lunedì 6 maggio 2024

C'era una volta in Bhutan (The Monk and The Gun) - Pawo Choyning Dorji

bisogna andare fino in Bhutan per trovare un film che non ti aspetti, sulle difficoltà dell'imposizione della democrazia in uno dei posti più poveri e pacifici del mondo.

un film comico, e anche molto serio.

uno dei film più pacifisti della storia del cinema, promesso.

si può vedere solo in pochissime sale, ma non ve ne pentirete.

buona (democratica) visione - Ismaele



 

Una poesia in movimento avvolta in immagini filmiche spirituali, simboliche e ricercate, C’era una volta in Bhutan, come nel climax quando Dorji decide di salutare lo spettatore regalandogli un’iconografia di pace di pura e rara bellezza: Tashi inquadrato di spalle, con un prato fiorito ai suoi piedi, un arcobaleno come cornice e un campo lungo di sogni e speranze che si apre dinanzi a lui. Il resto è la magia di un’opera seconda che non dovete perdervi per nessuna ragione al mondo.

da qui

 

 

…In piena continuità con Lunana, anche qui Dorji offre un ritratto (sincero, emotivo ed esilarante) della sua popolazione partendo proprio dall’ironia. Tutto in C’era una volta in Bhutan appare infatti deliberatamente esagerato e ridicolo, soprattutto per quel che riguarda i comportamenti dei buthanesi. È in questo modo che anche i filoni narrativi più apparentemente assurdi, come quello del monaco che scende a patti con un mercante d’armi americano per consegnare un paio di AK47 al Lama, si caricano di una valenza fortemente antropologica. Proprio perché rispondono al bisogno di Dorji di sondare con ironia i vissuti, gli schemi mentali e i modi in cui i buthanesi si approcciano alla vita e alla loro cultura, nell’istante stesso in cui la nazione si apre ad un cambio di paradigma epocale, vissuto con un misto di incertezza e speranza.

E se è pur vero che in C’era una volta in Bhutan non vediamo mai il contro campo, cioè la difficoltà dei cittadini di metabolizzare gli effetti di questa transizione, bisogna comunque considerare come il Bhutan, in quanto enclave, operi secondo regole e coordinate diverse da quelle delle altre nazioni democratiche. Ecco allora che la propensione di Dorji per la dissacrazione appare qui necessaria. Perché, agli occhi del regista, è l’unico strumento che consente al racconto di intrecciare l’antropologia con la Storia. Fino a rendere universale ciò che è autoctono, e raccontare le tensioni di una nazione certamente tradizionalista, ma che non ha paura di mettersi in discussione nel passaggio verso la modernità.

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