nel
(gran) libro La
badante di Bucarest,
di Gianni Caria, nel quale un'insegnante precaria va in Romania a fare la
badante,
nel film
è un agronomo a prendere il largo, verso la Romania, dopo anni di precario
della vita, per un lavoro che non si capisce bene come andrà a finire.
Clara, la
compagna, anche lei precaria della vita, lo seguirà.
bravi e
convincenti i due protagonisti.
cosa
succederà guardatelo da voi, non vogliate riassunti di un film che merita di
essere visto, un'opera prima che vale - Ismaele
…Se poi il film lo vai a
vedere, ti rendi conto invece che il tragitto Bari-Banato (o Banat*) del
giovane uomo Ivo è più un pretesto per la messa in scena per immagini e
suggestioni d’ambiente di Adriano Valerio che un vero binario narrativo. In Banat il racconto latita clamorosamente, (non)
procedendo per silenzi, non detti, allusioni, ellissi, volute omissioni, come
in moltissimo giovane cinema da festival in cui fatichiamo a intravedere il
tessuto connettivo. Film anoressico che mostra, e mostra benissimo con
grande eleganza, senza riuscire mai a renderci interessanti i suoi personaggi e
le loro vaghe trame esistenziali, e i loro tormenti e dilemmi. Valerio traduce
in lingua contemporanea la lontana lezione di Antonioni, piazza la macchina da
presa perlopiù frontalmente, immergendo cose e figure all’interno di paesaggi
che sembrano il suo vero oggetto d’attenzione (e per diluire ancora di più le
figure adotta il grande schermo). Con scarsi movimenti di macchina, perlopiù
lentissimi e con carrellate orizzontali destra-sinistra o sinistra-destra…
…Edoardo Gabbriellini è
molto giusto, molto in parte, e asseconda bene l’approccio rigoroso e asettico
del regista. Elena Radonicich è quasi una rivelazione, bella e brava davvero,
pur senza smancerie. Incredibilmente credibile la lunga scena d’amore..
Banat – Il viaggio è il primo lungometraggio di Adriano Valerio. Il film non è di
facilissima lettura essenzialmente per due motivi. Il primo motivo, voluto dal
regista, perché i dialoghi sono
ridotti all’osso e solo una grande Piera degli Esposti consente
allo spettatore di uscire di tanto in tanto da una sorta di apnea visiva. Il
secondo motivo, presumibilmente non voluto, è un disorientamento narrativo che
rende la storia troppo fragile. Eppure nella struttura dello script c’erano
tutti gli ingredienti per poter approfondire la natura dei protagonisti, i
flussi sociali ed economici che regolano il racconto e i personaggi con cui le
figure principali vengono a contatto. Soltanto la solita Piera degli Esposti
emerge nonostante questi limiti, ma la sua bravura interpretativa e la sua
presenza scenica sono sempre una garanzia.
Ivo e Clara sono due trentenni che vivono a Bari. Le loro vite si incrociano per una notte ma da allora saranno destinate a non perdersi di vista. Ivo è un agronomo disoccupato che sta partendo per seguire un progetto in Romania in una sorta di ‘emigrazione al contrario‘, precisamente nella regione del Banat, dove ha trovato un’opportunità per la sua professione. Clara invece è una restauratrice di barche che il giorno seguente il loro incontro sarà licenziata…
Ivo e Clara sono due trentenni che vivono a Bari. Le loro vite si incrociano per una notte ma da allora saranno destinate a non perdersi di vista. Ivo è un agronomo disoccupato che sta partendo per seguire un progetto in Romania in una sorta di ‘emigrazione al contrario‘, precisamente nella regione del Banat, dove ha trovato un’opportunità per la sua professione. Clara invece è una restauratrice di barche che il giorno seguente il loro incontro sarà licenziata…
…Il regista, che ha lasciato l’Italia da molti anni per
vivere e lavorare in diversi paesi, conosce bene – probabilmente – il
senso di disorientamento conseguente al distacco dalle proprie radici. Già nel
corto pluripremiato 37°4S aveva raccontato il rapporto
conflittuale che si ha con la propria terra, realizzando, più o meno
consapevolmente, una specie di prologo di Banat. Straniamento e
spaesamento sono, dunque, gli stati d’animo che Valerio intende indagare,
attraverso l’incontro di due esseri umani soli e in cerca di identità.
I modelli dichiarati del regista sono autori nord europei
come Kaurismaki e Dagur Kari, capaci di far emergere, tra le trame del dramma,
anche momenti di humour e di comicità surreale. In verità, il discorso sulla
condizione esistenziale di chi è sospeso tra due mondi resta, a tratti, in
superficie e anche l’ironia stenta a decollare. Ad un certo punto, prevale il
versante “sentimentale” e il film si trasforma in una comune storia d’amore,
con tanto di canzone “Se t’amo t’amo” di Rosanna Fratello...
…Ma chi se ne frega della
storia, del progetto, delle tematiche che servono a riempire i giornali con i
“contenuti sociali” di un film. Per fortuna Valerio, che pure ha sperimentato
sulla sua pelle queste andate (e ritorno?) della generazione Erasmus, sa affrancarsi
immediatamente dalle gabbie contenutistiche del cinema nostrano, lasciando libero il suo cinema di raccontarci
una deliziosa e goffa storia d’amore, come non ne vedevamo dai tempi di Corso
Salani, il cui cinema sembra ogni tanto trasparire, forse involontariamente,
dalle pieghe del film.
Ed ecco i paesaggi gelidi
e ghiacciati della Romania, e lo spaesamento visivo, culturale ed emozionale
che prende il sopravvento. Ivo finalmente può fare il “lavoro della sua vita”
(è un agronomo), ma presto dovrà fare i conti con una realtà piuttosto
complicata, dove la crisi e la Storia (il vecchio regime di Ceausescu) hanno
determinato regole sociali non sono quelle alle quali era abituato. Ma
tra un ballo con i contadini nel sabato del villaggio, una bevuta con i nuovi
amici con i quali lavora, il tempo sembra volare, anche se ogni tanto,
guardando il paesaggio invernale desolato Ivo si domanda “ma che ci faccio
qui?”. Non fa in tempo a perdersi nel vuoto dello spaesamento in terra
straniera che, a sorpresa, Clara lo raggiunge, riempendogli improvvisamente
quel buco nero in cui sembra essersi perduto. E qui il film esplode, come in un melodramma al
contrario, dove è la felicità e non il dolore il cuore della storia, che si
riempie di giochi del corpo e del cuore, fino a quella canzone (“Ma t’amo,
t’amo”) che Clara canta con passione e che il regista rispettosamente sceglie
di mostrare fino alla fine. Sono attimi di gelo e di calore che Valerio riesce
a raccontare con una delicatezza di sguardo, riuscendo sempre a far vivere il
paesaggio dentro i corpi (o viceversa?) dei suoi personaggi….
…Ivo e Clara sono alla ricerca di un nuovo orizzonte che però si rivela
illusorio perché non è possibile sfidare regole distorte che si sono ormai
incistate in un microcosmo rurale in cui ogni novità rappresenta una minaccia.
Gabbriellini e Radonicich sanno incarnare bene gli entusiasmi e i timori di chi
non ha rinunciato alla speranza neppure quando si trova di fronte a un mare
piatto come la vita che avrebbe potuto essere 'nova' ed invece rischia di non
essere tale. Ma sperare costa fatica e il rischio del cedimento davanti a un
fuoco che divampa, distruggendo ciò che si cercava di costruire, rischia di far
congelare non solo le piante ma anche quei germogli che sembrano non poter
attecchire in una realtà in cui Valerio colloca i suoi personaggi anche in
campi lunghi che sfidano la fruizione miniaturizzata della tecnologia dei
nostri giorni. L'unico rischio non del tutto scongiurato è quello di una certa
freddezza narrativa che la sensualità dei corpi in amore non sempre riesce a
neutralizzare.
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