia perigliosa e a rischio costante di kitsch come questa. Con un
continuo retrogusto pirandelliano su chi sia davvero la Donna Riapparsa (siamo
un po’ dalle parti dell’Ignota di Come
tu mi vuoi, e questi pirandellismi Desplechin li sa maneggiare
assai meglio del Derek Cianfrance di La
luce sugli oceani). Hitchock abbonda in un nugolo di citazioni, e
se le paure di Sylvie di fronte a Colei-che-è-tornata sono puro Rebecca la prima moglie, la doppia
vita di Carlotta non può che ricordarci Vertigo.
Si gioca ancora tra realtà e rappresentazione nella storia di Ivan che si fa
film, confondendo volutamente, soprattutto all’inizio, vita e set. Con un
Desplechin che si avventura, nel raccontare le giravolte
esistenzial-professionali di Ivan, in una spy story che però resta aperta, e
non saldata al resto del film, che non trova una conclusione e non dà risposte,
frustrando lo spettatore. Ma in questo strambo, sghembo film c’è troppo di
bello perché lo si liquidi – con la solita supponenza da festival – come una
bufala. Film complicato perché volutamente, e voluttuosamente, anarchico e
irregolare. Mathieu Amalric è da tempo l’attore feticcio di Desplechin, e non
poteva che essere lui Ismaël, quasi un alter ego del regista. Il suo, se certi
paragoni son leciti, Antoine Doisnel. Riferimenti alle appartenenze religiose
dei personaggi, come spesso in Desplechin, attento a tracciare le sue geografie
umane tenendone conto, ed è tra i pochissini con una tale sensibilità. E se
Sylvie, il personaggio di Charlotte Gainsbourg, si dichiara protestante,
Carlotta si dice ebrea ‘rinnegata’ (e portava al collo una stella di Davide la
Emmanuelle Devos di Racconto
di Natale).
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