domenica 31 dicembre 2023

Tantura - Alon Schwarz

il 22 e 23 maggio del 1948 fra le tante stragi compiute dagli israeliani durante la Nakba ci fu quella di Tantura.

nel 1998 uno studioso, Teddy Katz, dedicò la sua tesi di dottorato all'Università di Haifa al massacro e alla pulizia etnica a Tantura, e dopo un mare di testimonianze risultò che i soldati israeliani fecero un massacro in perfetto stile nazista (qui).

la vita di Teddy Katz fu distrutta per quel lavoro di ricerca, fu oggetto di un processo e abbandonato da (quasi) tutti.

Alon Schwarz incontra Teddy Katz e ricostruisce quello che è successo, intervistando anche lui un po' di testimoni e soldati ancora vivi.

il film documentario è davvero bello e terribile, un lavoro d'inchiesta come un thriller.

Teddy Katz dovrebbe avere un posto fra i Giusti, ma gli ingiusti non glielo daranno mai, noi sì.

se la politica avesse delle regole serie dopo la Nakba l'Onu avrebbe dovuto revocare l'autorizzazione a formare uno stato, ma non ci sono regole, purtroppo, oltre a quelle della menzogna, della prepotenza e dello sterminio.

un film da non perdere, non credo sia uscito nelle sale e neanche nelle piattaforme di streaming.

meno male che c'è internet (finché dura).

buona visione - Ismaele




Alon Schwartz. Riscoprire una strage dimenticata - Christian Elia

(Tratto da Altreconomia 251 — Settembre 2022)

“Di solito un regista è capace di spiegare molto bene perché sceglie di raccontare una storia, ma devo essere sincero: è questa storia che ha scelto me”. Alon Schwartz risponde da una spiaggia di Tel Aviv che sembra lontana anni luce dalla questione palestinese. Autore del documentario “Tantura” (una coproduzione di Reel Peak Films e dell’emittente israeliana Hot 8), Schwartz racconta la guerra del 1948, seguita all’unilaterale nascita dello Stato d’Israele, rifiutata dal mondo arabo, quando centinaia di villaggi palestinesi furono spopolati. Gli israeliani la chiamano “guerra d’indipendenza”. I palestinesi Nakba.

Il documentario di Schwartz racconta la storia di quello che accadde nel villaggio di Tantura, sfidando quello che nella società israeliana è un vero e proprio tabù. “Volevo fare un documentario sulle leggi che negli ultimi anni hanno messo sotto accusa Ong come B’Tselem e tante altre -racconta il regista-. Volevo far riflettere gli israeliani, almeno quelli preoccupati della deriva antidemocratica del Paese. La narrazione governativa non si riferisce più alla realtà, ma alla percezione della stessa. Ho deciso che il mio film avrebbe parlato della prima manipolazione, quella che è alla base di tutto il resto: la nascita d’Israele”.

Schwartz si mette a cercare la storia giusta, fino a quando gli raccontano di Teddy Katz. Il documentario ruota tutto attorno alla figura di questo ricercatore, che all’Università di Haifa propone una tesi di dottorato particolare: raccogliere le memorie dei veterani della guerra del 1948. “Sono andato a intervistarlo solo perché avevo saputo che era stato cacciato dall’Università per il suo lavoro -racconta il regista-. Fin qui, lo confesso, niente di speciale, è capitato a tanti. Non avrei mai immaginato di trovarmi di fronte a quel materiale”. Schwartz inizia una serie di incontri con Katz, che ha conservato maniacalmente tutte le registrazioni delle sue interviste di trent’anni prima. Gli intervistati sono i veterani del battaglione Alexandroni, che operò nella zona del villaggio palestinese di pescatori di Tantura. Commisero crimini di guerra e contro l’umanità…

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…Pezzo dopo pezzo, Alon Schwarz non ha avuto paura di scavare e di indagare a fondo, anche nelle parti più scomode e spaventose di questa storia. Punta dritto al suo obiettivo in modo freddo e deciso, determinato a far comprendere a noi spettatori tutto ciò che la Nakba ancora significa nella memoria palestinese attraverso uno dei suoi esempi più atroci. Un documentario da vedere e da capire, se non altro anche solo per dubitare di ciò che finora è stato raccontato e per farsi nuove domande, che magari porteranno ad altre risposte più vicine alla realtà. Una visione imperdibile e allo stesso tempo esasperante, ennesima testimonianza di quello che è stato uno momenti cardine di decenni di oppressione e violenza che sembrano proprio non avere fine…

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Nelle prime fasi del 1948, il villaggio di Al-Tantura fu preso di mira dalle forze armate israeliane; le sue case furono saccheggiate, i suoi abitanti arabi palestinesi espulsi e altri massacrati dalle forze di difesa israeliane Brigata Alexandroni. Israele ha negato per anni l’esistenza del massacro nonostante le testimonianze dei suoi abitanti originari fino a poco tempo fa; un documentario israeliano del 2021 ha rivelato la testimonianza di diversi veterani israeliani che affermavano che in quel momento era avvenuto un massacro che aveva coinvolto più di 200 vittime palestinesi. 

Gli originari abitanti di Tantura furono costretti a trasferirsi in luoghi diversi; la maggior parte di loro aveva parenti a 50 km di distanza in una città chiamata Fureidis (che si traduce come “Paradiso”), e non avevano altra scelta che vivere con loro. Mentre rivisitavo la storia di Tantura, Salah Abu Salah, che all’epoca aveva 8 anni, mi raccontò di come la sua famiglia e altre famiglie dovettero trasferirsi a Fureidis in cerca di riparo.

Raccontando la sua storia, Abu Salah mi ha detto che dopo che le forze di difesa israeliane hanno preso le loro case, “ci hanno messo tutti su un autobus, ci hanno portato in un villaggio vicino e ci hanno lasciati lì”. Per sua fortuna, la madre di Abu Salah aveva una famiglia che viveva a Fureidis e li accolse per stare con loro; altre famiglie non avevano un posto dove cercare riparo, quindi furono costrette a partire per altre zone e alcune fuggirono persino in Giordania. Il mukhtar (il capo del villaggio) di Fureidis apparteneva alla famiglia Bariyeh e non aveva altra scelta che aprire la città ai rifugiati Tantura e invitare le persone a proteggerli. 

Gli uomini dovevano combattere e le donne dovevano restare a casa con i bambini. Nonostante la sua giovane età, Abu Salah non riesce a cancellare dalla sua memoria come suo fratello maggiore avesse fame quella sera e continuasse a tormentare sua madre per il cibo. Non c’era cibo nel rifugio, donne e bambini dovevano rimanere lì per stare al sicuro, mentre gli uomini andavano a proteggere le loro case. La mamma di Abu Salah ha chiesto a suo fratello di essere paziente, ma lui ha continuato a tormentarla. Alla fine gli permise di tornare a casa loro e trovare qualcosa da mangiare. Abu Salah può ancora ricordare come suo fratello sia tornato senza fiato, mormorando parole a sua madre sui corpi a terra e sui morti. Non aveva più fame.

I morti non furono seppelliti nel cimitero del villaggio occupato, alcuni furono seppelliti a gruppi sotto la sabbia, altri furono lasciati all’aperto sulle spiagge di Tantura. 

Abu Yaqoob, un ebreo palestinese che era il mukhtar di Zumarien, un altro villaggio vicino a Tantura, radunò degli uomini (uno dei quali era il cognato di Abu Salah), due cavalli e un enorme carro e insieme iniziarono a radunare i corpi. “15 corpi alla volta”, mi dice Abu Salah. Li seppellivano ovunque potessero trovare un posto vuoto per garantire la dignità dei corpi. Alcuni furono sepolti insieme; alcuni hanno avuto la fortuna di essere sepolti da soli. 

Conquistare Tantura è stato molto facile per le forze israeliane. Secondo Abu Salah, “Erano molto feroci ed erano ovunque. Mio fratello mi raccontava più e più volte quando sono cresciuto come circondavano il villaggio da tre direzioni: la terra e il mare all’inizio, e all’improvviso altri soldati scesero dal treno che si fermava in una stazione vicina .” Erano più numerosi degli uomini del villaggio; avevano fucili e armi, quelle inglesi che gli inglesi lasciarono loro quando il mandato terminò. “È stato così facile che ci è voluta solo una notte per uccidere la maggior parte degli uomini e far uscire il resto di noi”, ha detto. 

Salah sorrise alla mia reazione ingenua al silenzio della gente riguardo ad Al Tantura. “Non abbiamo bisogno del loro riconoscimento”, ha detto, “la terra un giorno testimonierà e racconterà cosa è successo”. Ha parlato di quanti avevano paura di parlare del massacro prima ma adesso non più; ultimamente ha parlato con diversi giornalisti e mi ha fornito i nomi di alcune persone che possono testimoniare quello che è successo a Tantura. “Sono più vecchi di me, ma hanno ancora una buona memoria”, ha detto. Salah è rimasto scioccato quando gli ho detto che Israele nega ancora la Nakba fino ad oggi. Lui mi guardò. “Ahimè,” disse e batté la testa con la mano. 

da qui

  

 

Ricordando il Massacro di Tantura - Nasim Ahmed

A proposito del Massacro di Tantura, in cui 200 palestinesi furono massacrati dalle truppe israeliane.

In questo giorno del maggio 1948, le truppe israeliane massacrarono fino a 200 palestinesi nel villaggio costiero di Tantura, situato a 35 chilometri a sud di Haifa. Era uno dei 64 villaggi costieri palestinesi sulla strada tra Tel Aviv e Haifa, di cui oggi ne rimangono solo due: Furaydis e Jisr Al-Zarka. Il resto fu sottoposto a pulizia etnica, così come centinaia di altri villaggi, paesi e città nella Palestina occupata.

Cosa: Massacro di Tantura.

Quando: 22-23 maggio 1948.

Dove: Palestina.

Cosa accadde?

Una settimana dopo che David Ben-Gurion, capo esecutivo dell’Organizzazione Sionista Mondiale, aveva dichiarato la creazione dello Stato di Israele, il piccolo villaggio costiero di Tantura divenne teatro di uno dei peggiori massacri compiuti dalle forze coloniali sioniste contro la popolazione palestinese autoctona. Il massacro avvenne sullo sfondo di quella che i palestinesi chiamano la Nakba (lett. la catastrofe), che vide 750.000 palestinesi (quasi tre quarti della popolazione) cacciati dalle loro case dai gruppi paramilitari sionisti. La catastrofe è oggi considerata la più lunga crisi di rifugiati dell’era moderna.

All’inizio di maggio del 1948, Tantura era uno degli ultimi villaggi palestinesi rimasti nel tratto di pianura costiera che va da Haifa a Tel Aviv. Aveva una popolazione di 1.500 abitanti e, come molti villaggi palestinesi sparsi lungo la costa, viveva di un’economia basata sulla pesca e sull’agricoltura. Il villaggio fu assegnato a Israele nell’ambito del controverso Piano di partizione della Palestina delle Nazioni Unite del 1947. Solo sei mesi dopo si sarebbe scoperta la portata del terribile destino inflitto a Tantura dalla comunità internazionale.

Il 9 maggio, i membri del gruppo terroristico ebraico Irgun, che due anni prima aveva bombardato l’Hotel King David di Gerusalemme con il sostegno dell’organizzazione Haganah, si riunirono per decidere cosa fare dei pochi villaggi sparsi lungo la costa. Prima di rivolgere la loro attenzione agli abitanti disarmati di Tantura, l’Haganah e l’organizzazione terroristica sionista militante più estremista, la Banda Stern, parteciparono a una brutale campagna militare che alla fine portò alla rasa al suolo di più di 600 città e villaggi palestinesi. Durante la campagna “Plan Dalet” furono compiuti decine di massacri, tra cui uno a Deir Yassin, sei settimane prima che i soldati israeliani invadessero Tantura.

Il 33° Battaglione dell’Haganah (il Terzo Battaglione della Brigata Alexandroni) attaccò il villaggio, uccidendo a 200 palestinesi. Il massacro avvenne durante la notte e durò diverse ore, secondo i testimoni palestinesi. I loro racconti del massacro sono documentati e, secondo alcune fonti, furono addirittura 300 i palestinesi uccisi.

Cosa è successo dopo? 

Dopo la sua istituzione, Israele adottò misure per controllare la narrazione in merito alla sua stessa creazione nella Palestina occupata. Prima che l’esercito aprisse i suoi archivi dal 1948, la sua politica era quella di proibire la pubblicazione di qualsiasi documento che descrivesse in dettaglio la pulizia etnica e le violazioni dei diritti umani, compresi i crimini di guerra commessi dalle forze israeliane, o qualsiasi cosa che potesse “danneggiare l’immagine [delle Forze di Difesa Israeliane]” o mostrarle come “prive di standard morali”. Gli storici hanno citato Tantura per descrivere l’insabbiamento, dimostrando quanto sia stato efficace il silenzio sul brutale passato di Israele nell’oscurare i crimini contro l’umanità.

Nel corso degli anni, la pubblicazione di documenti riservati ha ulteriormente confermato le testimonianze palestinesi sugli innumerevoli massacri perpetrati dai gruppi paramilitari sionisti e dai soldati israeliani. La portata delle violenze compiute dai soldati israeliani contro gli abitanti del villaggio di Tantura è stata raccontata anche da studiosi e registi.

Ad esempio, un ricercatore israeliano di nome Theodore Katz ha scritto una tesi per l’Università di Haifa in cui afferma che lo Stato di occupazione fosse responsabile dell’omicidio di massa dei civili a Tantura. Katz ha basato la sua ricerca su 140 ore di interviste audio registrate, condotte con 135 testimoni dell’evento, metà dei quali ebrei e metà arabi. Raccontando il massacro, Katz descrive come la popolazione di Tantura fosse stata radunata sulla spiaggia. Le donne e i bambini furono separati dai maschi e dai giovani di età compresa tra i 13 e i 30 anni. Il vicecomandante della compagnia Shimshon Mashvitz ordinò ai soldati di prendere gruppi di giovani, di allinearli contro un muro e sparare loro in testa. Circa 85 di loro furono uccisi in questo modo. Secondo Katz, furono uccise complessivamente 200 persone. I soldati israeliani scaricarono i corpi dei palestinesi in fosse comuni, in cima alle quali ora si trova una nota località balneare israeliana.

Il regista Alon Schwarz ha prodotto un documentario, Tantura, presentato in anteprima mondiale lo scorso anno al Sundance Festival. Katz è uno dei personaggi centrali del documentario.

Il video: qui.

Traduzione per InfoPal di Rachele Manna

da qui

 


ecco il film completo, versione originale (sottotitoli in inglese)

 





ecco il film completo, in catalano (con sottotitoli in spagnolo)



parla Teddy Katz:




sabato 30 dicembre 2023

Sweet sixteen – Ken Loach

non è facile crescere a Glasgow, e c'è sempre la possibilità dei soldi facili, con quelli si misura il successo nella vita.

Liam cresce con la madre lontana, in galera, per storie di droga, e quella è la strada per il successo.

Liam vuole aiutare la madre, affinché possa avere una casa tutta sua, per quando esca di prigione, ed è disposto a tutto, a qualsiasi costo vuole riavere una madre, in fondo non è altro che un film d'amore.

come sempre un film di Ken Koach è memorabile e Sweet sixteen non fa eccezione.

buona (filiale) visione - Ismaele 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

Una full immersion nei bassifondi più dimessi della periferia di Glasgow a rimirare le macerie lasciate da tanti anni di thatcherismo e di crisi economica/occupazionale.E'questo il cuore pulsante di questo film di Ken il rosso,la storia di un quasi sedicenne,Liam che ha tante aspirazioni da bravo ragazzo(non ultima quella di avere una casa per la propria famiglia formata dalla madre in galera e dalla sorellastra a sua volta ragazza madre) ma si scontra con la dura realtà del disagio sociale.I cantieri di Glasgow hanno chiuso,la disoccupazione è a livelli disumani,Liam si ritrova col convivente della madre che fa lo spacciatore e addirittura il nonno che fa il corriere della droga.Lui vende sigarette,è brillante,ha spirito di iniziativa.E'solo questone di tempo: il salto verso la criminalità organizzata,verso il traffico di droga è breve,troppo breve.Tutto questo per concretizzare il sogno di avere una famiglia e un focolare domestico attorno a cui riunirsi. Sweet sixteen allude all'imminente compleanno di Liam ma allude anche a un'età che nell'immaginario collettivo è una delle stagioni più felici del ciclo vitale di ognuno. Per Liam è invece una sorta di limbo in cui si viene  trovare in attesa di atterrare nel mondo dei grandi pronto a sottomettersi al suo capo che lo ha definitivamente instradato sulla via del male.Loach sembra dirci che il male in un degrado sociale simile è una conseguenza ampiamente prevedibile.Ci racconta con grande irruenza ma anche con un piglio realistico(anche nel linguaggio,nel film si parla una sorta di slang a me quasi totalmente incomprensibile) ancora più accentuato che in altre sue pellicole la fine di un sogno.Liam arriva a sfiorare con un dito il coronamento del suo sogno.Ma in realtà tutto implode miseramente,un viaggio  di sola andata verso la tragedia.Loach stupisce ancora una volta per la sua capacità di osservazione e di documentazione analitica.E stupisce ancora di più per trovare sempre attori esordienti che sono talmente bravi da sembrare da tanti anni sulle scene.Sweet sixteen è film importante,un piccolo pamphlet di sociologia applicata alla realtà di assoluto degrado di quella parte di Regno Unito....

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Dopo due prove opache (Bread and Roses e Paul, Mick e gli altri), un bel film. Ken Loach riscopre la sua classicità perduta, che ovviamente non è relativa alle storie o alle modalità produttive ma allo sguardo. È forse l’unico regista europeo che permette di tornare sul dibattito “teorico” per eccellenza: realismo o finzione? Più Francesco Rosi che Roberto Rossellini, il cineasta britannico, che cita il neorealismo come ovvia fonte d’ispirazione, non si accontenta di raccontare o interpretare la realtà nel suo divenire (la “fenomenologia”), ma interviene direttamente sulla materia. È un militante puro, con un occhio schierato e un’idea di mondo netta, chiara, trasparente. Pregio e insieme limite, perché in questo caso la scelta di visione coincide con quella di campo. A volte si rischia la declamazione “politica”, la retorica. Ma Sweet 16 vola altissimo, perché la sceneggiatura pregna di senso etico del solito Paul Laverty va a braccetto con facce che parlano da sole, con situazioni di degrado sociale che, in quanto autentiche e misconosciute, hanno bisogno di trovare una voce attraverso il cinema. Non è facile avere sedici anni, una madre in carcere, amici balordi e come unico modello comportamentale quello violento degli adulti. Accade in Scozia, accade ovunque. Loach non è così ingenuo da credere che l’arte cambi il mondo. Ma in fondo ancora ci spera. E noi con lui.

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Coerentemente al suo interesse autoriale, Ken Loach racconta il disagio e l’isolamento sociale degli ultimi, dei ceti meno abbienti, di famiglie radicate in un contesto che non lascia scampo. In Sweet Sixteen il regista cala lo sguardo al livello di un adolescente, sfruttando la fragilità e, al contempo, la forza di un’età che non conosce compromessi, svelandone i sogni e soffocandoli con il grigiore di un realismo quasi nichilista, ma all’interno del quale l’autore lascia sempre una scelta ai suoi personaggi. Ed é proprio nel senso delle scelte che troviamo la quadra del lavoro di Loach: personaggi ben caratterizzati e ben calati in un paesaggio definito, attivo nel suo influenzare, o meglio deviare, le vite degli uomini e delle donne che ospita, ai quali comunque spetta sempre l’ultima parola, l’ultimo gesto.

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venerdì 29 dicembre 2023

Fanny Pelopaja (Passione Violenta) - Vicente Aranda

Bruno Cremer e Fanny Cottençon sono i protagonisti di una storia senza pause, violenta quanto basta, e anche di più.

un amore maledetto fra il poliziotto corrotto Gallego e la fuorilegge Pelopaja, che si cercano, fosse solo per vendicarsi senza pietà.

che si astengano gli amanti del cinema romantico, potrebbero soffrire.

buona (arandiana) visione - Ismaele


 

 

Un classico del noir mediterraneo, meno poeticamente ossessivo del libro, del quale è un adattamento, ma da rivedere, come da rileggere è il libro, perché alle origini della pulp-fiction tarantina.

Ora che il genere hard-boiled o pulp ha grande fama tanto nella letteratura quanto nel cinema, rispolveriamo letture e visioni che hanno fatto “sodo” il poliziesco, infarcendolo dell’aspetto più oscuro della società: il degrado della città industriale, la criminalità organizzata, ma anche la corruzione dei pubblici poteri.

Andreu Martin, alla fine degli anni ‘70, è tra i creatori della narrativa novela negra postfranchista, romanzi giallo-polizieschi, ambientati tra le strade della sua città, Barcellona o , meglio, per i vicoli del quartiere vecchio, il barrio più povero della capitale catalana, lungo la Rambla. Come Protesi, editato in Italia da Granata Press con la copertina di forte impatto visivo dell’illustratore Lorenzo Mattotti e del grafico Ghiddi (copertina "Protesi" Mattotti&Ghiddi), dove “battersi, combattere, uccidere per non essere uccisi, è l'unica cosa che da un senso al vuoto, all'inutilità dei suoi giorni. Finalmente ha ritrovato il Nemico” (da Protesi).

I suoi romanzi mostrano una puntuale costruzione psicologica dei personaggi, chè la laurea in psicologia ad Andreu Martin non serve per esercitare la professione, ma per una profonda conoscenza del mondo della follia e delle ossessioni.

Quando il produttore spagnolo Carlos Duràn mostra al regista spagnolo Vicente Aranda Protesi, a questo piace, ma trova difficoltà a scriverne la sceneggiatura: quel rapporto di sesso e violenza omosessuale _ Aranda si era già sentito a disagio nell'affrontare il tema dell'omosessualità nel suo film Cambio de sexo _ diventa, cambiando il sesso del protagonista da maschile in femminile, una storia violenta di sesso e morte tra una coppia eterosessuale. E lo stesso autore del romanzo, Andreu Martin, concorda.

Al casting la produzione francese, la produzione del film è franco-spagnola, impone la scelta di due attori francesi per i ruoli principali al fine di una maggiore commerciabilità del film in Francia, e il regista, Vicente Aranda, sceglie l’attrice Fanny Cottencon, che darà il titolo al film: così Fanny Pelopaja è l’adattamento cinematografico di Protesi di Andreu Martin. Il film manipola i caratteri tipici del giallo hard-boiled, con uno sguardo disincantato sugli uomini e le donne, sul lato più oscuro e violento della società, mai giudicante: Fanny Pelopaja è una dark lady biondo ossigenata, appunto pelo paja, bellissima e inaccessibile, dal fascino perverso, che attira l'eroe decadente, il poliziotto corrotto Gallego, sposato con figli, ma che alcuno in casa ascolta più. Gallego riesce a far evadere il compagno di lei dal carcere, ma poi lo ammazza e fracassa a lei tutta la dentatura con i colpi del calcio della sua pistola, costringendola per sempre a una protesi: la donna ossessionata dalla vendetta e il poliziotto corrotto non potranno che scontrarsi all’ultimo sangue sotto le lenzuola del letto di una camera d’albergo.

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mercoledì 27 dicembre 2023

Ormai è fatta! - Enzo Monteleone

uno dei tanti film nei quali Stefano Accorsi è bravissimo.

la storia (vera) è quella di Horst Fantazzini, rapinatore ed evasore dalle prigioni, anarchico e gentiluomo, nel film si svolge un tentativo di fuga, con (unica volta) spargimento di sangue e il tentativo di omicidio da parte dello Stato.

il film si vede bene, senza annoiare mai.

buona (evasiva) visione - Ismaele

ps: appare anche Francesco Guccini, come padre di Horst. 



QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

 

Ben recitato ad abbastanza ben scritto, in alcuni tratti (come durante la "conversazione" telefonica tra Horst e il padre) addirittura commovente, Ormai è fatta! è il miglior (non in senso assoluto, bensì in quanto a caratteristiche) rappresentante di quel "cinema medio" italiano di cui si è tanto sentita la mancanza negli ultimi vent'anni. Quella di Fantazzini è una delle migliori interpretazioni di Accorsi, contornato da validi caratteristi che riescono a non andare oltre le righe.

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Horst Fantazzini, questo il nome del rapinatore gentiluomo, anarchico ha fatto le scarpe a polizia,carabinieri ed esercito messi insieme. Se poi mescoliamo il tutto con una buona dose del nostro Accorsi notiamo allora che il film è riuscito, applausi anche per quanto riguarda il buon Monteleone, che con pochi denari ci ha regalato una perfetta ricostruzione degli ambienti di quell'epoca, eh belle epoque la chiamerei, in cui si poteva rapinare una banca anche con un coltellino svizzero, anni in cui regnava l'anarchia, e gli stati uniti erano rappresentati da un altro grande truffatore, Frank Abbagnale, vedi (catch me if you can di Spielberg). Ormai è fatta, il titolo non poteva essere più azzeccato, un ora e mezza incollati allo schermo, tra rapine dei fiori, un Accorsi crivellato da proiettili e una musica di sottofondo con patty pravo negli anni più brillanti della sua carriera sonora.

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non posso fare altro che condividere la benevolenza che il regista ha per il suo personaggio principale, il rapinatore gentiluomo Horst Fantazzini, anarchico, personaggio totalmente fuori dagli schemi, l'ultimo dei romantici. Piu'che a un malvivente fa pensare ad un idealista che si scontra frontalmente con le brutture della realta' e ne esce sempre malconcio ma sempre indomito, un po'come lo Steve McQueen de La Grande Fuga, abbonato a fughe impossibili ma sempre ripreso poco dopo. Una sorta di Don Chisciotte contro i mulini a vento....questa è l'impressione che Fantazzini mi da' e devo sottolineare l'enorme bravura di Accorsi nel modulare un personaggio per niente facile da portare sullo schermo. Il film è tutto ambientato in un pomeriggio estivo quando lui prende in ostaggio due guardie, piuttosto collaborative ma Monteleone non vuole creare un thriller vuole solo dare uno sguardo all'animo delle persone implicate nella vicenda e allo sfondo sociale di quegli anni senza alcuna presunzione e seppur deve scontare qualche schematismo di troppo riesce a girare un film a mio parere riuscito soprattutto grazie all'eccellente prova degli attori coinvolti....

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martedì 26 dicembre 2023

Naissance des pieuvres - Céline Sciamma

la macchina da presa segue tra ragazze, Anne, Marie e Floriane, i ragazzi quasi non esistono.

Marie è innamorata della bella Floriane, sogno inarrivabile di tutti i ragazzi, la segue come un cagnolino, pende dalle sue labbra e dai suoi sguardi.

opera prima di Céline Sciamma, il film parte lento, e cresce in maniera irresistibile.

amore, desiderio, devozione, occasioni mancate, c'è tutto questo e altro ancora.

un film che non delude, promesso.

buona (femminile) visione - Ismaele


 

 

Come in Tomboy, anche in questo suo esordio cinematografico Celine Sciamma si interessa ai corpi.
Corpi in graduale mutazione, ancora acerbi come quello di Marie che quasi per contrappasso risulta la più consapevole della propria sessualità, sgraziati come quello di Anne o già lascivamente femminili come quello della bellissima Floriane.
Naissance des pieuvres è giocato tutto sui paradossi che vivono sulla propria pelle le tre protagoniste femminili, adolescenti inquiete alla ricerca della propria essenza soprattutto nella sfera affettiva e sessuale.
La Sciamma è brava nel catturare fotograficamente l'istante in cui queste ragazzine escono definitivamente dai loro giochi di bimba per diventare donne.
E'un film di scoperte inaspettate, di balbettamenti sentimentali, di decisioni improvvise, di prove e controprove per riuscire a stabilire ciò che veramente si vuole.
Non è sempre semplice muoversi nel mondo selvatico dell'adolescenza in cui viene rivelata  tutta la natura dell'homo homini lupus.
Gli adolescenti sanno essere molto cattivi, sanno colpire dove fa più male e provocare ferite difficili da rimarginare.
Le tre protagoniste di questo film affrontano la propria crescita (da intendersi in senso lato)  in modo diverso, antitetico.
Marie è la più consapevole della propria crescita , la più riconciliata con la propria sessualità ma si lascia trasportare spesso dall'emozione( ormonale) del momento, accettando di fare la lacchè di Floriane solo per starle vicino in quanto infatuata da lei(il classico colpo di fulmine,avvenuto a bordo vasca).
Floriane,a prima vista assai disinibita è la classica ragazza che è ciò che non appare. In realtà per lei l'approccio al sesso è qualcosa più simile a un gioco infantile, non si cura delle conseguenze del suo atteggiamento mutevole e ambiguo.
Probabilmente è quella che conosce meno le potenzialità del proprio corpo,sembra che abbia molti ragazzi a sua disposizione ma in realtà non ne ha nessuno.
Quello che scopre su di sè lo scopre con Marie.
E poi c'è Anne, sgraziata ragazzona che ha un rapporto con Marie che va oltre la semplice amicizia. C'è qualcosa di più profondo ma lei cerca quasi compulsivamente ragazzi per fare sesso forse proprio per testare la propria omosessualità.
Usa il corpo dei maschi per sapere che lei vuole solo Marie.
Naissance des pieuvres narra una storia in divenire che il cui inizio e il cui termine non sono necessariamente i titoli di testa e di coda del film.
Narra di tre spiriti liberi che neanche il nuoto sincronizzato (simbolo di armonia) riesce a far convivere.
Le apparenze ingannano, la metà maschile dell'universo brilla per inutilità in un mondo in cui gli adulti non hanno cittadinanza.
I rapporti tra Marie, Anne e Floriane sono regolati da geometrie variabili e da fili invisibili che forse non si spezzeranno mai.
Naissance des pieuvres più che un percorso di formazione è la presa di coscienza della propria sessualità che prepotentemente si sta affacciando.
E' un film sulla gioia nascosta in un età difficile.

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Gia' dai primissimi fotogrammi il film sembra dirti: guarda che le prossime due ore non saranno piacevoli e ti  procurerai una ferita non rimarginabile, mai. Infatti sulle immagini di ragazzine che si stanno preparando ad una esibizione di nuoto sincronizzato aleggia un atmosfera di tensione sottolineata dall' inquietante musica da brivido scritta apposta per il film dal gruppo techno dei Para One. Ma veniamo al film: innanzitutto e' impossibile non accorgersi della bellezza della fotografia e di alcune sequenze o singoli fotogrammi, ricordano i quadri sospesi nel tempo di Balthus e come i quadri di Balthus il film e' intriso di erotismo e provocazione. Il gusto per le modelle adolescenti, leggermente equivoche e cariche di mistero di Balthus e' tutto in Marie ( Pauline Aquart ) che e' la quasi muta protagonista del film. L' altra protagonista, Floriane ( Adele Haenel ) e' di una bellezza sconvolgente, come il film stesso. Marie e' una quindicenne lesbica del tipo BUTCH che si prende una cotta per Floriane. Purtroppo il suo carattere le impedisce di lasciarsi andare e rischiare....il bacio, sgianda, reclamato alla fine del film a Floriane e' fuori tempo massimo. Floriane sembra giocare per tutto il film con Marie cotta di lei come un pesce lesso ma in realta' non aspetta altro che un abbraccio, una dichiarazione d' amore, un bacio improvviso che la fifona Marie non riuscira' mai a disbrigare. Di cio' se ne accorge Marie e questo dubbio ( e se ci avessi provato...? ) e' stupendamente rappresentato nella bellissima scena finale dove Marie e la sua amica Anne, entrate di nascosto in piscina di notte, si tuffano dentro vestite e abbozzano una figura di synchro, guancia contro guancia con gli occhi chiusi a ripensare ai primi approcci col sesso avvenuti quell'estate. Di colpo Marie stacca la guancia e apre gli occhi fissando la telecamera che le riprende dall' alto. Come eravamo stati avvertiti all' inizio del film, Marie, guardandoci sembra volerci dire:.... eravate stati avvisati.......VOTO 10.

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In generale, la regista adotta nei confronti delle tre protagoniste (che nel proseguo delle vicende risulteranno ben più complesse di quanto poteva sembrare all’inizio) un approccio intimo e sensibile, ma sempre pudico e rispettoso. La rappresentazione dell’atto sessuale è sempre disincantata, mero modo di conformarsi a quello che le amiche si aspettano da loro: i toccanti primi piani ci trasmettono il tormento e la fatica, piuttosto che il piacere. L’opera va ben al di là dall’essere una programmatica lesbo love story: la complessa relazione tra Marie e Floriane è giocata interamente sul non detto, sull’ellissi, sul confine tra amicizia/amore, attrazione/repulsione. Il finale è aperto, riflettendone la psicologia: fluida e incasellabile, che forse solo col sopraggiungere dell’età adulta raggiungerà una stabilità.

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L’adulto scompare, non può comunicare con questo mondo piccolo eppure immenso, perché spenta è la sua fiamma primigenia, lo spirito innocente di quel fanciullino “che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle” (Pascoli). Si scorgono così rimandi al cinema di Truffaut, a quel tredicenne imprigionato in una giostra che gira e gira ed è piena di occhi, di sagome, di regole e costrizioni asfissianti nei Quattrocento colpi. In ogni caso l’adolescente non si accetta e non si sente accettato, è vittima di un mondo che non può essere modellato a proprio piacimento (semplicemente utilizzando una plastilina colorata) ma deve imparare a saper gestire quella giostra centrifuga, tuffarsi per la prima volta, respirare il fondo e poi risalire abbracciando il pelo dell’acqua, guardando in alto “l’ultima cosa che si vede” prima che il tempo torni a invadere tutto, ogni cosa.

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domenica 24 dicembre 2023

Foglie Al Vento - Aki Kaurismäki

non è un film tratto da un (bel) romanzo di Grazia Deledda, è proprio un film totalmente finlandese, Aki Kaurismäki firma un altro grande film, del suo personale ciclo dei vinti (di sicuro non sponsorizzato dall'Ufficio del Turismo finlandese).

Ansa e Holappa sono due vittime del sistema economico, lui  bravo lavoratore, ma abbastanza alcolizzato, lei una brava commessa, che porta a casa del cibo scaduto, invendibile secondo la legge, e per questo licenziata. 

vivono una vita con poca allegria, in case povere, il massimo è la birra nel bar con karaoke.

si trovano, si perdono, si ritrovano, in una camminata zoppicante, con cane, verso il sol dell'avvenire (a Charlie Chaplin piacerebbe).

film di pochi dialoghi, e tutti azzeccati, da morire dal ridere, tra gli altri, i commenti dei cinefili alla fine del film di Jim Jarmusch.

un film da non perdere, promesso

buona (finlandese) visione - Ismaele


 

 

 

“Fallen Leaves” è una delicatissima e tragicomica storia d’amore perfettamente nelle corde del regista scandinavo.Bastano poche inquadrature per ritrovare il classico tocco dell’autore, sempre più essenziale e minimalista e capace di toccare corde profondissime con una pellicola che è sia un inno alla vita e all’amore, sia un grande omaggio alla storia del cinema.

Kaurismäki propone infatti tantissime citazioni, compresa una per l’amico Jim Jarmusch, del quale viene proiettato in un cinema l’ultimo lungometraggio, “I morti non muoiono”. Gli omaggi poi vanno al passato, con diversi riferimenti all’amato Robert Bresson (maestro proprio di quel minimalismo di cui Kaurismäki è oggi uno dei massimi discepoli), a Jean-Luc Godard e uno magnifico, poetico ed emozionante a Charlie Chaplin, da sempre una delle grandi ispirazioni del regista…

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Che bella la canzone di una volta. Pardon, il film. Aki Kaurismaki è una tradizionalista esasperato. Compone e ricompone lo stesso film da una ventina d’anni. Lui, lei (l’altro), un cane (un bambino). Solitari in cerca di calore umano e di una qualche alcolica forma di catarsi. La società individualista che schiaccia la solidarietà comunitaria. Un velo srotolato e accuratissimo di straniante ironia. Una parabola che da singolare si fa universale intinta nella cinefilia. Potremmo fermarci qua e usare queste righe per illustrare l’impalcatura della consolidata poetica ed estetica di una star del cinema d’essai europeo.

Poi arriva Fallen leaves, in italiano Foglie al vento, e capisci che siamo di fronte ad una prova formale austera e in purezza, che richiama quello “stile trascendente” che Paul Schrader argomentava per Ozu, Bresson, Dreyer. Per capire, appunto, Foglie al vento, bisogna poi mettere da parte qualsiasi forma analitica di “realismo psicologico” (Schrader, appunto, docet) e scontare la fobia antirussa dei finlandesi che qui abbonda fuor di metafora sforacchiando radiofonicamente qua e la l’atmosfera spirituale apparecchiata attorno ad Ansa (Alma Poyisti), riempitrice di scaffali in un supermercato, e Holappa (Jussi Vatanen), saldatore alcolizzato che vive nel container aziendale. Siamo nella moderna, spesso serale/notturna, Helsinki di oggi…

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Non manca, all’interno di questo Foglie al vento, la tipica ironia à la Kaurismäki, dove un costante straniamento brechtiano contribuisce, insieme a rigorosissime composizioni del quadro, a inquadrature prevalentemente statiche e a una fotografia dai colori netti e particolarmente saturi, a conferire al tutto un carattere grottesco e surreale. Eppure, al contempo, sempre presente è anche una cruda critica sociale, riguardante non soltanto il mondo del lavoro (in cui l’essere umano non sembra più essere considerato tale), ma anche la caducità della vita, in un mondo in cui, a volte, anche soltanto un piccolo colpo di vento potrebbe cambiare drasticamente le cose.

Il potere del Cinema

In tal senso, dunque, i protagonisti di Foglie al vento sono quasi, letteralmente, due foglie cadute dall’albero e in balia del vento. Due anime sole che per trovarsi e ritrovarsi sono destinate a peregrinare a lungo. A meno che non arrivi una sorta di deus ex machina a cambiare le carte in tavola. È così, dunque, che entra in scena il Cinema. Nel piccolo cinema di periferia, l’uomo e la donna trascorrono la loro prima serata insieme. Proprio tale cinema li aiuterà, tra un incidente di percorso e l’altro, a ritrovarsi. Nonostante nessuno dei due sappia come si chiami l’altro. Con Foglie al vento, dunque, Aki Kaurismäki ha voluto (anche) rendere un sincero e sentito omaggio alla sua amata settima arte, da lui così ben onorata durante la sua lunga e rispettabile carriera.

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La storia di Ansa e Holappa, due proletari sbattuti fuori più volte dai loro precari lavori, dentro una città che, fin verso la fine, pare sgangherata e vuota, ma dove corre sotterranea (come accade sempre nei suoi film) una corrente di solidarietà tra umili: un’infermiera ti regala dei vestiti, due colleghe si autoaccusano, con te, di furto, un uomo salva cani dal canile e dalla soppressione. Anime solitarie, inquadrate le une di fianco alle altre, sul divano di una casa modestissima ma senza un colore o un arredo sbagliato, sulla panchina di un parco, contro le pareti azzurre del California Pub o davanti al palco del locale dove si fa karaoke, Get On, Baby!, un tango di Gardel, un lieder di Schubert, Mambo italiano, tutti in finlandese; e volti imperscrutabili, battute fulminee, silenzi, rotti solo, ogni volta che qualcuno accende una radio (niente tv, nei film di Aki, solo cinema e radio) da un ininterrotto notiziario sulla guerra in Ucraina. Perché non siamo in un mondo a parte, ma in un hopperiano (Edward), triste mondo attuale; anzi, appeso a una parete del California Pub c’è addirittura un calendario del 2024, e chissà cosa vuole dire. Tutto qui: basta poco per catturarti il cuore e lo sguardo, basta essere bravi e limpidi come Aki Kaurismaki. E avere a cuore la gente, come lui e come Chaplin, l’altro spirito guida di questo film, intravisto nei poster fuori dal Ritz e in certe inquadrature e citato nel nome che Ansa dà alla randagia che adotta, una rossiccia di media taglia che pare incredula di aver trovato qualcuno che si occupi di lei. Perché, tra i tanti lati umani di un film di Kaurismaki, non poteva mancare quello canino.

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giovedì 21 dicembre 2023

Adagio – Stefano Sollima

dopo ACAB e Suburra, Adagio chiude la trilogia di Stefano Sollima sulla Roma meno turistica.

Francesco Di Leva e Pierfrancesco Favino erano insieme in L'ultima notte di Amore, entrambi poliziotti, in Adagio Favino diventa un delinquente.

i tre delinquenti Daytona, Il cammello, Polniuman sono a fine carriera, ma il loro è un mestiere nel quale godersi la pensione è molto difficile.

il film inizia con una panoramica della città, dall'alto non si sa cosa avviene a livello terra.

tutto accade in poche ore, la prima parte è buia, notturna, poi arriva un mattino luminoso, la seconda parte avviene durante il giorno, la storia è nerissima, due poliziotti corrotti e i tre delinquenti ex amici, un ragazzino che si trova in mezzo a una storia di ricatti, con una politica criminale e una polizia con qualche scheggia impazzita, deviata, al servizio di un potere corrotto e oscuro, in una lotta senza regole. 

come nel film di Petzold un incendio si avvicina, assedia la città, piove cenere.

e poi ci sono quei ragazzini che si incontrano al commissariato, figli di gente dimenticabile, loro saranno il futuro.

ma questà è un'altra storia.

un film che merita, ottimi attori e una sceneggiatura che regge bene al caos di quella maledetta giornata.

buona (criminale) visione - Ismaele


 

 

 

Il cinema di genere più riuscito deve in qualche modo sublimare se stesso, e Sollima non ha paura di "go big or go home"; soprattutto Favino è trasfigurato in una fisicità assieme viscida e ruvida, irriconoscibile sotto una calotta cranica calva che gli riscrive il rapporto tra testa e corpo. Affiancata dal lavoro sulla lingua più vero del vero, risulta in una prova eccellente perfino per la star più luminosa del nostro cinema, che peraltro è riuscito nel giro di un anno a completare una sua personale trilogia di straordinari film sulle città, visto che la Roma di Adagio va a inserirsi tra la Napoli di Nostalgia e la Milano di L'ultima notte di amore.
Il resto è un mix di novità - il volto fresco del protagonista Gianmarco Franchini, all'esordio in mezzo a nomi pesanti senza farsi schiacciare, le belle musiche dei Subsonica - e di conferme di chi un certo genere crime dell'ultimo decennio ha contribuito a crearlo: la fotografia di 
Paolo Carnera, le scenografie sempre speciali di Paki Meduri, e la solida sceneggiatura di Stefano Bises, che scrive a quattro mani con Sollima. Insieme fanno del cinema sporco, sfacciato e consapevole, tutte cose di cui il genere a cui hanno scelto di dedicarsi ha - alle nostre latitudini - un disperato bisogno.

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…Che in Adagio la morte e la distruzione siano le forze primarie ci viene suggerito sin dalle prime inquadrature, con la vista su una Roma notturna illuminata da una serie di gravi incendi sullo sfondo e da una serie di black out che oscurano ogni cosa. In questo contesto si muovono tre generazioni di personaggi: i vecchi, glorie passate della criminalità ormai ritiratisi nell’ombra e desiderosi di rimanerci; i nuovi criminali, uomini adulti con l’ambizione di conquistare ciò che li circonda; e infine i giovani, piccoli teppistelli con giusto qualche esperienza nello spaccio, spaventati e tutt’altro che certi di voler far parte di quel mondo.

Queste tre generazioni si muovono dunque secondo logiche di attacco, difesa o fuga, sono prede e predatori chiamati all’azione nella giungla di cemento che è Roma. Sollima li segue con attenzione, senza mai avvicinarsi troppo e permettendo così agli attori di cercare e trovare nuovi modi di esprimersi con il corpo all’interno delle immagini. C’è dunque molta istintività e fisicità all’interno di Adagio, che porta però tale titolo in quanto si muove calmo tra le vicende di suoi personaggi e i rapporti tra di loro. L’incidente scatenante che mette in moto il film sembra infatti più un pretesto per chiamare all’azione i suoi protagonisti, concentrandosi poi su di loro, il loro vissuto e le loro ferite interiori…

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“Daytona”, “Il cammello”, “Polniuman” sono tre personaggi dolenti, finiti, e ognuno di loro reagisce al loro destino in modo diverso: Servillo, Favino e Mastandrea restituiscono in maniera convincente le sfaccettature dei loro personaggi che hanno sui volti i segni di un’epoca di sangue e morte. Le loro interpretazioni, come quella di Adriano Giannini in un ruolo che non vi sveleremo, e la maestria di Sollima nel dirigere le loro storie sullo sfondo di una Roma distopica, tra fuoco e cenere, sovraffollata, caotica e sporca, immagini potentissime, non bastano a risollevare una trama debole e prevedibile.

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mercoledì 20 dicembre 2023

La coraggiosa presa di posizione di Gabriele Muccino su Gaza - Agata Iacono



Tra tantissimi, troppi, artisti, registi, intellettuali muti dinanzi alla strage del popolo palestinese, pochi esempi di persone libere meritano di essere evidenziati.

Roger Waters ha subito e continua a subire la censura e il boicottaggio  dei suoi spettacoli,  l'attrice e produttrice Susan Sarandon si è vista cancellare contratti ed è stata isolata come un'appestata.

Solo per aver mostrato pubblicamente solidarietà a Gaza...


Già, rischi di non lavorare più.


L'artista deve riflettere e amplificare il pensiero unico e la narrazione dominante, deve essere il testimonial dei suoi mecenati...


Oggi non è concepibile che un Dante collochi  il papa ancora vivo all'inferno, un Michelangelo che raffigura il Papa nella Cappella Sistina...

Altrimenti se ne può fare a meno, guai ad introdurre dubbi e capacità di analisi, c'è sempre l'intelligenza artificiale che può sostituire un artista...

 

È per questo che "stupisce", ahimè, come un caso raro e degno di essere citato, il post Istagram di Muccino.

"Se vuoi sapere, davvero conoscere cosa sta succedendo in Israele e Palestina, aggira facilmente i media e troverai decine di testimonianze di ex militari israeliani, professori israeliani, sopravvissuti all’Olocausto che sono stati espulsi dalle loro professioni in cui erano eccellenze per aver raccontato la propria storia ed aver detto a voce alta, il contrario di quello che lo Stato “democratico” di Israele permette ai propri cittadini di esprimere. L’ignoranza e la distrazione sono i più antichi strumenti di propaganda. Ma nonostante i tentativi di nascondere la verità, se la vuoi cercare, la trovi. Trovi tutto semplicemente navigando su internet. Altrimenti continua pure nel tuo sonnambulismo. Su Gaza sono state sganciate l’equivalente del potere distruttivo delle due bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Lo sapevi? Cercalo e lo troverai"…

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lunedì 18 dicembre 2023

Il cielo brucia (Roter Himmel) - Christian Petzold

Felix e Leon si concedono una piccola vacanza in una tranquilla casa vicino al mare, l'ideale per finire i loro lavori, Felix deve preparare un portfolio per poteraccedere a una scuola di fotografia, Leon deve finire di scrivere il suo secondo libro.

non tutto va bene, la macchina si ferma, la casa è occupata da Nadja, quell'estate gli incendi sono particolarmente molesti, dal soffitto c'è un'infiltrazione.

Felix è un ragazzo estroverso, Leon è abbastanza chiuso, la convivenza con Nadja (e a volte Devid) non è facile per tutti.

nell'ultima parte del film le tensioni crescono, e un dramma terribile segna le loro vite.

Leon, che per paradosso è uno scrittore e in quanto tale a contatto con le parole, non trova le parole per dire quello che sente, in quei giorni, e neanche nel libro le parole riescono a dire qualcosa di bello, in giudizio di Nadja è senza appello, come  quello del suo agente Helmut.

e poi accade la tragedia.

e tutto cambia, e anche il libro di Leon diventa un buon libro.

un film che non si dimentica tanto presto e Paula Beer è sempre più brava.

il film, vincitore dell'Orso d'argento al festival di Berlino del 2023, è addirittura in quattro sale in tutta Italia, così va il mondo.

buona (incendiaria) visione - Ismaele


  

 

Studio di caratteri, disamina spietata della professione di romanziere, storiella scema che alla fine funziona, Roter Himmel è la prima bella sceneggiatura di Petzold dalla morte di Harun Farocki. Spensierata e inquietante come una partita di volano coi racchettoni luminosi in una notte d’estate. Fotografia magnifica – soprattutto dopo il tramonto – di Hans Fromm e consueta selezione musicale di Petzold calibrata al millimetro. La colonna sonora sfoggia Tarwater, “andata” di Ryuichi Sakamoto dall’album async (2017) e sopratutto In My Mind (2020) del gruppo viennese Wallners, disinvoltamente perfetta tanto nei titoli di testa quanto in quelli di coda. Paula Beer, magnetica, è la nuova Nina Hoss und das ist gut so.

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Certo, Petzold non ha quei ritmi travolgenti, rimane sempre più compassato, alla ricerca di uno scavo più profondo nella trama delle relazioni. Eppure delinea nuove traiettorie. E se Undine era una donna passionale, di energie innocenti e brutali, qui Nadja è una figura femminile più tenera, apparentemente più gioiosa e rassicurante, pur nelle sue ombre e nei suoi segreti. Un corrispettivo ideale di un protagonista che, invece, è talmente immerso nella propria dimensione iperurania e così avvitato su sé stesso, da essere del tutto incapace di rendersi conto di ciò che gli accade intorno. Costantemente sulla difensiva. È l’accusa che gli rivolge Nadja, svelando tra le righe, una verità decisiva. Ma anche mettendo finalmente a nudo i limiti di Leon e della sua vena di scrittore. Per quanto si possa essere attenti ai propri movimenti interiori, di cosa si può davvero scrivere se non si è in grado di aprire gli occhi sugli altri e sul mondo?

Allora, tutta la parabola disegnata da Petzold si rivela un percorso di educazione sentimentale e di rieducazione alla vita. Che deve passare necessariamente per il travaglio del negativo, per il picco di discesa. Per la crisi, il dolore, la perdita. Per quell’istante in cui tutto ciò che sta intorno, prende fuoco e si trasforma in cenere. Ma, anche nel mostrare il dramma, Petzold non diventa mai tragico. Mantiene una levità, che passa prima di tutto negli sguardi, negli atteggiamenti, nel linguaggio dei corpi. E poi, solo poi, nell’esternazioni più evidenti e nelle parole. La scrittura di Leon riprende corpo e sangue, nel tornare alla vita. Mentre quella di Petzold si trattiene, rimane un passo indietro. Lasciando che le cose parlino da sé, tra i silenzi, i pianti e i sorrisi.

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Il cielo brucia ha una quantità infinita di pregi e francamente proprio nessun difetto. Scritto con aggraziata compattezza da Petzold, il testo mescola l’elemento naturale del fuoco con pulsioni e passioni degli esseri umani, in primis quel senso di gelosia e di possesso che intercorre nei rapporti interpersonali sia sentimentali che semplicemente amicali. Non solo il cielo, ma anche l’anima brucia in Leon e Nadja, come in Felix e Devid. E la regia di Petzold è lì a circoscrivere con squadra e righello, nemmeno fosse un maestro del thriller, i bordi del quadro umano entro cui labilità e fragilità interiori si sviluppano. L’incendio della foresta, sinistro e insinuante, chiaramente presente in fuggevoli impressioni tra i protagonisti, non è mai turning point deflagrante. E qui sta la grande abilità del regista tedesco oramai 63enne – ce lo ricordavamo negli anni di Jericow e Yella a Berlino vent’anni fa: far incombere il realismo inarrestabile della natura tenendolo continuamente e metaforicamente sottotraccia.

L’accerchiamento è qualcosa che la regia di Petzold costruisce senza che ne accorgiamo: utilizzando attori estremamente capaci più in funzione di pedine, rendendo lo spazio di quel giardinetto davanti casa e già dentro la foresta come sempre più diviso dal mondo. Perché in fondo c’è una lezione da grande drammaturgo a sorreggere e penetrare Il cielo brucia: per poter scrivere una storia e descrivere la realtà bisogna essere capaci di guardarsi attorno e non di atteggiarsi da narratori per grazia ricevuta o status sociale. Fate voi, insomma. Noi che questo film va visto assolutamente ve lo abbiamo spiegato. Distribuisce come al solito modello sfida impossibile Wanted. Il cielo brucia ha vinto l’Orso d’argento a Berlino 2023

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In Afire, dopo una prima parte in cui hanno la meglio momenti leggeri, spesso addirittura esilaranti (grazie soprattutto alla bravura di Thomas Schubert), la tragedia non tarda ad arrivare. E sarà molto più crudele e inaspettata di quanto si possa inizialmente credere. Come di consueto, dunque, Christian Petzold non ha esitato a sorprenderci, ad annichilirci, stravolgendo ogni iniziale certezza e mostrandoci (tante) possibili svolte e soluzioni. Questo suo Il cielo brucia è, dunque, un vero e proprio inno all’amicizia e all’arte. E per creare una valida opera d’arte soltanto un’attenta e sincera osservazione del mondo che ci circonda può esserci realmente d’aiuto.

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