venerdì 31 marzo 2023

Lemming (Due volte lei) – Dominik Moll

un lemming casualmente è testimone di una grande crisi familiare, e non solo.

due ottime attrici si trovano a guidare il gioco con i rispettivi mariti, e non solo. 

un giallo senza pietà per nessuno, nessuno sembra innocente, le cose non sono quelle che sembrano, o forse sì.

buona (lemming-) visione - Ismaele

 

 

 

Ho avvicinato questo film con grande curiosita'visto che avevo parecchio apprezzato il precedente film di Moll, Harry un amico vero. Qui il linguaggio è assai diverso,criptico involuto, di difficile interpretazione e non nascondo le mie perplessita'alla fine della visione. E'un film sull'ossessione ,la pazzia come il precedente o Moll ci ha voluto dire qualcosa d'altroe non sono riuscito a coglierlo pienamente? E il lemming che cosa c'entra? E' il granello che blocca irrimediabilmente la perfezione dell'ingranaggio (il perfetto menage familiare della coppia giovane)? O visto che i lemming hanno l'usanza di andarsi ad affogare in mare volontariamente è un anticipo della volonta'di suicidio della donna del direttore? E questo suicidio è accaduto veramente o è lui che si è sognato tutto? Boh,a dir la verita'non ci ho capito molto ma la messa in scena raggelante ricorda abbastanza da vicino il miglior Haneke,gli attori sono bravi a far trasparire l'inquietudine (anche se la Rampling è molto sopra le righe) e il finale ricorda molto quei film di in cui appena usciti dal cinema ti stavi ad interrogare e confrontare con i compagni di visione su quello che avevi appena visto. Per riassumere sono rimasto interdetto,non pienamente convinto,col pensiero fisso che stavolta Moll abbia voluto un po'giocare con lo spettatore....

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…El elenco principal hace un trabajo memorable, en la encarnación de dos aspectos de la institución matrimonial: una plena de esperanza y la otra siniestra, consumida por odios. Además, es claro desde un principio que, casi en su totalidad, la cinta pertenece a sus protagonistas femeninas, que se adentran en este laberinto tenebroso con paso seguro, distinción y valentía; así vemos, como es su estilo habitual, a la legendaria Charlotte Rampling hacer alarde elegante de su encanto amenazador y gracia salvaje (algo que ha cultivado desde Portero de noche, pasando por la excepcional Bajo la arena), donde la casi virginal Charlotte Gainsbourg lleva a su personaje por un viaje extraño e irreversible hasta una conclusión espeluznante: al final, ninguno de los personajes será como al principio y esto, en manos de un director talentoso como Moll, es un auténtico logro… aún si Lemming no es una película fácil de comprender, o de explicar, si bien una vez vista, es un recuerdo inquietante e imborrable.

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Il regista stesso afferma che ha voluto raccontare la storia di un uomo che cerca di mantenere sempre il controllo su tutto perché è convinto che questo garantisca la felicità, ma poi è smentito dalle vicissitudini della vita. Moll ha centrato il suo obiettivo? Nella seconda parte del film, in cui si vorrebbe aumentare il mistero e virare quasi verso il racconto di fantasmi, ci sono dei salti nella sceneggiatura: l'irrazionale guida i personaggi in strade alquanto tortuose, fino ad una risoluzione conclusiva, che se non si vuole definire proprio scontata, è sicuramente prevedibile. Le scelte registiche rispettano un assunto di iperrealismo ma non supportano sufficientemente questi "salti" della sceneggiatura.
Probabilmente se il film avesse avuto meno velleità intellettuali e psicologistiche il risultato sarebbe stato di gran lunga migliore, perché il cast ha recitato brillantemente e l'idea di fondo prometteva bene. Ci troviamo di fronte ad una pellicola che vorrebbe essere d'autore, e che porta ad interrogarsi su quali siano le caratteristiche per definire tale un film.
Di sicuro c'è che "Due volte lei" non è destinato a chi vede il cinema come pura evasione.

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giovedì 30 marzo 2023

Mi gran noche – Álex de la Iglesia

la  follia di Álex de la Iglesia ci mostra qualche ora nel mondo dello spettacolo, quello che registra la notte di capodanno quattro mesi prima.

tutto è finto, ma c'è molta realtà, fuori dagli studi la polizia picchia davvero alcuni lavoratori che manifestano arrabbiati, dentro tutti, o quasi, cercano di fregare il vicino nella rappresentazione televisiva.

come spesso succede ad Álex de la Iglesia, Mi gran noche è un film tutto di corsa, sceneggiatura a orologeria, con colpi di scena a ripetizione.

buona (silvestrina) visione - Ismaele


 

QUI il film completo, in spagnolo

 

 

Il concept alla base della vicenda corale è come al solito una feroce critica alla società attuale, spagnola e non, verso la quale il regista non è mai andato leggero. Parafrasando il Premio Nobel Dario Fo, se c’è una cosa che fa incazzare il potere è quando ci si prende gioco di lui, quando lo si scherza e lo si ridicolizza, anche indirettamente. Una risata può più di una denuncia. E Álex de la Iglesia, fin dai suoi esordi, ha sempre raccontato la piccolezza della borghesia spagnola, e quindi anche europea, le ipocrisie delle istituzioni, dei costumi e delle abitudini consolidate, ma soprattutto ha puntato l’indice contro la pericolosità del mezzo televisivo…

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un potenziale delirio di frastornante comicità, e stando alle prime recensioni arrivate, sembrerebbe proprio che de la Iglesia abbia mantenuto le promesse. Per Cineuropa, “lo spettatore che vede Mi gran noche esce dalla sala con voglia di ballare, cantare, ubriacarsi e fare sesso”, sottolineando inoltre la presenza di un “umorismo scanzonato, una macchina da presa impazzita e sotto anfetamine e numeri musicali incredibili, degni di uno studente avanzato di Valerio Lazarov”. Per la Hollywood Reporter, trattasi invece di un film “tecnicamente abbagliante, una sommossa di colori ed energia da mal di testa che si estende fino alle danze ermeticamente coreografate”…

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Hace ya muchos años (¡cómo pasa el tiempo, maldición!), Álex de la Iglesia, que venía de sublevar a los inadaptados (y a despertar de un buen pescozón al cine nacional) en Acción mutante, nos avisó de que el advenimiento del Anticristo tendría lugar en plenas navidades. Satanás ya reina sin discusión alguna en este erebo en la Tierra que es España, así que no es ninguna casualidad que su mayor ordalía y orgía tenga lugar en Nochevieja… Poco importa que esa fiesta de fin de año (o de fin del mundo) que ocupa toda la diabólicamente divertida e iconoclasta Mi gran noche sea en realidad la caótica (Ensayo de orquesta, el primer guiño del film a Federico Fellini) grabación de un especial televisivo nocheviejuno. Cual los invitados a ese otro ágape de oropel y miserias que fuera El ángel exterminador, esos figurantes, cantantes, artistas, técnicos, representantes, conocidos, bastardos etc. atr

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martedì 28 marzo 2023

Durante la tormenta - Oriol Paulo

una storia ingarbugliata, un salto temporale di 25 anni, un'intervento dal futuro che cambierà (?) il passato.

una sceneggiatura complessa con tutti i pezzi che si incastrano, ma lo si saprà solo alla fine.

tutto parte dalla caduta del muro di Berlino del 1989 (come in Goodbye Lenin, mutatis mutandis), durante una tempesta che apre una finestra temporale durante qualche giorno anche 25 anni dopo.

un bambino vivrà, e questo cambierà la storia, si risolverà il mistero di un omicidio, e la finestra temporale si chiuderà, e il mondo sarà diverso.

buona (non distratta) visione - Ismaele

 

 

Durante la tormenta es entretenimiento en estado puro, dos horas de tensión bien llevadas y un rompecabezas que el espectador intentará recomponer cuando la película llegue a su fin.

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Commovente in alcuni passaggi, un po’ lento in altri, Durante la Tormenta è un buon film che, nonostante una durata superiore alle due ore, scorre via bene, lasciando un buon ricordo nello spettatore, malgrado qualche piccolo dubbio su alcune scelte “tecniche” utilizzate per giustificare alcune situazioni nate da incursioni temporali nel passato.

Bella anche la colonna sonora e le atmosfere che accompagnano la visione, in particolare il brano suonato dal piccolo Nico all’inizio, ha un significato importante, si tratta di Time After Time di Cindy Lauper che, oltre indicare il susseguirsi del tempo in ogni sua sfaccettatura, cita direttamente un film del 1979 che parla di viaggi nel tempo, e che ha per titolo lo stesso nome del successo della cantautrice statunitense.

Bene tutti gli attori, fra i quali spicca, oltre ai protagonisti, il pluripremiato Javier Gutiérrez. Buono il lavoro di doppiaggio fatto.

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In Mirage Paulo parte da un fatto accaduto 25 anni prima per costruirvi sopra una realtà parallela che modifica il corso non solo del singolo episodio o del singolo momento: come un domino infernale , la tessera caduta in un certo modo causa effetti che se fosse caduta in un altro sarebbero stati diametralmente opposti.

Ed è appunto quanto succede a Vera che a causa di quel tunnel invisibile che le mette in contatto con il protagonista di 25 anni prima, vede la sua vita stravolta, ribaltata, resa diversa dal solo tentativo fatto di scongiurare la morte del ragazzino Nico.

Sarà l'incontro, oggi, dei due protagonisti di questa dissociazione temporale che cercherà di costruire un grimaldello col quale tentare di rimettere tutto al proprio posto salvando capre e cavoli.

Mirage come thriller funziona perchè comunque il regista è capace di tenere le redini del film sempre in mano e soprattutto di gestire bene la tensione, però va chiaramente detto che Paulo non è certo Christopher Nolan riguardo alla capacità di plasmare il tempo e lo spazio, creare tunnel dissociativi o salti; Interstellar è il paradigma che viene in mente mentre si sviluppa il racconto di Mirage, ma questo non riesce ad essere così lineare come l'opera di Nolan, bensì, spesso, sembra divagare in modo quasi confuso, lasciando alla fine anche qualche domanda senza risposta.

Nonostante ciò e nonostante soprattutto il paragone scomodo con Nolan, Mirage, come abbiamo detto è un  lavoro che ha dei pregi, essenzialmente un buon thriller cui le derive fantascientifiche, sebbene poco convincenti, non portano eccessivo nocumento

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Durante la tormenta è un thriller spagnolo abbastanza avvincente, che ci porta in due realtà parallele che, a causa di una falla nel continuum spazio-temporale, comunicano tra loro scatenando effetti sconvolgenti incredibili. Il film di Oriol Paulo riprende temi come il viaggio nel tempo, i wormhole, che sono stati adoperati ampiamente in moltissimi film di fantascienza, basti citare Contact, 2001: Odissea nello spazio e Interstellar. Questa pellicola ha l’arduo compito di portare avanti una doppia narrazione che si nutre di altrettante storie che si intrecciano tra loro attraverso connessioni e schemi temporali diversi, che nonostante tutto si lascia seguire molto facilmente: due epoche distinte che si sovrappongono e due viaggiatori che sopravvivono e comunicano attraverso una vecchia televisione.

Un antico proverbio cinese dice che il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo, il cosiddetto effetto farfalla. Tutto questo è chiaramente esplicitato nella pellicola che mostra come un’azione, un cambiamento che altera gli eventi del passato, possa stravolgere ogni cosa. Giocando con questo ragionamento, presente anche nel film Frequency in un certo modo, il regista spagnolo Oriol Paulo costruisce un thriller con omicidi e indagini criminali, attraverso una narrazione che non può essere attribuita solo a un genere: c’è la fantascienza, ma anche il noir e il dramma familiare…

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Non c’è thriller che si rispetti senza un buon intreccio. Nelle due precedenti pellicole il regista era stato inappuntabile, con storie articolate e perfette come cronometri. Un tipo di storia sempre un po’ sopra le righe e ai limiti della credibilità, ma niente che gli appassionati di letteratura e cinema giallo non conoscano bene e nel quale non siano disposti ad abbandonarsi in completa fiducia. L’importante è che alla fine tutto torni. Ecco, forse è qui che Durante la tormenta perde qualche colpo. La commistione tra giallo classico e fantascienza, in particolare con tutti i paradossi connaturati ai viaggi nel tempo, rendono l’intreccio un po’ più debole. Non significa che non sia interessante. L’idea, anche se non completamente originale, è potente e probabilmente sarà il motivo per cui questo film avrà più successo dei due precedenti, ma si allontana dal meccanismo perfetto e ansiogeno dei primi due film. Quel ticchettare crescente che accompagnava lo spettatore fino alla fine per fargli dire “A-HA! Ora tutto torna!”…

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lunedì 27 marzo 2023

La educacion de las hadas - José Luis Cuerda

tratto da un bel libro di Didier van Cauwelaert, il film con degli attori bravissimi, come lo è il regista, d'altronde.

Ricardo Darín è il solito, bravo, simpatico, empatico, il film si vede bene, e però manca qualcosa, quell'alchimia misteriosa che rende il film perfetto.

bello, ma...

buona (fatata) visione - Ismaele


 

Cuerda -qué duda cabe- es un sólido narrador y trabaja el enigma central (¿por qué ella quiere terminar de manera abrupta una relación afectiva tan gratificante?) con criterio, pero la película se va desinflando con el correr del tiempo, especialmente durante su segunda mitad. Ni siquiera la aparición de Sezar (la cantante Bebe, en un más que digno trabajo), una joven argelina que se gana la vida como cajera de un supermercado pero sueña con estudiar en La Sorbona de París, alcanza a dotar a la trama del impacto necesario como para recuperar el interés del planteo inicial.

Los rubros técnicos son muy consistentes. Darín aporta su habitual profesionalismo, jerarquía y compromiso (aunque está muy lejos de lucirse como en sus trabajos para Fabián Bielinsky o Juan José Campanella), mientras que a Jacob no la favorece en nada su pobre dicción en castellano. Quizá por eso su actuación no alcance a transmitir casi nunca los múltiples matices de un personaje tan enigmático y misterioso como clave para la construcción y evolución del film.

Así, con más tropiezos que hallazgos, estamos ante una película que -debe aclararse- jamás irrita y que incluso hace gala de una gran dignidad, pero de la que podía esperarse mucho más.

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No sería justo, de todas formas, despachar la película de un volapié, porque hay apuntes interesantes. El propio tono, buscando (aunque no lo termine de encontrar) la poesía cinematográfica; el hallazgo de Bebe, la cantante que demuestra ser una actriz más que potable; el también excelente descubrimiento del niño Víctor Valdivia, un prodigio en sus pocos años, confirmando la mano que Cuerda tiene para los tiernos infantes… No tan bien está Ricardo Darín, que parece gallina en corral ajeno, alejado de su contexto social y geográfico; tampoco brilla Irène Jacob, que gasta demasiada energía en interpretar en español, una lengua que evidentemente no domina, y se le va toda la fuerza en ello. Dicen que, para ahogarse, da igual hacerlo en los dos metros de una piscina que en los once mil de la fosa de las Filipinas; algo de eso pasa con La educación de las hadas: tiene una intencionalidad lírica, pero se queda a un centímetro de la poesía, y entonces es como si se quedara a cuarenta kilómetros: el resultado es el mismo.

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Adaptación de una novela del francés Didier van Cauwelaert, en la que el veterano José Luis Cuerda no acaba de dar con el necesario equilibrio entre el drama por un desengaño amoroso, y el aire de cuento de hadas. Narra el flechazo instantáneo que experimenta Nicolás, fabricante de juguetes y cuentacuentos, al coincidir en un vuelo con Ingrid, viuda de un capitán del ejército italiano que murió en Irak, y su hijo de diez años Raúl. Y en efecto, formarán una familia aparentemente feliz. Hasta que, sin motivo aparente, Ingrid quiere dar la relación por terminada. Lo que provoca la desesperación de Nicolás, que está dispuesto a cualquier sacrificio para seguir con ella. Aunque puede que un ‘hada’, en forma de cajera de supermercado argelina, arregle las cosas con su ‘magia’.

Tal vez Cuerda quiere decirnos que el mundo actual es un ‘mix’ de nacionalidades, pues aunque la trama transcurre en España, los personajes compatriotas brillan por su ausencia: el protagonista (Ricardo Darín) es argentino, su amada (Irène Jacob), francesa y viuda de un italiano, el hijo, pues eso, medio francés, medio italiano, y la cajera, magrebí. Pero tal afirmación nada tiene que ver con la historia. Y en cuanto las dudas de Nicolás por el amor de Ingrid, son las mismas del espectador, y la respuesta al enigma, más vieja que el mundo (o casi). El toque mágico no lo parece, el entero film sabe a decepción. Lástima.

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ricordo di Ivano Marescotti

 






domenica 26 marzo 2023

Miracle - Jang Hoon Lee

Miracle è un film (quasi) normale, una storia di ragazzi e ragazze e anche di uomini e donne, ma non solo, ci sono i fantasmi.

una parte della sceneggiatura avrebbe potuto scriverla Cesare Zavattini, un'altra John Hughes, e poi Jang Hoon Lee le ha messe insieme (scherzo, naturalmente, forse).

il film non annoia un momento, piccoli e sostanziosi colpi di scena tengono alta l'attenzione.

ma anche le cose normali diventano eccezionali, al cinema.

si ride, si piange, si parteggia per i passeggiatori all'interno dei binari, e per la piccola scuola che apre nuovi mondi. 

e alla fine tutti, o quasi, i nodi si sciolgono, e i nostri eroi toccheranno la luna, contro la teoria della probabilità.

buona (testarda) visione - Ismaele

 

 

 

Amori adolescenziali, tragedie famigliari e miracoli che rendono l'impossibile possibile ritornano, in un affresco mélo della vita nella provincia remota e dei sacrifici che questa comporta.

Joon-kyeong cresce nel senso di colpa, convinto di aver causato solo tragedie e sofferenze e per questo di non essere amato dal padre. Le sue capacità intellettive divengono quindi le risorse per poter aiutare il prossimo, in una negazione di sé e della propria felicità che è tipica della morale ricorrente in molto cinema popolare sudcoreano. Intriso di neo-confucianesimo, Miracle non brilla certo per adesione allo spirito del tempo contemporaneo: basta soffermarsi sulle scelte compiute dai personaggi femminili per rendersene conto.

La massima ambizione della sorella del protagonista è di provvedere alla famiglia e in particolare ai due maschi superstiti; quella della potenziale fidanzata, invece, è di essere la sua musa e sostenere, anche da remoto, gli sforzi di Joon-kyeong nel perseguire la propria carriera. Ma probabilmente questa etica retriva e patriarcale contribuisce a contestualizzare Miracle in una bolla atemporale che riguarda lo spirito di corpo sudcoreano e l'elogio delle risorse inaspettate della povera gente, costretta dalle circostanze a sacrifici inimmaginabili per i cittadini privilegiati di Seoul.

Il regista Lee non toglie mai il piede dall'acceleratore del sentimentalismo, indulgendo sui momenti più strappalacrime e sfruttando al massimo il toccante contrappunto della colonna sonora.

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…il film, vincitore del Premio del pubblico all’ultimo Far East Festivalscava più a fondo nelle contraddizioni di questo protagonista, tanto geniale in matematica e fisica, quanto complessato e represso nelle relazioni umane.

E lo fa con un umorismo delicato e incisivo, capace di passare dalla commedia di costume al melodramma adolescenziale, dallo spaccato sociologico (quanti danni fa in Corea il bisogno di “obbedire agli ordini”?) al culto dei morti. Un film insolito e sorprendente che mescola un originale percorso di formazione giovanile (grazie a una compagna di studi decisamente disinibita) con il ritratto di un Paese dalle mille contraddizioni.

Per chi vuole scoprire le fragilità di un Paese complesso come la Corea del Sud

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Il regista sudcoreano, che firma anche la sceneggiatura del film, adotta la metafora per tratteggiare un ritratto umano in cui si mescola rimorso, dolore e rivalsa, adatto alla fruizione di un pubblico eterogeneo, senza limiti d’età. Miracle ha il grande pregio di tenere alta l’attenzione dall’inizio alla fine, lavorando d’astuzia con la propria sceneggiatura e spingendo sul pedale delle emozioni (forse abusandone troppo) sul finale della pellicola. Il risultato è un’opera sicuramente riuscita, in grado di smuovere le coscienze del proprio pubblico, pagando esclusivamente nell’happy ending finale un’artificiosità che stona leggermente con quanto fatto vedere prima. Premio del pubblico al Far East Film Festival a testimonianza del mordente esercitato dal film di Lee Jang-hoon nei confronti dello spettatore.

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A stupire in particolar modo, come spesso accade nelle produzioni asiatiche non graniticamente legate all’idea di “genere cinematografico” di stampo americano, è il continuo cambio di registro: con estrema delicatezza Miracle passa dal racconto di formazione (perché, di fatto, il protagonista sta cercando di gettare un ponte davanti a sé per il proprio futuro, di avere una voce che lo smarchi dall’isolamento esistenziale) al melò, dall’irresistibile umorismo al dramma venato quasi di giallo. A fare da collante c’è la non comune abilità nella gestione delle emozioni e dei sentimenti umani, con l’emersione di caratteri – anche quelli più apertamente in secondo piano – tridimensionali e sfumati, dal complesso background (basti pensare al padre di Jun-gyeong).

Miracle ha intenzioni nobili ben tangibili, ci ricorda tempi e questioni semplici, è pieno di malinconia per un’epoca recente ma ormai passata, possiede un calore e una vena emozionale in grado di far ridere e piangere gli spettatori. Ed è, ultimo ma non ultimo, attraversato da interpretazioni di primo piano e gran richiamo, in questo caso soprattutto ovviamente per chi già li conosce in Corea: Park Jeong-min (recentemente visto anche in Decision to Leave) è uno degli attori più richiesti della sua generazione, mentre Im Yoona è una diva amatissima del k-pop. Tutti tasselli che servono a ribadire, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che la qualità del cinema coreano non è più un’eccezione o un miracolo: è una regola consolidata.

Miracle: conclusione e valutazione

Delicato lavoro di regia e sceneggiatura particolarmente ispirata, sia nei momenti più leggeri che in quelli maggiormente drammatici. Fotografia trasognata e ovattata, in perfetta sintonia con lo spirito nostalgico del film. Cast perfettamente in parte, capace di rendere al meglio il respiro emotivo che attraversa ogni scena, mentre la colonna sonora si limita a un lavoro di rifinitura, restando ai margini della storia raccontata.

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sabato 25 marzo 2023

El planeta – Amalia Ulman

girato in bianco e nero, in una Gijon meno affascinante della Manhattan di Woody Allen, il film mette in scena mamma e figlia (come lo sono nella realtà) nel pieno di una decadenza economica, verso il fallimento totale.

le due si illudono, finché dura, di continuare a vivere una vita al di sopra dei loro mezzi, che non esistono, in una città che è lo specchio della loro crisi (non si contano i negozi chiusi, da affittare, falliti), comprando a credito o tentando (fallendo, ca va sans dire) la strada della prostituzione.

ma le cose rotolano verso il basso, senza pietà.

un film che è la fotografia di una forma di morte, non basta Martin Scorsese, millantato conoscente della madre, a far cambiare strada alla valanga, che non torna indietro.

interessante, o folle, l'illusione malata che le cose andranno meglio.

buona (disperante e disperata) visione - Ismaele


 

 

El Planeta, che dà il titolo al film, è un ristorante di lusso che rappresenta per le protagoniste il polo estremo di una vita passata che non torna più, una realtà borghese sbiadita che ha lasciato soltanto le sue abitudini e i suoi sfarzosi costumi.
Amalia Ulman costruisce una narrazione solida che gioca con i toni surreali della tragicommedia e con un umorismo di fondo accattivante. La sua regia è immediata e lineare, senza troppi tecnicismi, accompagnata da una fotografia che sembra rendere omaggio a più di qualche classico. A stonare, nell'insieme comunque di livello, sono il montaggio e una colonna sonora che non sempre si lega con armonia a ciò che viene mostrato. Il montaggio del film stride con il resto per l'utilizzo di alcune transizioni visivamente marcate e fin troppo audaci, forse volontariamente kitsch. Ciò che risalta nel film, invece, sono le interpretazioni di Amalia e Ale Ulman, realmente madre e figlia, e la capacità di rendere i personaggi interessanti nella loro complessità. Tale complessità, però, non inficia sulla leggerezza velata e sincera che caratterizza il film, sul tono perfino scanzonato che lo contraddistingue.
El Planeta è un esordio convincente, nonostante alcuni elementi più fuori fuoco di altri. La bravura della Ulman è quella di essere riuscita a fondere il proprio stile con una narrazione che vede nella bellezza dei personaggi la sua punta di diamante, su uno sfondo che non è mai solo una semplice cartolina ma un ambiente che riesce, da solo, a comunicare qualcosa.

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…Le protagoniste del film, Leo e Maria, sono infatti interpretate rispettivamente dalla Ulman e sua madre Ale: una scelta di cast che lascia trasparire profonde tensioni personali nascoste sotto la superficie "fiction" del film. Le dinamiche madre-figlia riflettono in modo ironico e speculare i disordini e la criticità della realtà urbana dipinta dalla regista. "El Planeta" vuole tracciare un ritratto della crisi finanziaria della Spagna contemporanea, evitando il realismo e scegliendo di abbracciare gli accenti della black comedy. La Ulman dipinge un mondo tragicomico e camp che omaggia Almodóvar, mentre l'estetica monocromatica e vignettistica ricercata dall'autrice sembra richiamare il primo Jim Jarmusch…

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La carta vincente di El Planeta è insomma quella di saper raccontare con freschezza ed umorismo un mondo angosciato e incapace di essere onesto con se stesso, che fantastica di vite mai vissute e sempre desiderate. Anche nelle scene finali, quando il film ci mostra un galà per il premio Principessa delle Asturie con ospite Martin Scorsese (un vero evento che ha avuto luogo a Gijón nel 2018), capiamo che l’immaginario cinematografico per Amelia Ulmann è l’ennesimo filtro per potenziare questa dissimulazione, per renderla ancora più totale. Dopotutto, se di fronte a una vita che non lascia molte scelte non si può che affondare, allora tanto vale farlo con stile.

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El Planeta de Ulman más bien podría considerarse un buen trabajo de fin de carrera más que una buena película. Propone ideas muy interesantes, pero se queda en eso: un esbozo. Como ópera prima resulta un trabajo admirable, pero resulta inconexo y no llega a ningún puerto.

Por supuesto, también resulta digno de sorpresa que fuera seleccionada para el Festival de Sundance, lo cual tiene mucho mérito para una película independiente. Pero aún, El Planetase queda a mitad de camino con una historia que, si bien puede resultar interesante y atractiva al espectador, se queda en algo confuso.

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venerdì 24 marzo 2023

Great Freedom (Große Freiheit) - Sebastian Meise

Hans (Franz Rogowski) era in un lager per il paragrafo 175, finita la guerra entra ed esce di galera per il paragrafo 175.

Hans ha molte storie di sesso, ma anche intense storie d'amore.

in realtà il film racconta storie d'amore e di come la società, per più di un secolo, ben prima e ben dopo il nazismo, abbia incarcerato chi aveva amori clandestini, secondo la legge, esattamente come oggi si va in galera se si è (migrante) clandestino.

Franz Rogowski è di una bravura straordinaria, non perdetevi questo  film, in qualsiasi modo.

buona (clandestina) visione - Ismaele 

 

 

…Perfetti i protagonisti: il tenace, esile e mite Hans è interpretato da Franz Rogowski, attore che in Germania va oggi per la maggiore, con il suo stile sottotono, il suo viso irregolare ma sincero e la sua imperfezione tutta umana e veniale, con un labbro leporino che gli causa un marcato difetto di pronuncia. Rogowski appare nel film in canottiera bianca e baffetti, con un vago, vaghissimo ma ben percettibile ricordo del look di Freddy Mercury. Anche il viennese Georg Friedrich, attore molto quotato in patria, è perfetto nella parte del duro, irruento, istintivo ma generoso Viktor.
Il titolo Grosse Freiheit (Grande Libertà), si riferisce ovviamente all’abolizione del paragrafo 175, ma si rifà al nome di una via di Amburgo così intitolata a seguito della libertà religiosa per non luterani, riconosciuta nel 1610. Nella via, che fa parte di St. Pauli, il celebre quartiere a luci rosse di Amburgo, ci sono vari locali con lo stesso nome e nel con quel titolo nel 1947 fu girato anche un musical con Hans Albers.

Grosse Freiheit, già vincitore del premio della giuria nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes 2021, ha ottenuto al 39° Film Festival di Torino – TFF 2021, il premio al miglior attore per Franz Rogowsky con la seguente motivazione:
“Porta sulla sua faccia e sul suo corpo l’odissea raccontata dal film, attraversandola con dolore, disperazione e con un’intensità straordinaria”.

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In un montaggio alternato che si muove attraverso diverse linee temporali, Great Freedom compie un arco narrativo che parte dal primo periodo di prigionia di Hans, nel 1945, fino ai primi anni ’70, quando il vergognoso articolo 175 venne abolito per sempre. 

Grosse Freiheit è un film inesorabile, che mostra l’orrore di una persecuzione desolante e insensata, votata alla discriminazione e perpetrata non solo da secondini inumani ma anche dai prigionieri stessi che ghettizzano Hans e chiunque entri in contatto con lui e con il pericoloso virus di cui è portatore, chiamato "omosessualità". 

Dopo la deportazione nei lager dove è stato spinto a forza insieme a tutti gli altri “indesiderabili” del Terzo Reich, Hoffmann si ritrova a vivere il limbo eterno della prigione fatto di abusi, di isolamento inumano, ma anche di incontri destinati a fiorire nell’amore.
Il carcere, sporco, scuro, angusto, diventa il luogo dove vivere e incontrare nuovi amici e amanti, dove farsi coinvolgere in relazioni sentimentali apparentemente impossibili e, incredibilmente, capaci di superare le barriere del tempo…

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…Ci troviamo, dunque, nel 1968. Hans è omosessuale e per questo motivo è stato condannato a due anni di carcere. Questa, tuttavia, non è la prima volta che l’uomo viene arrestato, dal momento che già durante la Seconda Guerra Mondiale era stato internato in un campo di concentramento, per poi finire direttamente in galera una volta terminata la guerra. Durante il suo periodo di prigionia egli conoscerà Viktor (Georg Friedrich), in carcere per omicidio, nonché un uomo che continuerà a incontrare tutte le volte in cui avrà modo di scontare una condanna.

Hans e Viktor sono praticamente uno l’opposto dell’altro. Hans è calmo e accomodante, da anni ha scoperto la propria omosessualità ed è disposto a tutto pur di rendere felici le persone che ama. Viktor, invece, può sembrare scontroso, non può vivere senza donne, anche se sembra ormai rassegnato al suo destino di restare per tutta la vita in carcere. Nonostante il suo carattere spesso litigioso si rivela una persona estremamente onesta e protettiva. Due grandi protagonisti, una storia universale e un importante capitolo della storia del secolo scorso.

Great Freedom ci mostra una situazione di cui in molti abbiamo sentito parlare, ma che in pochi conoscono davvero. Una storia dolorosa, dove apparentemente non v’è posto alcuno per ogni qualsivoglia forma di umanità. E il regista, dal canto suo, si è rivelato perfettamente all’altezza nel mettere in scena le vicende di Hans, optando per un approccio essenziale, ma efficace. Un approccio in cui spesso le immagini, gli sguardi e gli oggetti (ora un pacchetto di sigarette, ora addirittura un tatuaggio) parlano da sé. La macchina da presa si muove all’interno delle mura anguste di un vero carcere e, al contempo, è in grado di cogliere ogni più sottile sfumatura dei caratteri e dei sentimenti dei protagonisti…

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è una sceneggiatura intelligente e asciutta la vera punta di diamante del film: impreziosita da uno stile quasi documentaristico che ben si presta a rivelare la complessa interiorità dei personaggi, la scrittura di Great Freedom esalta le performance di Rogowski e Friedrich, i quali, pur lavorando spesso di sottrazione, danno una profondità sorprendente ai rispettivi personaggi.

La loro è una vera e propria gara di bravura che Meise, ispirandosi alla regia intensa del suo maestro Rainer Werner Fassbinder, dirige in modo rigoroso, senza mai sprecare un minuto di pellicola.

Apprezzabile, inoltre, la fotografia di Crystel Fournier, che con un sapiente uso della luce naturale dilata la sospensione della prigionia fisica e mentale di Hans. Una prigionia nociva e salvifica allo stesso tempo, sullo sfondo di un paese incapace di progredire.

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giovedì 23 marzo 2023

Guardato a vista / Fermo di polizia (Garde à Vue) – Claude Miller

un film girato praticamente in una stanza, parole e sguardi implacabili.

Lino Ventura, Michel Serrault e, per pochi minuti, Romy Schneider sono uno spettacolo indimenticabile.

e quindici metri di corridoio sono una maledizione e una condanna.

non perdetevelo, se vi volete bene!

buona (enorme) visione - Ismaele

 

QUI il film completo, in italiano

 

Signori , giù il cappello che qui ci troviamo di fronte a del grandissimo cinema.
E non lo dico solo per la faccia percorsa da rughe profonde come canyons di Lino Ventura che da par suo disegna magistralmente la figura del commissario  Gallien deciso a far rispettare la legge. E neanche per come questo film mette in evidenza la grandezza di Michel Serrault che i più in Italia conosceranno solo per la caratterizzazione farsesca dell'omosessuale Albin nella saga de Il vizietto. Qui è nella parte del notaio Martinaud, sospettato di pedofilia e dell'omicidio con violenza sessuale di due bambine. E neppure per la breve ma incisiva apparizione della divina Romy Schneider. Tre attori che amo follemente riuniti in un unico film non bastano a farmi dire che è un capolavoro.
Guardato a vista è un manuale di regia ad opera di Claude Miller, grandissimo cineasta celebrato troppo tardi (dopo la sua morte) quest'anno a Cannes dove è stato presentato il suo ultimo film.
Un continuo confronto in cui, anche se si è quasi sempre rinchiusi nelle anguste mura del commissariato, la regia sembra annullare l'esiguità dello spazio con poche ma incisive sottolineature ai dialoghi.
Da più parti viene indicato come un polar: in realtà è una descrizione impietosa di quella ragnatela di bugie e sottintesi che anima la vita ipocrita e di facciata della provincia francese( alla Chabrol), inoltre è la celebrazione della morte di un matrimonio, l'autopsia di un rapporto coniugale che avrà conseguenze terribili.
Il finale arriva improvviso come una rasoiata , un colpo di bisturi secco e mortale che spazza via con una sola scena tutte le certezze faticosamente costruite negli 80 minuti precedenti.

Quell'urlo disperato risuona nella testa dello spettatore anche ben oltre i titoli di coda.
Il film di Claude Miller è un kammerspiel votato al massacro reciproco tra i due protagonisti in cui il terzo (incomodo) non sta solo a guardare ma ha un ruolo decisamente attivo nella guerra di trincea scoppiata tra il commissario e il notaio.
E qui entra in campo la diversità di Ventura e di Serrault nel colorare i rispettivi personaggi: il primo che recita nella parte del commissario Gallien, è il monolite, incrollabile nelle sue certezze,  stanco di essere la  vittima sacrificale di una routine che gli impedisce di festeggiare come dovrebbe la notte dell'ultimo dell'anno.
Invece è rinchiuso nel suo commissariato a torchiare un sospetto pedofilo.
Che non è uno qualunque, ma una delle persone più in vista del paese. Il notaio Martinaud. Michel Serrault con la sua incommensurabile tecnica dà vita a un personaggio memorabile, umorale, un uomo che nell'atto di negare ogni addebito si ritrova a pensare a quanto misera è la sua vita matrimoniale, dilaniata dalle incomprensioni e dalle distanze rappresentate idealmente da quel corridoio di quindici metri che divide la sua stanza da quella della moglie.
E' lo scontro di due personalità spiccate, di due diversi modi di intendere la professione dell'attore.
L'incontro/scontro tra  Ventura  e  Serrault  è assecondato dalla regia di precisione cronometrica di Miller che , aiutato dai notevoli dialoghi di Michel Audiard ( padre di Jacques ), riesce a creare un emozionante thriller da camera che cresce impetuosamente col passare dei minuti. Impossibile staccare gli occhi dallo schermo, impossibile distrarsi.
Decisamente innovativo nel suo essere un thriller più legato alle parole che all'azione ha avuto un remake USA nettamente inferiore nel 2000 (Under suspicion) .
Una pura formalità di Tornatore ricorda molto nell'impianto narrativo questo film ma sceglie di utilizzare simbologie e ha un finale esistenzialista trascendente di cui non si trova traccia  nel cinico pragmatismo della pellicola francese.
Vincitore di 4 premi Cesar , Guardato a vista ( che non è la traduzione letterale del titolo Garde à Vue che in francese indica il fermo di polizia)  è  un film che non sembra invecchiato di un attimo.
Decisamente da vedere.

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Huis clos terriblement efficace, et aussi glauque, Garde à Vue, réalisé par Claude Miller (Mortelle RandonnéeL'AccompagnatriceL'Effrontée) est un film terrible et cela ne le doit qu'à une chose : une réalisation sobre et des acteurs tout simplement époustouflants. Michel Audiard est aux dialogues, mais cette fois-ci, nous sommes dans le sérieux.

Nous retrouvons Lino Ventura une fois de plus dans le rôle d'un inspecteur de police, celui-ci doit interroger un notable de la ville Maître Jérôme Martinaud interprété par Michel Serrault (Le ViagerLa Cage aux FollesBuffet Froid) qui est ici exceptionnel. Il est aidé pour cela par son adjoint l'inspecteur Belmont qui est joué par Guy Marchand (Tendre PouletNestor BurmaLes Sous-Doués en Vacances). On trouve également Pierre Maguelon (le célèbre Terrasson de la série tv Les Brigades du Tigre) dans le rôle d'un inspecteur, et Jean-Claude Penchenat (F... Comme FairbanksLe Sang du FlamboyantLe Bal) qui joue le commissaire divisionnaire. Et pour la vedette féminine ce n'est autre que la superbe Romy Schneider (La PiscineSisiCésar et Rosalie) qui interprète la femme de Martinaud. 

Je ne suis pas très  fan des comédiens comme Guy Marchand ou même Michel Serrault, mais il faut bien avouer que dans ce film, il n'y a rien à redire, ils sont bien dirigé, n'en font pas trop, ça reste joué le tout dans une grande justesse. En fait, ce film est vraiment terrible car on pense que l'on va s'ennuyer rapidement, mais en vérité la tension monte doucement, on ne sait pas très bien où veulent en venir les différents protagonistes, et il y a parfois des moments de tensions très dur qui font que nous sommes pris dans l'histoire des personnages et que l'on a qu'une seule envie : voir comment tout cela se terminera.

Et pour le final, nous ne sommes pas déçus, c'est une fin à l'image du film : sombre et funeste. Romy Schneider est magnifique de beauté et de froideur, Serrault excelle dans le cynique qui cherche à échapper à sa réalité quotidienne, Ventura est parfait dans le flic qui s'est déjà fait son opinion sans l'avouer, et Marchand est tout bonnement juste dans le flic un peu limité qui ne cherche qu'une chose : le moyen de faire avouer Martinaud. Tout est choisi avec soin, la date de l'entretien (à la veille d'une nouvelle année), le décor peu accueillant du bureau du commissariat, le temps humide avec la pluie qui ne cesse pratiquement pas de tomber, et les personnages implantés dans ce décor. 

Très bon film donc, la musique de Georges Delerue ne se fait pas remarquer. Le film marchera assez bien avec un peu plus de 2 millions d'entrées. Indispensable dans la vidéothèque de Ventura, vous ne le regretterez pas. 

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…Le dispositif sur lequel repose Garde à vue est donc à première vue extrêmement simple, mais c’est finalement de cette épure que provient sa force : d’excellents acteurs s’opposent, dans un quasi-huis clos, pour un jeu du chat et de la souris où les rapports de force s’inversent et se rééquilibrent constamment. Et si c’est l’inspecteur Gallien qui cuisine Martinaud, c’est bien Michel Audiard qui a concocté des dialogues aux petits oignons ; on peut, en d’autres occasions, trouver que le dialoguiste-star a parfois, durant sa carrière, cédé à la facilité ou à la tentation de l’outrance un peu auto-complaisante, avec son argot de contrebande et ses tirades à l’esbroufe. Dans Garde à vue - est-ce la conséquence de ses oppositions avec Miller ? - sa plume se fait plus sobre (mais non moins percutante) en se mettant totalement au service du film, et chaque réplique contribue à charger les scènes de tension, d’inquiétude voire de perversité. Ce n’est certes pas son travail le plus éclatant, mais c’est pour autant probablement l’un de ses tout meilleurs.

D’ailleurs, si Ventura comme Serrault avaient déjà prouvé en plusieurs occasions leur habileté à manier les mots d’Audiard, ils ne l’avaient jamais fait ensemble, et Garde à vue a aussi acquis presque immédiatement une dimension anthologique par la confrontation qu’il offrait, enfin !, entre deux des acteurs français les plus populaires de leur époque. Michel Serrault a d’ailleurs raconté que ses relations avec Ventura - homme pourtant réputé aussi pour sa chaleur et sa cordialité - étaient tout au long du tournage restées assez froides, comme si la distance maintenue entre eux servait l’opposition entre leurs personnages. 

Et quels personnages ! D’un côté, donc, Jérôme Martinaud, notaire de province, marié à une femme trop belle pour lui - incarnée comme un fantôme sombre par Romy Schneider, dans son avant-dernier rôle. Sa meilleure défense, pense-t-il d’abord, c’est sa situation, qui le rend presque intouchable. Mais parce que, justement, il se croit inatteignable, et qu’ensuite - pour plusieurs raisons, qui ne se révéleront que très progressivement - il commet très tôt l’erreur de mentir, il attise chez ses interlocuteurs la volonté de le faire choir. Il y a beaucoup de facettes, dans le personnage de Martinaud, et il serait insuffisant de se limiter aux plus évidentes, mais la dimension sociale est indéniablement l’une des plus essentielles. A travers le couple Martinaud, qui existe davantage dans la jalousie qu’il suscite chez les "médiocres" que dans une intimité depuis longtemps révolue, le film dresse le portrait d’une certaine bourgeoisie de province, arrogante et viciée, comme rongée par la pourriture du mépris et du mensonge. S’ils se sont un jour aimés, Chantal et Jérôme Martinaud sont aujourd’hui séparés par un couloir de 15 mètres de haine indicible…

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mercoledì 22 marzo 2023

Giustizia è fatta – André Cayatte

il film ha vinto il Leone d'oro, nel 1950, e l'Orso d'oro, nel 1951.

sette anni prima dell'immenso La parola ai giurati, di Sidney Lumet, André Cayatte gira un film su un processo e sui giurati che devono decidere.

una storia che sembra presa dai giornali di questi anni, anche in Italia, una donna che aiuta il marito, malato terminale, a morire

il film ruota intorno a questo macigno, e i giurati (e le loro storie), importanti protagonisti del film, hanno un compito difficile.

in confronto al film di Lumet, grande capolavoro, quello di Cayatte è solo un piccolo capolavoro, che merita certamente la visione, un film, purtroppo, sempre d'attualità.

buona (giurata) visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in italiano


  

Impegnato per la prima volta sul terreno a lui più congeniale, Cayatte fa subito centro. Molto buona l'idea di alternare la fase processuale vera e propria con gli approfondimenti sui singoli giurati, tutti diversi tra loro per estrazione sociale ed esperienze di vita, diversità che naturalmente incideranno sul giudizio di ciascuno e quindi sul verdetto finale. Non vi sono certezze tranne una: che in ogni caso, non è stata proprio fatta giustizia. Ottime interpretazioni (su tutti la Nollier nei panni dell'imperscrutabile imputata), accettabili le concessioni alla commedia.

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martedì 21 marzo 2023

Soundtrack for a Revolution - Bill Guttentag, Dan Sturman

una piccola e incredibile storia, di come dei poveri neri, con la solidarietà di alcuni bianchi illusi, con l'uso della nonviolenza, rischiando la morte tutti i giorni, hanno ottenuto una vittoria, dall'interno dell'Impero, razzista e omicida come sempre, anzi di più..

una lezione da studiare e ristudiare, senza nulla togliere alle Pantere Nere e a Malcolm X.

buona (musicale) visione - Ismaele


  

QUI il film completo, in italiano, su Raiplay

 


lunedì 20 marzo 2023

Mondocane - Alessandro Celli

nella Taranto di un futuro non troppo lontano l'acciaieria ha rovinato la vita di quella città, che si è divisa in due parti, le due città, quella "normale", ordinata, colorata, e quella degradata, superinquinata, disperata, in mano alla banda delle Formiche, guidata da Testacalda (un bravissimo Alessandro Borghi).

a quella banda si uniscono Mondocane e Pisciasotto, due bambini amici per sempre (sembra).

il mondo va molto male, e c'è un sopra e un sotto, come spesso succede, la polizia fa di tutto per tenere separate le due città.

il film è denso di citazioni e rimandi a tanto (grande) cinema fantastico-apocalittico (lo scoprirete guardando Mondocane),

buona visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, su Raiplay


 

…Raccontare infatti di due orfani che crescono tra la zona loro assegnata e tutt’altro che fantasiosa di Tamburi, e quella relativamente migliore e per loro inaccessibile di Taranto Nuova, significa innanzitutto procedere a un discorso di indignazione collettiva. Mondocane è a tutti gli effetti, grazie alla maschera fanta-sociologica e ai richiami più o meno diretti alla tetralogia di Mad Max, o a 1997: Fuga da New York, un film di grave denuncia. La sua forma, che mescola l’azione violenta al romanzo di formazione, è perciò sintomatica del contenuto. E aiuta a comprendere meglio come serie emblematiche quali Gomorra o Suburra interpretino piuttosto l’allucinazione dell’oggi e trasfigurino il realismo in una modalità che rasenta l’apologo capovolto di un “mondo-cane” non invisibile. Anche il protagonista di Dogman, occorre ricordarlo, con la specifica sua professione enunciata nel titolo, dunque molto allusiva, ha ribadito il concetto di fondo che Mondocane dispiega. Dove la scelta di affidare a un attore-personaggio carismatico come Alessandro Borghi il compito di convogliare in veste di cattivo leader dalle maniere suadenti l’immaginario in un alveo che coniuga la suburra romana alla diuturna, fatale e irrisolta tossicità ambientale tarantina, conferma l’idea preliminare. Quella cioè di un gioco di squadra tutto italiano tra generi, titoli, piccolo e grande schermo, dove lo sdegno si fa location e i luoghi comuni a loro volta provocazione a tutto campo.

Vedendo Mondocane, insomma, la memoria, oltre a viaggiare nel tempo cinematografico dei modelli omaggiati, lascia intendere come mai opere diverse ma concomitanti, da La paranza dei bambini a La terra dell’abbastanza, da Gomorra a Suburra, film e serie, quindi da Favolacce a La terra dei figli, lancino un segnale d’allarme differenziato ma coerente, inequivocabile e trasversale. Da non sottovalutare, bensì decifrare e approfondire tra spazio, tempo, miscele di linguaggi parlati locali e nazionali, stili collettivi e modelli produttivi.

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Lo spirito è a suo modo politico. La terra in cui tutti vorrebbero scappare è l’Africa, dunque la provocazione è servita. Roma è l’immagine opaca di una metropoli che ha avuto un’aura magica ormai perduta. E il terreno di battaglia è Taranto, una città da tempo lacerata e terreno di malavita. Mondocane suona come l’ultimo avvertimento. Nel futuro immediato a pagare il prezzo più alto potrebbe essere ogni individuo, senza distinzione tra buoni e cattivi.

Nella sua essenza tribale, anarchica, la vicenda riscopre di tanto in tanto i sentimenti di fratellanza, famiglia, ascesa e caduta, in un luogo in cui non c’è più spazio per il domani, anche se si è giovani. La regia di Celli è solida, la voglia di plasmare immaginari tipici degli schermi d’oltreoceano è dichiarata, rivissuta con sguardo sincero.

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Quello di Mondocane è un universo rassegnato, pessimista come il genere richiede; un'ambientazione che incuriosisce, in cui Roma non è più la capitale, in cui dopo la "grande evacuazione" al massimo si può scappare in Africa, eppure la macchina da presa non si muove dagli scorci stranianti di Taranto vecchia e nuova. La prima senza legge, con le sue tribù di guerrieri e i suoi mezzi d'assalto blindati, la seconda quasi distopica nel voler ricreare una normalità da vignetta che nasconde le storture del sistema.

Al suo meglio il genere post-apocalittico catapulta verso il parossismo le inquietudini del presente, e in questo Mondocane centra l'obiettivo, declinando la storia travagliata della città, l'eredità industriale, la geografia unica e le vicende dell'Ilva in un racconto d'azione che affonda le radici nel reale e fa tappa in luoghi significativi come il rione Tamburi e la Cittadella. In più lo fa abitando il suo mondo distopico con la sicurezza di chi non deve spiegarlo eccessivamente (talvolta al limite dell'incomprensibile per quanto riguarda il funzionamento di questa nuova società).

Fotografia e regia tengono bene il passo di un progetto ambizioso, regalando anche un finale particolarmente intenso. Qualcosa in più andrebbe però chiesto alla sceneggiatura, un po' scarna nella struttura di base, e all'incostante recitazione. Borghi è a suo agio nel ruolo di un cattivo con il fervore didattico del maestro, e Barbara Ronchi gli fa da contraltare sul lato opposto della legge. Sono i giovani però il cuore del film, con i volti d'altri tempi dei protagonisti Dennis Protopapa e Giuliano Soprano a fare il grosso del lavoro, e con il contributo decisivo della piccola star Ludovica Nasti, già famosa per L'amica geniale e qui alla conferma.

Film temerario e a suo modo di rottura, che come Testacalda vuole "fare la guerra", Mondocane mette il cinema nostrano di fronte a domande spesso rimaste inespresse, e ci spinge a chiederci come alzare il livello della narrazione di genere una volta deciso di affrontarla. Le risposte non gli competono, ma il suo spirito baldanzoso è sufficiente a farci riflettere.

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Celli ha il coraggio di osare proponendo una distopia non troppo distante dalla realtà , in cui Taranto è una città devastata, falcidiata dall'attività di un acciaieria che, come un orribile mostro, non solo è responsabile della crisi ambientale evidenziata nel film, ma la domina e ne ridefinisce lo Skyline. In questo contesto di squallore e contaminazione ambientale il regista racconta la storia di due ingenui adolescenti e della loro amicizia, del loro tentativo di scalata del crimine, e lo fa azzeccando atmosfere, personaggi e movimenti di macchina. Alcune istantanee rimangono nella memoria e testimoniano il talento visionario di Celli che ci mostra una Puglia ma così arida, ma al tempo stesso bellissima ( tutte le scene girate fuori dalla zona contaminata). Purtroppo il film risulta poco compatto nella fase centrale e perde un po' il ritmo, tuttavia "Mondocane" è un opera di indubbio valore e tecnicamente di livello che merita senz'altro una visione.

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…Peccato che questa brillantezza di intuizioni, a cui corrisponde un indubbio sforzo in sede di costruzione dei contesti, valorizzati da una fotografia davvero notevoli, vengano sviliti da una storia piena zeppa di luoghi comuni e di banalità, all'interno della quale si muovono personaggi davvero deboli e così sopra le righe, da risultare caricaturali.

Primo fra tutti, spiace ammetterlo ma è plateale, il Testacalda di Alessandro Borghi, personaggio davvero risibile e afflitto da una gestualità e da vezzi insopportabili che lo rendono una macchietta già subito dopo i primi minuti in scena.

Ma anche i due ragazzini, pur bravi e ispirati (il biondo dalla voce cupa interessante Dennis Protopapa e il moro condizionabile Giuliano Soprano), risultano afflitti dal vittimismo e dalla prolissità che imperversa nella costruzione dei rispettivi personaggi e dei contesti attorno ai quali costoro finiscono per interagire.

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