bisogna andare fino in Bhutan per trovare un film che non ti aspetti, sulle difficoltà dell'imposizione della democrazia in uno dei posti più poveri e pacifici del mondo.
un film comico, e anche molto serio.
uno dei film più pacifisti della storia del cinema, promesso.
si può vedere solo in pochissime sale, ma non ve ne pentirete.
buona (democratica) visione - Ismaele
…Una poesia in movimento avvolta in immagini filmiche
spirituali, simboliche e ricercate, C’era una volta in Bhutan, come nel climax quando Dorji decide di salutare lo
spettatore regalandogli un’iconografia di pace di pura e rara bellezza: Tashi
inquadrato di spalle, con un prato fiorito ai suoi piedi, un arcobaleno come
cornice e un campo lungo di sogni e speranze che si apre dinanzi a lui. Il
resto è la magia di un’opera seconda che non dovete perdervi per nessuna
ragione al mondo.
…In piena continuità con Lunana, anche qui Dorji offre un ritratto (sincero,
emotivo ed esilarante) della sua popolazione partendo proprio dall’ironia.
Tutto in C’era una volta in Bhutan appare infatti
deliberatamente esagerato e ridicolo, soprattutto per quel che riguarda i
comportamenti dei buthanesi. È in questo modo che anche i filoni narrativi più
apparentemente assurdi, come quello del monaco che scende a patti con un
mercante d’armi americano per consegnare un paio di AK47 al Lama, si caricano
di una valenza fortemente antropologica. Proprio perché rispondono al bisogno
di Dorji di sondare con ironia i vissuti, gli schemi mentali e i modi in cui i
buthanesi si approcciano alla vita e alla loro cultura, nell’istante stesso in
cui la nazione si apre ad un cambio di paradigma epocale, vissuto con un misto
di incertezza e speranza.
E se è pur vero che in C’era una volta in Bhutan non vediamo mai il
contro campo, cioè la difficoltà dei cittadini di metabolizzare gli effetti di
questa transizione, bisogna comunque considerare come il Bhutan, in quanto
enclave, operi secondo regole e coordinate diverse da quelle delle altre
nazioni democratiche. Ecco allora che la propensione di Dorji per la
dissacrazione appare qui necessaria. Perché, agli occhi del regista, è l’unico
strumento che consente al racconto di intrecciare l’antropologia con la Storia.
Fino a rendere universale ciò che è autoctono, e raccontare le tensioni di una
nazione certamente tradizionalista, ma che non ha paura di mettersi in
discussione nel passaggio verso la modernità.
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