sabato 29 giugno 2019

Oro verde – C'era una volta in Colombia (Pájaros de verano) - Ciro Guerra, Cristina Gallego

Ciro Guerra è il regista di quel capolavoro che è El abrazo de la serpiente, nel 2018 con Cristina Gallego ha girato un film che racconta di un popolo della Colombia e di cosa è stata la droga per quelle popolazioni.
l'avidità e la ricchezza senza fine (o il suo sogno) rendono l'essere umano una macchina da guerra, senza nessuna pietà verso nessuno.
non ci sono più rapporti umani, se non gli affari, all'inizio, e poi l'odio e la vendetta, senza fine.
il film inizia e finisce col canto di un pastore cieco, che racconta la storia.
una popolazione con regole antiche e vive viene (s)travolta dalla piena dei dollari versati da chi compra la droga per portarla al nord.
non perdetevelo, se vi capita, e cercatelo comunque, è un grande e terribile film - Ismaele

ps: se c'è qualcuno che viene turbato dalla violenza dei film di Tarantino, è meglio che lasci perdere Oro Verde, al confronto i film di Tarantino sono per ragazzine e ragazzini che frequentano i corsi di catechismo per la prima comunione.
e comunque tutto il sangue che si vede è cronaca, mai gratuito.







…seguendo la struttura di una tragedia sapientemente allestita in cinque atti ben distinti, Oro verde – C’era una volta in Colombia si delinea come una sorta di saga padrinesca in ambito etnico con piena filologia rispetto all’uso della lingua wayùu, dove niente può opporsi alla disfatta culturale davanti a modelli che s’impongono con la loro capacità di solleticare bassi istinti. Guerra e Gallego squadernano un’ammirevole sapienza di messinscena, che non disdegna sorprendenti uscite verso il conclamato cinema di genere (vi è posto pure per un “Mexican standout” di lunga tradizione, che di prima impressione ricorda le riletture tarantiniane) mantenendo però una salda e determinata significazione. Più volte interviene anche la gelida messincena di grottesche iperboli (quella bianca villa che d’improvviso si staglia, geometrica nel disegno, nell’incoerente paesaggio brullo; i pacchi di marijuana che si moltiplicano su scala esponenziale come i velivoli incaricati del loro trasporto), mentre i rappresentanti di un’antica cultura minoritaria vanno incontro a una bizzarra e stridente musealizzazione – la loro collocazione negli interni della villa. In ultima analisi, quel che viene scoperto dalla comunità wayùu protagonista è la sistematizzazione della violenza, che da garante implicito della stabilità di una cultura si tramuta in esplicito atto economico, del tutto sintonico a un nuovo modello di vita basato sulla prevaricazione prodotta in serie. E non è un caso se il salto decisivo verso la scoperta della gratuita umiliazione avvenga per via di uno sciroccato rappresentante della nuova generazione. Una volta innescato il tritacarne, la violenza genera violenza, la sete di potere fa scoprire il piacere distorto del dominio sugli altri. Di lì al suicidio eterodiretto di un’intera cultura non vi è che un passo.
Il discorso di Guerra e Gallego è insomma chiaro ed esplicito, e non lascia spazio a molte interpretazioni alternative. Tuttavia la coppia di autori evita il rischio del rigido film a tesi rifrangendo il racconto sulle strutture assolute della saga e della tragedia. Raccontando cioè una precisa tragedia storica, colta agli albori di un futuro e fiorente regno del narcotraffico, ma collocata nel panorama della tragedia universale dell’innocenza perduta. Avvincente, appassionante, potente. Si vede, e rimane la voglia di rivederlo subito. E non è poco.
da qui

 Les longues séquences de deal entre les deux clans familiaux, les premiers transferts de marchandise sur des ânes sont traités méticuleusement par le duo de cinéastes. Les discours parfois exaltés sur les règles à ne pas transgresser pour un Wayuu reviennent souvent, trop souvent. À trop faire allusion à l’oiseau de mauvais augure, Les Oiseaux de Passage sombre dans une lente description expliquant l’engrenage désastreux dans lequel s’est fourré Rapayet notamment. Son avidité lui fait perdre la boule. Entre vendetta ennuyeuse et coutumes ancestrales, le coeur de l’un des premiers boss des cartels balance. Derrières ses lunettes, chapeau vissé sur la tête, il voit l’argent le vampiriser et le prendre à la gorge. Sa folie des grandeurs le rattrape, l’isole de la réalité et de sa propre famille.
Une immersion parfois brouillonne, parfois sanglante, voire imprévisible. Le métrage fait l’élastique entre les bonnes séquences et les longueurs. Malgré les quelques fulgurances, Les Oiseaux de Passage est un récit souvent lancinant, souvent statique. L’histoire reste toutefois intéressante grâce à son sujet de base, grâce à sa réflexion sur ces peuples pauvres et rattrapés par le spectre de l’argent.

Porque Pájaros de verano es también (y sobre todo) una cronología de los orígenes del narcotráfico en Colombia, una genealogía de la violencia que ha marcado el país en el último medio siglo. Una cronología que no se apoya en un documentalismo de corte histórico o en una crónica periodística sino en el mito y la leyenda. La narración se organiza como un canto épico recitado por un cantor (un juglar, un bardo, un aedo según la tradición) que abre y cierra la película. Como un relato oral y popular que estructura la leyenda mediante una serie de capítulos (llamados cantares) que retrata varios momentos temporales entre 1968 y los años 80.

En el film se mezcla lo etnográfico con la tragedia personal y familiar. El relato mafioso se reviste con las tradiciones locales marcadas por un espiritualismo capaz de contactar con el más allá a través de los sueños o por la interpretación de los signos de la naturaleza, lo que provoca que aflore, en ocasiones, ese realismo mágico tan propio de la cultura y la realidad latinoamericana, una realidad violenta(da) fruto del contraste/choque cultural. Como cualquier relato sobre la mafia, Pájaros de verano, es también un relato sobre la familia, sobre sus leyes internas, sobre el papel de los Padrinos (en este caso una Madrina) y los consigliere (o palabrerosaquí), sobre la lealtad, el honor y la traición, sobre la ambición y la violencia desmedidas, sobre el asesinato y la venganza. En definitiva, sobre la destrucción de un ecosistema humano cuyas consecuencias llegan hasta nuestro presente en forma de metáfora representada por ese sonido de lluvia que sigue retumbando una vez finaliza el relato y los créditos finales desfilan sobre una pantalla en negro.



La puesta en escena y la fotografía son excepcionales, tanto como el desierto de Guajira y la Magdalena donde se grabó la cinta y que son base fundamental. La película es capaz de desplazar el cine de narcos a un territorio donde el trapicheo llega a convivir con los matrimonios pactados, las dotes y las danzas tradicionales. Uno de los aspectos que siempre se enmarcan en las películas de Ciro Guerra son los colores vivos y aquí se vuelve a representar de manera impecable.
La película no dejará indiferente a ningún espectador, tiene mucha violencia, momentos de venganza y nos muestra un modelo de gánster pocas veces visto. Muy recomendable.

Pájaros de Verano es una película que goza de su riqueza estética, narrativa y argumental, con esto quiero decir que es un filme que se nutre de todo para fortalecerse. Tiene una exploración detallada de un pasado que poco –o nada- se indaga en el cine actualmente, pero también tiene personalidad para no caer en lo documental enteramente, sabe cocerse a un ritmo lento, pero con la sustancia suficiente para moverse de un género a otro sin generar ningún tipo de ruido, es como si Pájaros de Verano supiera hacerte parte de su mundo de una forma silenciosa y tranquila a pesar de su premisa.

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