martedì 25 giugno 2019

Jauja - Lisandro Alonso

siamo nella Patagonia argentina, in una delle tante guerre di conquista, nel periodo dell'accumulazione primaria, che sempre coincide con lo sfruttamento dei lavoratori e/o con lo sterminio delle popolazioni indigene, in mezzo a questi estremi sta la riduzione di popolazioni intere allo stato si schiavitù.
il capitano Dinesen, arrivato a combattere nell'esercito argentino, si è portato dietro la figlia quindicenne, che idea balzana, in un mondo di soldati assatanati di sesso.
si trova a far coesistere il ruolo di padre e quello di soldato e quando la figlia sparisce va a cercarla e fa degli strani incontri nella pampa e nei deserti.
siamo in un mondo magico e strano, ma se segui il cane scoprirai l'arcano.
Lisandro Alonso è sempre bravissimo, non perdere questo strano e piccolo grande film - Ismaele





in Jauja il cinema di Alonso sembra fare un passo in direzione della narrazione. La struttura del viaggio consente d’altronde una serie di stazioni per questa “passione” paterna sofferta e irredimibile. Il capitano Dinesen incontrerà dunque una serie di personaggi che, come in una progressione inesorabile verso il fantasmatico, diventano via via sempre meno realistici e possibili. Si parte infatti da un manipolo di soldati intenti a scavare una trincea, segue l’incontro con una delle vittime di Zuluaga, poi fa la sua comparsa un cane – animale desiderato dalla figlia del Capitano – poi il soldato che con lei è fuggito e infine una donna che forse è strega o forse incarna la figlia stessa, ma in una diversa dimensione temporale.
Splendidamente fotografato in digitale Jauja è inoltre denso di riferimenti cinematografici che vanno dal cinema di Jodorovski (Il topo, in particolare) ad Apocalypse Now (il disertore sanguinario Zuluaga è una sorta di Colonnello Kurtz), a Sentieri selvaggi (la ragazza da ritrovare) ad Aguirre furore di Dio di Werner Herzog (per via del “conquistatore” accompagnato dalla figlia). Ma il suo substrato è tutto filosofico e prettamente di stampo pre-socratico, Jauja mira infatti a riflettere, come ci rivelano le scarne sequenze di dialogo che contiene, sul funzionamento dell’universo – nelle sue singole parti così come nel suo insieme – sull’essenza dell’uomo (“Sei un uomo tu?” chiede l’anziana donna/figlia al Capitano), ma anche sulla paternità, sul funzionamento e il perpetuarsi della vita. Dunque la temporalità del film non può che essere dilatata, rarefatta, infine ripiegata su sé stessa come in un nastro di Moebius, perché un uomo “non è tutti gli uomini”, ma può sempre ritornare sulla terra, sotto le sembianze più varie e differenti, come sospinto da un’eterna risacca di stelle. E se dunque ad alcuni potrà sembrare che la metafora totalizzante di Jauja richieda troppo tempo e troppa attenzione, è perché questa è la dura legge che regolamenta l’epifania di tutte le cose belle.

En Jauja el desierto es un monstruo que ilustra no solo una aventura solitaria, sino también la esencia de una tierra mágica y surrealista. Al principio de la película, hay una placa explicativa del origen mítico de “Jauja” como un extraordinario territorio prospero en riquezas y abundancia, pero que era solo una leyenda porque nunca pudo corroborarse su existencia real. A través de esta introducción mitológica del título del film, ubicamos una historia en donde un paraíso terrenal es protagonista por sus propiedades mágicas de felicidad. El lugar es importante y hay que tenerlo en cuenta porque está instalado de forma equilibrada para explicar dos temáticas que he insinuado al principio: Fantasía y soledad.
El lugar vinculado a la fantasía tiene que ver con esa antigua tradición de la leyenda que marca la génesis de los relatos de la humanidad. En las sociedades “primitivas” se encontraron estos recursos narrativos para construir la imaginación de los pueblos que se pasaban las historias de boca en boca.
“Esas son habladurías del mundo. No se cómo se llegan a decir cosas tan demenciales”, le dice un soldado a otro mientras charlan a la luz de una fogata en la montaña. El rumor y la fascinación por transmitir estos relatos orales que no encontraban argumento comprobable se refleja en el diseño de un personaje misterioso llamado el “Coronel Zuluaga” del que se desconoce su paradero y muchos suponen que desertó del Ejército y ahora es un bandido salvaje vagando por el paisaje desértico. Este parece ser el conflicto central del film, pero se pierde entre la trama acomplejada por otra búsqueda más profunda en el mismo desierto.
Esta subtrama que se va tejiendo con el avance del capitán Gunnar por las llanuras inmensas tiene que ver con una reflexión sobre la soledad humana. Antes de la expedición por su hija, al principio de la película se visibiliza un hombre masturbándose, mientras está sumergido en un pozo de agua del desierto. Un acto solitario en un lugar solitario. Desde allí, todos los personajes que van apareciendo siguen marcados por la desolación de la tierra que los rodea. Pero no es solo el desierto, sino las secuelas de una devastadora guerra social que estaba fragmentando la nación, haciendo más oscuro al monstruo solitario de la gigantesca llanura. Cada uno de los soldados, son “hombres de guerra”: Perdidos y marcados por la soledad de un conflicto bélico genocida, como lo estaba el Coronel Aureliano Buendía en la reconocida novela de García Márquez…
Singular película del argentino Lisandro Alonso, coproducción de casi media docena de países, rodada con formato de pantalla 4:3, donde Viggo Mortensen tiene la oportunidad de demostrar que domina el danés además del inglés y el español. Se trata sobre todo de una película de atmósfera, en que se juega al contraste entre los personajes y sus vestidos del norte y el paisaje patagónico, y en que se pulsan sentimientos atávicos. Crece en intensidad en el tramo de la búsqueda, con el hermoso pasaje de la noche estrellada en el monte. El desenlace es de un completo desconcierto, y más de uno lo calificará, quizá no sin razón, de tomadura de pelo.

…Gunnar è presto perso in un deserto borgesiano che racchiude dentro di sè un’infinità universale labirintica priva di pareti. Come nel libro di sabbia di Borges anche Jauja perde qualsiasi chiave narrativa verso la fine del film, restituendoci una finzione cinematografica che lascia piena libertà allo spettatore di scegliere da quale fotogramma iniziare la propria visione. Molte scene sembrano infatti come essere già state girate, quasi fossero riprese interrotte o variazioni di un eterno ritorno. Un cinema quello di Alonso che impedisce qualsiasi interpretazione chiusa, un film incorniciato (anche nelle inquadrature che racchiudono le scene dando quel tocco di riflessione psicologica interiore) da un orizzonte mitico senza tempo. Disperso infatti nel deserto della Patagonia dopo aver percorso il labirinto della sua coscienza Gunner incontra una donna, figura piuttosto felliniana-Fellini/sogno, che da sempre trascorre la sua intera esistenza in una grotta insieme al suo cane. L’incontro con la sua psiche irrisolta raggiunge il punto più alto della poetica filosofica di Alonso. La donna infatti altri non è che sua figlia cresciuta, invecchiata che gli riconsegna la sua amata e perduta bussola e gli chiede di sua madre. Avrebbe sempre voluto sapere…

Jauja è in questo senso una sorta di paradosso estetico che tenta di riportare il cinema e, in generale la narratività, a un grado zero, a una struttura discorsiva primitiva che il cineasta desume da modelli come Apichatpong Weerasethakul, Andrej Tarkovskij, Robert Bresson e Tsai Ming-Liang (si dia un’occhiata, a tal proposito, alla lista dei film preferiti del regista argentino pubblicata sul sito ufficiale del British Film Institute: ).
E inoltre, ponendosi – tra le altre cose – come la storia di un padre alla ricerca della figlia nel mezzo di una terra dell’oro ostile e pronta ad essere colonizzata, Jauja sembra vagamente replicare, differenziandole e adattandole al sopraggiungere delle coeve dinamiche storiche, le strutture del fordiano Sentieri Selvaggi e in generale del western di cui il film è indiscussa immagine iconica. Il percorso lineare, classico, dotato di precisi criteri di separazione sociale e culturale di Sentieri Selvaggi, si trasforma qui in un groviglio indistricabile di apparenze, in una successione inesplicabile di forme dell’esistere, di spazi, di tempi. La frontiera di John Ford, intesa come divisione e separazione, viene ridefinita da Alonso e si trasforma in luogo ambiguo di convergenza e attraversamento, in soglia labile dominata dalla progressiva dispersione del limite più che dal valore escludente del limite stesso.
Jauja si configura, in questo senso, come un film che non pretende di offrire interpretazioni solide e si propone, al contrario, alla stregua di un affascinante esperimento che testa la possibilità stessa della molteplicità drammaturgica come modo di essere di un’opera. Un film che si disperde, annullando le coordinate narrative di riferimento, che confonde, rigettando il principio stesso della razionalità. Jauja concide con quella terra incantata e misteriosa che, in fin dei conti, non è altro che il cinema.

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