capitano a volte dei film che colpiscono tanto dolorosamente che ci vuole un bel po' per riprendersi.
Los colonos è uno di quei film che non lasciano scampo.
i maledetti europei conquistano l'America e ammazzano tutti gli indigeni.
il film è spettacolare. e da manuale in questo, colonialismo e genocidio sono la regola.
film doloroso e assolutamente da non perdere.
buona (genocida) visione - Ismaele
Già vincitore del Premio FIPRESCI nella sezione
Un Certain Regard di Cannes 2023, Los Colonos racconta
la storia universale di oppressi e oppressori, coloni e colonizzatori; un
dramma che accompagna la nostra civiltà fin dall’alba dei tempi. L’anno è il
1901, ci troviamo nella Terra del Fuoco, la zona più meridionale dell’America
del Sud collocata tra Cile e Argentina. Qui un potente e spietato proprietario
terriero di nome José Menéndez (Alfredo Castro) ha ricevuto in concessione dal
governo cileno una quantità di terra sconfinata e selvaggia. L’unico problema
risulta essere la presenza del pacifico ma numeroso popolo indigeno Selk’nam.
Tre uomini vengono così arruolati per una spedizione dall’obiettivo molto
semplice: sterminare l’intera popolazione nativa della zona, uomini, donne o
bambini che siano. Il gruppo è composto da un ex militare inglese dalla fedina
penale sporca (Mark Stanley), un rude cowboy texano (Benjamin Westfall) e un
meticcio, Segundo (Camilo Arancibia), mezzo bianco e mezzo indio. L’unico che
potrebbe definire quella terra “casa”, ma l’unico che nella realtà dei fatti
non ha nessuna voce in capitolo…
… La sensazione, guardando il film, è che le immagini siano come dei
dipinti in movimento.
All’inizio
volevo fare il film in bianco e nero. Ma poi ho pensato che non era una buona
idea perché sarebbe sembrata una rappresentazione della realtà. Volevo
apparisse come un documento storico di come erano andate le cose. A quel punto
mi è venuto in mente di usare come riferimento la fotografia autocromatica, il
primo esperimento di fotografia a colori. Foto dipinte, in pratica. Mi serviva
per mostrare l’artificialità dell’immagine e lavorare su più linee. Il cinema
stesso come immagine è artificiale e irrealistica.
Quando
Simone D’Arcangelo, il direttore della fotografia, ha visto le immagini di
riferimento, è stato molto felice perché ha avuto la possibilità di
sperimentare con il colore. Per le scene notturne abbiamo utilizzato come
riferimento la pittura di Frederic Remington. Per i massacri, invece, abbiamo
guardato ai murales messicani. L’uso della macchina da presa, della fotografia
e della pellicola cambia nel corso del film, non rimane statico.
Secondo lei, in che modo il suo film comunica con i nostri tempi?
E perché ha scelto di raccontare questa storia con un western? Un genere
tipicamente americano che, al suo esordio, era anche uno strumento di
propaganda.
Penso
che Los Colones sia un film che si svolge nel
passato, ma parli del presente. La sceneggiatura è stata scritta riecheggiando
situazioni che accadono oggi. E per quanto riguarda il western, proprio per quella
sua natura propagandistica, mi piaceva l’idea di infiltrarmi nel genere. In
altre parole, più che fare un western revisionista credo che l’esercizio sia
stato quello di infiltrarsi e far credere alla gente di star guardando un
western. E far sì che si confondessero pensando che stessimo esaltando i
personaggi.
Ma nella
storia dei colonialisti non c’è alcun eroe. Penso che il western sia un genere
complicato, ma volevo usare i suoi codici, la sua musica, i suoi stili e,
attraverso questi, criticarlo. Quando si è iniziato a mettere in discussione
diverse figure storiche o molte ideologie politiche, mi è sembrato importante
riflettere su quale fosse il ruolo del cinema. Cioè, da regista, piuttosto che
restare fuori e guardare altro, mettere anche il cinema stesso sotto i
riflettori. Per mostrare come abbia avuto la capacità, nel XX secolo, di
distorcere e modificare la realtà partecipando alla riscrittura della storia. E
anche questo mi è sembrato molto moderno. In altre parole, cambiano gli eroi,
ma direi che il cinema di propaganda si fa ancora…
…Di
particolare interesse è la declinazione specifica della storia, che prende in
esame una pagina spesso trascurata del più ampio (e sanguinoso) passato cileno.
Il riferimento, vero e documentato, è quello della popolazione indigena dei
Selk'nam che fu quasi interamente spazzata via dai coloni nella Terra del
fuoco, motivati dalle ricchezze di un commercio nascente e protetti
dall'assenza di ogni legge nelle zone di frontiera. José Menéndez, qui
interpretato in poche ma memorabili scene dal sempre raggelante Alfredo Castro,
è una figura storica che sullo sfruttamento di queste terre costruì un impero.
In lui il regista Gálvez trova una metafora del potere incontrollato che inizia
e chiude il film, mentre nel mezzo si vedono gli effetti atroci del suo
comando.
Accompagnati da una musica incalzante, fatta di percussioni distorte che
attivano la memoria storica dei western classici con disturbante insistenza, i
tre uomini che dominano la parte centrale del film invitano lo spettatore a un
pericoloso balletto di immedesimazione e distanza, rendendo lo sguardo del
pubblico complice dei loro massacri ma al tempo stesso offrendo un ritratto
complesso, non solo perverso ma annodato a questioni di identità (l'americano
in trasferta alla ricerca del prossimo "indiano" su cui puntare il
fucile, lo scozzese che ancora indossa la divisa britannica ma mente sul grado)
e a un'analisi di cosa resta in piedi nella coscienza di un uomo quando lo si
abbandona a uno stato selvaggio…
…Meravigliosamente
ambientato tra le pianure infinite di una Terra del Fuoco severa quanto
abbacinante per bellezza e purezza, il film disegna un percorso di morte che
solo lo sguardo sdegnato, attonito per l'impotenza e disgustato del mite
Segundo riesce a definire in modo esaustivo e pertinente.
Gálvez riesce a rendere palpabile la brutalità che anima l'uomo e che
lo ha reso ancora una volta protagonista di azioni e persecuzioni degne di una
belva quale non può esistere in tutto il resto del mondo animale.
…Ma la grandezza di Los Colonos non
sta solo nell’aver restituito testimonianza del dolore di un processo coloniale
e di un tentativo di genocidio ma anche gli aspetti meno evidenti di tutto ciò
che consegue alle fasi più brutali. Se infatti la violenza dapprima è
esplicita, come la terrificante sparatoria nella nebbia che stermina una
colonia di indios inermi, infine diventa simbolica
nel tentativo di praticare una calcolata conciliazione che è comunque una forma
di colonizzazione culturale. Emblematica e agghiacciante nello stesso tempo la
sequenza nella quale si tenta di fare testimonianza filmata di una
conciliazione, imposta comunque con la armi, attraverso una grottesca messa in
scena con gli indios agghindati da europei che bevono il tè.
Allo stesso tempo
il regista non si ferma alla fin troppo semplice condanna dei coloni ma
argomenta cinematograficamente anche come l’orrore sia stato possibile anche
grazie a coloro che si sono messi a servizio dei coloni rendendo di fatto
possibile la sottomissione di un intero continente.
Los
Colonos è una straordinaria opera di denuncia del male e allo
stesso tempo un doloroso esame di coscienza. Un esempio sfolgorante di quando
il grande cinema è a servizio della storia.
…Gálvez, che ha co-sceneggiato il film
insieme ad Antonia Girardi (un’altra italiana), non
si limita però ad un puro formalismo per filtrare la denuncia anticoloniale, ma
è bravo anche ad evitare tutti i cliché narrativi del caso, focalizzandosi non
tanto sui grotteschi colonizzatori europei ed americani (volutamente rappresentati
dai personaggi di MacLennan e Bill) ma soprattutto sulla figura centrale del
meticcio Segundo (letteralmente “secondo”) che si ritrova, suo malgrado ad
accompagnare i due mercenari bianchi nella spedizione genocida ordinata da
Menéndez. Qui la riflessione di Los Colonos avanza oltre la
tradizionale dicotomia colonizzatori/colonizzati, indagando la zona grigia
rappresentata dal meticcio che disprezza i suoi compagni di missione e le loro
gesta brutali ma allo stesso tempo non è capace di opporsi ad essi (pur avendo
occasioni per farlo) e finendo per scegliere la strada della “riduzione del
danno”. Segundo diventa così un personaggio che si ferma a metà tra complicità
e testimonianza, rendendo molto più intricato il filo che lega la politica coloniale
con le popolazioni che quella politica la subirono (non è un caso che la storia
dello sterminio dei Sek’nam è ancora oggi opportunamente omessa dal programma
scolastico cileno).
Dopotutto, e lo
capiamo nell’ultimo atto, a Gálvez (come anche al suo conterraneo Pablo
Larrain) interessa quel territorio di mezzo in cui i confini diventano
più labili, meno marcati, quasi invisibili. In una allegorica scena finale,
prima dei titoli di coda che scorrono su immagini d’archivio del Cile degli
inizi del XX secolo, è proprio la cinepresa dell’emissario governativo Vicuna
che diventa mezzo sia di testimonianza documentarista dell’orrore subito dagli
indigeni cileni che di collusione con i loro carnefici. Se nessuna immagine,
sia essa di finzione o documentata, può restituire la realtà di quei delitti e
la responsabilità di quelle colpe, allora anche il cinema, nella sua
ambivalenza e ambiguità, nei suoi filtri e nelle sue simulazioni, finisce per
essere uno strumento del potere, incapace di opporsi ad esso e funzionale alle
sue finalità precostituite. Una zona grigia dove testimonianza, indifferenza e
complicità si sovrappongono inesorabilmente.
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