giovedì 27 giugno 2019

Demolition - Amare e Vivere - Jean-Marc Vallée

il film è un po' pazzo, tutto nasce da una lettera di reclamo verso l'impresa che gestisce i distributori automatici di bevande e snack in un ospedale dove è ricoverata la moglie.
l'impiegate che legge le lettere e gli risponde arriverà a conoscere Davis (Jake Gyllenhaal)  insieme i due si rifaranno una vita, meno ansiosa e arrivista di prima.
Davis taglia tutti i ponti con la vita precedente, in tutti i sensi.
un film dove appare Jake Gyllenhaal è sempre un bel film, almeno.
buona visione - Ismaele





Demolition – Amare e vivere vuole essere esattamente questo: la vicenda di un cinico uomo che si scopre incapace di provare dolore o sentimento alcuno per la perdita, ma che comunque sprofonda in una forma autodistruttiva di depressione. Jake Gyllenhaal è il lui di una coppia tutt’altro che perfetta, protagonista di un viaggio di riabilitazione confezionatogli su misura dal regista.
È una pellicola che paga la sua frenetica voglia di suscitare emozione, di spingere il pubblico alla lacrima. Creando un personaggio cinico, insolente e insensibile al dolore, però, Vallée ottiene fallisce nell’ottenere quell’empatia necessari da parte del pubblico e il tracciato scritto per il suo protagonista si rivela essere un percorso troppo didascalico.
Se vuoi risalire devi prima toccare il fondo e  se vuoi conoscere veramente come sono fatte le cose devi prima smontarle pezzo per pezzo: pare questo il messaggio che il regista voglia far passare; una demolizione fisica necessaria per la ricostruzione fisica degli ambienti e psico-fisica del protagonista che deve riscoprire il bello della vita. Già visto troppe volte.
Demolition è, insomma, un sincero inno alla vita, un grido alla speranza e alla felicità, uno slogan sicuramente positivo, lanciatoci però dal Gyllenhaal più antipatico degli ultimi anni.

…Azione dopo azione, il protagonista percorre la scoperta delle sensazioni. Il dolore si trasforma da godimento fisico a un movimento introspettivo che permette al personaggio di riconoscersi. Seguire questa ricerca ruba al pubblico parecchie lacrime, senza mai scadere nell’emotivo. Un ampio spazio è lasciato all’analisi dell’apatia e dell’autobugia di cui il protagonista è succube. Per raccontarlo vengono presi in considerazione tutti i livelli fisico-emotivi dell’essere umano, mettendo in scena anche quelli più ambigui che spesso la psiche cerca di eludere nella sua autonarrazione. La denigrazione personale in più ambiti porta David ad affrontare una battaglia complicata ma profonda che raggiunge picchi di imbarazzo molto intimi: viene dichiarato un piacevole masochismo messo in pratica per sentirsi vivi, per credersi “veri”, che non deraglia verso una vera psicosi, ma che può essere riconosciuto come un piccolo vizio piacevole. Grazie alla costruzione estremamente umanizzata, il protagonista non diventa mai vittima di se stesso, non provoca compassione e non permette nessun sentimento di pena. Il pubblico è portato a riconoscersi attraverso una delicata finezza narrativa.
Le immagini forti di una macchina da presa traballante finiscono per creare un quadro profondo in grado di narrare un ampio ventaglio di realtà. Non sono tanto le parole quanto l’accostamento di un sapiente montaggio a creare una narrazione efficace. Ciò che sarebbe potuto diventare un rovello intimista riesce, invece, ad inglobare una visione d’insieme realistica e profonda della psiche umana. L’elaborazione di Vallèe si trasforma in un’indagine affascinante di un piano ben più interessante: la coscienza e l’accettazione del dolore.

È sempre estremamente difficile inquadrare un'opera di Jean-Marc Vallée. Nulla si manifesta nei modi in cui ci aspettiamo si manifesti. Lo spostamento delle consuetudini del lutto si sposta oltre, devia, prende forme opposte, si espande e si trasforma in relazioni, picconate, assenze, reazioni e non reazioni. Vallée sposta continuamente il fuoco, spara ovunque tranne che guardando il mirino, consapevole che razionalizzare un evento secondo i codici dello spettatore è un'opera da falsario. Ci consegna quindi un film devastato, senza ritmo, non coerente, plastico, ironico e bastardo, un'opera umana e insensata proprio come lo è la vita, proprio come può essere un lutto, che è sempre comunque privo di una definizione, perché se ogni storia di amore è una storia di lutto e ogni storia di lutto è una storia di amore, ogni storia di lutto è una mancanza di storia, è un'assenza di definizione.

Ci piace perché mette sempre a tema il disagio che ci portiamo un po’ tutti dentro, quel non sentirsi mai a posto. Davis, interpretato da Gyllenhaal, è uno che cerca di elaborare il lutto a modo suo: prima reprimendo i sentimenti, poi cercando qualcuno con cui condividere i passi falsi. Troverà due persone scombinate peggio di lui che lo aiuteranno a mettersi in piedi.
Film strano, contraddittorio e senz’altro irrisolto. Meno riuscito dei film precedenti perché c’è troppa carne al fuoco e un personaggio (quello della Naomi Watts) lasciato a metà. Ma ad avercene di film che mettono a tema l’ansia dello stare al mondo, la ricerca della felicità e di un punto fermo.

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