mercoledì 12 giugno 2019

Museo - Alonso Ruizpalacios

Alonso Ruizpalacios gira un film con due mostri sacri del cinema dell'America del Sud, che sono Gael García Bernal e Alfredo Castro.
la storia è quella di un furto, così quasi per caso, da parte di due amici per la pelle, solo che il bottino non si può trasformare in contanti.
e, dopo la gioia e l'euforia per l'impresa, poi arriva la parte difficile, anzi impossibile, vendere il bottino.
il turbamento dei due ladri e l'intervento del padre di Juan (Alfredo Castro) rendono il film di altissimo livello, con un finale amarissimo.
cercatelo e guardatelo, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele




Ruizpalacios fa un salto in avanti notevole rispetto al precedente Güeros, e a quelle atmosfere intime e frastagliate, raccontate con la morbidezza ovattata del cinema indipendente americano degli anni Novanta e con l’energia romantica e nervosa della Nouvelle Vague francese, aggiunge toni e registri che riesce a tenere magicamente in equilibrio.
Museo parte come una commedia off-beat su due simpatici cialtroni, passa per un intervallo familiare raccontando un’esilarante e nervosa cena di Natale che dovrebbe servire da esempio e lezione per tutti i registi di casa nostra, gioca con cinema di rapina prima e col road movie poi, quando Juan e Wilson, effettuato il colpo, partono alla volta di Acapulco nel goffo tentativo di vendere il loro bottino. E c’è pure una parentesi quasi misticheggiantequando i due fanno tappa al sito archeologico di Palenque, e Juan vive dei momenti notturni di connessione spirituale con i maya lì seppelliti. A ogni suo passaggio, a ogni tentativo di comprenderlo e incasellarlo, Museo si trasforma, e sorprende con i suoi movimenti (anche di macchina) inaspettati, sempre capace di scartare nella direzione di quella “realtà non ordinaria” di cui parlava il Carlos Castaneda, non a caso citato di continuo da Juan.
Ecco, quello di Museo è sicuramente cinema non ordinario, capace di essere stratificato, complesso e leggero al tempo stesso, di dimostrare un gran senso dell’umorismo e, assieme, una profonda consapevolezza del linguaggio attraverso l’uso di piccole sperimentazioni, spesso presentate come giochi ma mai ostentate, mai semplici riempitivi per compensare i vuoti di contenuto.
La disinvoltura con la quale Ruizpalacios gestisce la complessità della storia va di pari passo con quella con cui riesce a portare avanti un discorso che passa per l’identità in maniera esplosa: l’identità di Juan e quella di un popolo, le maschere sociali (dai costumi di Babbo Natale ai ruoli nella famiglia passando per l’imprimatur della laurea e del lavoro: Juan e Wilson aggiungono a mano il nome della loro futura professione, quella di veterinari, a un insieme di cartelli di vie intitolate ai mestieri) e quelle funerarie dei Maya, nelle quali il personaggio di Bernal quasi si va a rispecchiare, la complessità di una nazione che assomma la megalopoli di Città del Messico, i siti archeologici e le località turistiche più da cartolina cui si possa pensare. 
Alla fine di Museo l’impressione non è quella di sovrabbondanza, ma di grande levità. Di una levità che avvolge e non abbandona, e anzi lascia l’impressione che qualcosa, di quella storia e di quel racconto, stia ancora lì a lavorare dentro. Che si sia qualcosa, nella verità di quella storia, che non è del tutto chiaro, e rimane misterioso e subliminale. D’altronde, se c’è una lezione che Juan impara nel corso del film è che non si apprezza mai nulla di quello che si ha (o si è), fino a che non viene perduto. Che il vuoto a volte è più importante del pieno.
E, ancora una volta, è lo stesso Ruizpalacios a trarre d’impaccio, dicendo di non stare lì a pensare troppo, con un’ultima frase del suo film che è chiara abbastanza, e si riferisce tanto ai fatti realmente accaduti alla base del suo film, quando al nostro senso di sottile smarrimento: «perché rovinare una bella storia con la verità?».

…Ruizpalacios s’inventa un film che sfarfalla negli stilemi del cinema d’azione più classico, proiettando i suoi protagonisti in una struttura che slarga le coordinate iniziali: partendo dalla soffice e oppressiva chiusura degli interni familiari, dominati dalla figura paterna ingombrante (il cileno Alfredo Castro, volto di riferimento del cinema latino contemporaneo), i due transitano attraverso l’indefinito scenario suburbano di Satelite e l’avventurosa scena del furto al Museo, per spingersi in una fuga che ha le stimmate del road movie disperato come una presa di coscienza. Ruizpalacios s’inventa spiazzamenti visivi, piani sequenza che elaborano lo smarrimento (straordinario quello in cui decidono di non vendere la refurtiva al mercante d’arte americano), disfunzioni di una messa in scena che consegnerà i protagonisti a una dimensione del mito (cinematografico) pura e semplice. Cinema di passione e di identità, che trova la sua potenza in una regia estremamente consapevole e altamente inventiva e in una scrittura che sa dare corpo e idee a due personaggi in cerca di se stessi.

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