Tratto da un romanzo di Pierre Lemaitre, diretto da Ziad Doueiri (regista de L'insulto e L'attentato), protagonista è Eric Cantona, circondato da tanti bravissimi attori e attrici.
Alain (che nel doppiaggio viene pronunciato da schifo, a Netflix sono ignorantissimi!), interpretato da Eric Cantona, è un disoccupato della felice età capitalista neoliberista, nella quale chi lavora ci mette un minuto (a volte meno) per diventare uno scarto umano.
I capitalisti sono descritti come sono nella realtà, vampiri assetati di licenziamenti e di soldi.
Alain vuole ritrovare una dignità che gli hanno tolto, accetta un lavoro pericoloso, mettere su un sequestro come ultimo rimedio di selezione del personale, per riuscire a essere riamato e rispettato di nuovo in famiglia, e decide di rubare ai capitalisti, con l'aiuto di un amico hacker (Gustave Kervern), rubare ai ladri non è un peccato, pensa.
Una serie breve, si vede come un film lungo, non delude.
Buona convincente visione - Ismaele
…L'Eric Cantona che
troviamo a recitare in questa serie tv è esattamente quanto ci si possa
aspettare: in grado di accentrare l'attenzione su di sé, ma anche di apparire
naturale e di mostrare eccellente capacità di immedesimazione. Non si può certo
dire che la vita di Alain Delambre possa essere simile a quella dell'ex star
calcistica, ma il marsigliese di origine italo-spagnola rende benissimo nel
ruolo dell'uomo di mezza età devastato dalla disoccupazione e dall'incapacità
di trovare sbocchi. A livello caratteriale invece Delambre diventa abbastanza
affine a Cantona, che deve riportare un personaggio tendente all'irascibilità e
di estrema passionalità: e Cantona convince molto, anche nelle parti
riflessive, dimostrando (ma ormai confermando) di essere ben più di una star
sportiva prestata alla recitazione, ma di essere un attore a tutto tondo….
…Il titolo originale della
trasposizione è Dérapages, slittamenti, sbandate: e Alain scivola
progressivamente, nei sei episodi della miniserie, ai margini (e oltre) di una
società dove tutto, dai luoghi istituzionali alle relazioni interpersonali,
sembra dominato da quel «modello aziendale» iper-competitivo per cui «chi cerca
lavoro è in guerra».
Ma è anche uno slittamento morale,
perché lo stesso Alain, che ci narra a posteriori la sua vicenda da una cella
di prigione, è il primo a dover fare sua la legge marziale non scritta che
regola (ormai) i rapporti sociali: e la sua lotta per riconquistare una vita
dignitosa si confonde allora col desiderio di rivalsa verso quel sistema e col
rischio di diventarne lui stesso un perfetto esemplare...
…Lavoro a mano armata risulta
solido ed efficace, nella sua trattazione del capitalismo
immorale, disumano e avido, che mantiene la povertà per arricchire i benestanti.
Ma la buona riuscita dell’opera è data anche da altri due elementi, legati a
doppio filo tra loro. Questo tipo di prodotti si focalizza normalmente solo su
un aspetto del racconto, omettendo o elidendo il prima e il dopo. Lavoro
a mano armata, invece, offre una visione completa e onnicomprensiva non
solo sul sequestro ma anche sulla vita in carcere e sulle conseguenze
economiche ed esistenziali di ciascun carattere in gioco…
…“Lavoro a mano armata” potrebbe sembrare estremo,
strabordante, eccessivo. A ben pensare però riesce perfettamente nell’intento
di rappresentare con ardimento e onestà l’immorale avidità del sistema
economico che governa le nostre vite. La serie non si limita a raccontare
l’umiliazione dovuta alla perdita del lavoro, né vuole concentrarsi sulla
furiosa ribellione di un uomo ferito. Si spinge oltre, narrandoci le
conseguenze, materiali e esistenziali, subite da ogni singolo attore in gioco.
Ci si aspetterebbe ragionevolmente un malinconico finale, una qualche resa,
un’ammissione di colpa? La sceneggiatura sceglie di invertire nuovamente la
rotta, spazzare via ciò che restava del dramma sociale, per cedere nuovamente
il passo ad un ritmo carico di tensione. Un finale narrativamente
accattivante, che non teme di svilire l’autenticità della critica sociale che
la serie avanza.
Si inizia alla Ken Loach e si finisce alla Tarantino.
Tutto ha inizio da un realismo sociale così ben fotografato da risultare
violento. Si continua con un pathos crescente, iperbolico. Si conclude, o si
ricomincia, là dove non ci aspetteremmo, o forse dove non vorremmo. Come in
ogni storia in-credibile che si rispetti.
Una narrazione che si insinua nelle nostre menti, sgomita
tra altre frivole visioni e resta lì, ad occupare il posto conquistato,
domandandoci: assecondare un sistema disumano, magari illudendoci di giocare
semplicemente la nostra personale partita, non ci rende forse altrettanto
disumani?
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