mercoledì 1 maggio 2024

Los colonos – Felipe Gálvez

capitano a volte dei film che colpiscono tanto dolorosamente che ci vuole un bel po' per riprendersi.

Los colonos è uno di quei film che non lasciano scampo.

i maledetti europei conquistano l'America e ammazzano tutti gli indigeni.

il film è spettacolare. e da manuale in questo, colonialismo e genocidio sono la regola.

film doloroso e assolutamente da non perdere.

buona (genocida) visione - Ismaele


 

 

 

Già vincitore del Premio FIPRESCI nella sezione Un Certain Regard di Cannes 2023, Los Colonos racconta la storia universale di oppressi e oppressori, coloni e colonizzatori; un dramma che accompagna la nostra civiltà fin dall’alba dei tempi. L’anno è il 1901, ci troviamo nella Terra del Fuoco, la zona più meridionale dell’America del Sud collocata tra Cile e Argentina. Qui un potente e spietato proprietario terriero di nome José Menéndez (Alfredo Castro) ha ricevuto in concessione dal governo cileno una quantità di terra sconfinata e selvaggia. L’unico problema risulta essere la presenza del pacifico ma numeroso popolo indigeno Selk’nam. Tre uomini vengono così arruolati per una spedizione dall’obiettivo molto semplice: sterminare l’intera popolazione nativa della zona, uomini, donne o bambini che siano. Il gruppo è composto da un ex militare inglese dalla fedina penale sporca (Mark Stanley), un rude cowboy texano (Benjamin Westfall) e un meticcio, Segundo (Camilo Arancibia), mezzo bianco e mezzo indio. L’unico che potrebbe definire quella terra “casa”, ma l’unico che nella realtà dei fatti non ha nessuna voce in capitolo…

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La sensazione, guardando il film, è che le immagini siano come dei dipinti in movimento.

All’inizio volevo fare il film in bianco e nero. Ma poi ho pensato che non era una buona idea perché sarebbe sembrata una rappresentazione della realtà. Volevo apparisse come un documento storico di come erano andate le cose. A quel punto mi è venuto in mente di usare come riferimento la fotografia autocromatica, il primo esperimento di fotografia a colori. Foto dipinte, in pratica. Mi serviva per mostrare l’artificialità dell’immagine e lavorare su più linee. Il cinema stesso come immagine è artificiale e irrealistica.

Quando Simone D’Arcangelo, il direttore della fotografia, ha visto le immagini di riferimento, è stato molto felice perché ha avuto la possibilità di sperimentare con il colore. Per le scene notturne abbiamo utilizzato come riferimento la pittura di Frederic Remington. Per i massacri, invece, abbiamo guardato ai murales messicani. L’uso della macchina da presa, della fotografia e della pellicola cambia nel corso del film, non rimane statico.

Secondo lei, in che modo il suo film comunica con i nostri tempi? E perché ha scelto di raccontare questa storia con un western? Un genere tipicamente americano che, al suo esordio, era anche uno strumento di propaganda.

Penso che Los Colones sia un film che si svolge nel passato, ma parli del presente. La sceneggiatura è stata scritta riecheggiando situazioni che accadono oggi. E per quanto riguarda il western, proprio per quella sua natura propagandistica, mi piaceva l’idea di infiltrarmi nel genere. In altre parole, più che fare un western revisionista credo che l’esercizio sia stato quello di infiltrarsi e far credere alla gente di star guardando un western. E far sì che si confondessero pensando che stessimo esaltando i personaggi.

Ma nella storia dei colonialisti non c’è alcun eroe. Penso che il western sia un genere complicato, ma volevo usare i suoi codici, la sua musica, i suoi stili e, attraverso questi, criticarlo. Quando si è iniziato a mettere in discussione diverse figure storiche o molte ideologie politiche, mi è sembrato importante riflettere su quale fosse il ruolo del cinema. Cioè, da regista, piuttosto che restare fuori e guardare altro, mettere anche il cinema stesso sotto i riflettori. Per mostrare come abbia avuto la capacità, nel XX secolo, di distorcere e modificare la realtà partecipando alla riscrittura della storia. E anche questo mi è sembrato molto moderno. In altre parole, cambiano gli eroi, ma direi che il cinema di propaganda si fa ancora…

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Di particolare interesse è la declinazione specifica della storia, che prende in esame una pagina spesso trascurata del più ampio (e sanguinoso) passato cileno. Il riferimento, vero e documentato, è quello della popolazione indigena dei Selk'nam che fu quasi interamente spazzata via dai coloni nella Terra del fuoco, motivati dalle ricchezze di un commercio nascente e protetti dall'assenza di ogni legge nelle zone di frontiera. José Menéndez, qui interpretato in poche ma memorabili scene dal sempre raggelante Alfredo Castro, è una figura storica che sullo sfruttamento di queste terre costruì un impero. In lui il regista Gálvez trova una metafora del potere incontrollato che inizia e chiude il film, mentre nel mezzo si vedono gli effetti atroci del suo comando.

Accompagnati da una musica incalzante, fatta di percussioni distorte che attivano la memoria storica dei western classici con disturbante insistenza, i tre uomini che dominano la parte centrale del film invitano lo spettatore a un pericoloso balletto di immedesimazione e distanza, rendendo lo sguardo del pubblico complice dei loro massacri ma al tempo stesso offrendo un ritratto complesso, non solo perverso ma annodato a questioni di identità (l'americano in trasferta alla ricerca del prossimo "indiano" su cui puntare il fucile, lo scozzese che ancora indossa la divisa britannica ma mente sul grado) e a un'analisi di cosa resta in piedi nella coscienza di un uomo quando lo si abbandona a uno stato selvaggio…

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Meravigliosamente ambientato tra le pianure infinite di una Terra del Fuoco severa quanto abbacinante per bellezza e purezza, il film disegna un percorso di morte che solo lo sguardo sdegnato, attonito per l'impotenza e disgustato del mite Segundo riesce a definire in modo esaustivo e pertinente.

Gálvez riesce a rendere palpabile la brutalità che anima l'uomo e che lo ha reso ancora una volta protagonista di azioni e persecuzioni degne di una belva quale non può esistere in tutto il resto del mondo animale.

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Ma la grandezza di Los Colonos non sta solo nell’aver restituito testimonianza del dolore di un processo coloniale e di un tentativo di genocidio ma anche gli aspetti meno evidenti di tutto ciò che consegue alle fasi più brutali. Se infatti la violenza dapprima è esplicita, come la terrificante sparatoria nella nebbia che stermina una colonia di indios inermi, infine diventa simbolica nel tentativo di praticare una calcolata conciliazione che è comunque una forma di colonizzazione culturale. Emblematica e agghiacciante nello stesso tempo la sequenza nella quale si tenta di fare testimonianza filmata di una conciliazione, imposta comunque con la armi, attraverso una grottesca messa in scena con gli indios agghindati da europei che bevono il tè.

Allo stesso tempo il regista non si ferma alla fin troppo semplice condanna dei coloni ma argomenta cinematograficamente anche come l’orrore sia stato possibile anche grazie a coloro che si sono messi a servizio dei coloni rendendo di fatto possibile la sottomissione di un intero continente.

Los Colonos è una straordinaria opera di denuncia del male e allo stesso tempo un doloroso esame di coscienza. Un esempio sfolgorante di quando il grande cinema è a servizio della storia.

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Gálvez, che ha co-sceneggiato il film insieme ad Antonia Girardi (un’altra italiana), non si limita però ad un puro formalismo per filtrare la denuncia anticoloniale, ma è bravo anche ad evitare tutti i cliché narrativi del caso, focalizzandosi non tanto sui grotteschi colonizzatori europei ed americani (volutamente rappresentati dai personaggi di MacLennan e Bill) ma soprattutto sulla figura centrale del meticcio Segundo (letteralmente “secondo”) che si ritrova, suo malgrado ad accompagnare i due mercenari bianchi nella spedizione genocida ordinata da Menéndez. Qui la riflessione di Los Colonos avanza oltre la tradizionale dicotomia colonizzatori/colonizzati, indagando la zona grigia rappresentata dal meticcio che disprezza i suoi compagni di missione e le loro gesta brutali ma allo stesso tempo non è capace di opporsi ad essi (pur avendo occasioni per farlo) e finendo per scegliere la strada della “riduzione del danno”. Segundo diventa così un personaggio che si ferma a metà tra complicità e testimonianza, rendendo molto più intricato il filo che lega la politica coloniale con le popolazioni che quella politica la subirono (non è un caso che la storia dello sterminio dei Sek’nam è ancora oggi opportunamente omessa dal programma scolastico cileno).

Dopotutto, e lo capiamo nell’ultimo atto, a Gálvez (come anche al suo conterraneo Pablo Larrain) interessa quel territorio di mezzo in cui i confini diventano più labili, meno marcati, quasi invisibili. In una allegorica scena finale, prima dei titoli di coda che scorrono su immagini d’archivio del Cile degli inizi del XX secolo, è proprio la cinepresa dell’emissario governativo Vicuna che diventa mezzo sia di testimonianza documentarista dell’orrore subito dagli indigeni cileni che di collusione con i loro carnefici. Se nessuna immagine, sia essa di finzione o documentata, può restituire la realtà di quei delitti e la responsabilità di quelle colpe, allora anche il cinema, nella sua ambivalenza e ambiguità, nei suoi filtri e nelle sue simulazioni, finisce per essere uno strumento del potere, incapace di opporsi ad esso e funzionale alle sue finalità precostituite. Una zona grigia dove testimonianza, indifferenza e complicità si sovrappongono inesorabilmente.

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