mercoledì 3 maggio 2017

Evgenij Evtushenko parla di "Ladri di biciclette"


Quando mi chiedono quale sia il mio film preferito, senza neppure pensarci rispondo: Ladri di biciclette. E non sono il solo: tutta la mia generazione è andata almeno una volta a vedere il film italiano che, nel 1948 - fra tutte le pompose pellicole staliniane sulla guerra o sui giganteschi banchetti organizzati per migliaia di kolhoznik felici mentre la campagna soffriva la fame - ci ha restituito il contatto con un’arte che rappresentava di nuovo la vita reale.
Esattamente 60 anni dopo, nel 2008, a Roma ho avuto l’incontro più incredibile nella mia vita. Non con una donna, ma con un uomo che non conoscevo di persona, anche se l’avevo già visto circa trenta, quaranta volte non nella vita reale, ma al cinema, in Ladri di biciclette. Allora lui aveva 9 anni, ma l’età sullo schermo, si sa, non cambia mai. Nel film si chiamava Bruno ed è diventato uno dei protagonisti, anzi non ho paura a dirlo, uno dei miei maestri di vita, poiché in lui convergevano le tre migliori qualità possibili dell’essere umano: sincerità, fedeltà e dignità. Aggiungo pure il fascino, che non si impara dai registi.
Mi permetto una breve divagazione che però ha a che fare con Enzo Staiola, il protagonista della mia storia. La contessa Suni Rattazzi Agnelli, una mia vecchia conoscente della famiglia proprietaria della Fiat, nel passato aveva lavorato per l’edizione newyorkese di Vogue. Ci siamo conosciuti nel 1966 durante una cena in mio onore, organizzata in casa del senatore Jacob Javits. Henry Kissinger, che era seduto vicino a me, si meravigliò del mio orologio: «Che bello! È svizzero naturalmente»? Risposi orgogliosamente: «Sovietico»!
Mi era stato regalato prima di partire, come modello sperimentale, dopo un recital di poesia in una fabbrica di Mosca. Kissinger sorrise con sospettosa incertezza: «Voi russi, naturalmente, sapete fare bene bombe e razzi, ma non eleganti orologi come questo». Mi tolsi dal polso il mio orologio e glielo porsi, mostrandogli la scritta Made in Urss. Kissinger si tolse il suo, lo mise con cura nel taschino e indossò quello sovietico. Senza offrirmi in cambio il suo, come ci si aspetterebbe in Russia.
In quel momento si alzò una bella donna sconosciuta dalla figura aristocratica, con diversi fili bianchi apparsi precocemente tra i capelli neri e un affascinante accento leggermente straniero: «Vedo che mister Kissinger non conosce le usanze russe. E per non lasciare il nostro ospite con delle impressioni sbagliate sulle tradizioni dell’Ovest, mi permetta, mister Evtušenko, di regalarle il mio di orologio».
Era un Rolex, uno dei primissimi modelli, che porto tutt’oggi al polso. Sul lato interno vi è inciso «Suni Rattazzi» e il suo gruppo sanguigno. Kissinger arrossì e iniziò a spiegare confusamente che l’orologio gli era stato regalato da una zia. Quando la storia trapelò e finì nella rubrica di gossip di un giornale newyorkese, Kissinger consegnò il mio orologio allo scrittore Jerzy Kosinski scusandosi con me, il quale, su mia richiesta, lo consegnò a Suni. Questa era la cosa giusta da fare e l’episodio ci aiutò in seguito a diventare amici, quando tornai a New York dopo la grande tournée americana.
Molti anni più tardi, Suni, riprendendo il cognome da nubile, ritornò in Italia e divenne sottosegretario agli Esteri. Un giorno mi invitò nel suo ufficio. C’era anche il ministro delle Poste. Disse che stavano preparando una serie di francobolli commemorativi dedicati al cinema italiano e mi chiese: «Lei conosce bene i nostri film. Quale attore a suo parere potrebbe diventare il simbolo del cinema italiano»? La domanda non era semplice poiché il cinema italiano delle prime pellicole neorealiste aveva conquistato il mondo.
Nella mia mente affiorarono i volti di Anna Magnani, Isa Miranda, Giulietta Masina, Massimo Girotti, Silvana Pampanini, Sofia Loren, Marcello Mastroianni, Gina Lollobrigida. E all’improvviso tutti i volti famosi vennero offuscati dal viso del bambino di nove anni di nome Bruno che avevo visto in Ladri di biciclette: il piccolo benzinaio che riforniva le auto di carburante con rara dignità proletaria e tirava su con il suo simpaticissimo naso a forma di cetriolo. «Bruno! - risposi -. Il piccolo Bruno!».
«Come mai non ci è venuto in mente prima? Bruno, certo!», esclamarono quasi all’unisono. Dopo sei mesi ricevetti una busta con il timbro delle Poste Italiane nella quale trovai, accuratamente riposti, i francobolli con il sorriso del mio adorabile Bruno.
Ed ecco, ora stavo per vederlo per la prima volta dal vivo come Enzo Staiola, il suo vero nome. Secondo i miei calcoli, doveva avere circa 70 anni. Mi trovavo a Roma, in una fermata della metropolitana tra le più distanti dal centro e lo aspettavo. Procurarmi il suo numero era stato difficile, ma ancora più difficile parlargli al telefono. Quando chiamai Enzo, brontolò: «Sono stufo dei giornalisti». Lo supplicai, spiegandogli che ero un poeta russo, che insegnavo negli Usa e che ogni semestre, ormai da più di dieci anni, mostravo ai miei studenti americani Ladri di biciclette e con questo film «formavo il loro gusto».
A questo punto cedette: «Va bene, però a una condizione. Venga all’uscita di quella fermata della metrò. Accetterò di parlare con lei soltanto se mi riconoscerà e verrà da solo da me». «Ma mi dica almeno come sarà vestito», chiesi mestamente. «No - tagliò corto Staiola -. Non l’aiuterò a riconoscermi». Arrivai all’appuntamento in anticipo con mia moglie Masha e con Marina, l’interprete. Di tanto in tanto davo un’occhiata al regalo di Suni Rattazzi. Quando la lancetta raggiunse l’ora stabilita, lasciai Masha e Marina sulla panchina sotto gli alberi e mi diressi verso la piazzetta davanti all’uscita della metrò. Raccolsi tutta la mia memoria visiva e mi concentrai.
Vidi un uomo canuto in un abito dignitoso e persino con la cravatta, non giovane, ovvio, ma nemmeno decrepito. Però il naso a cetriolo era rimasto lo stesso, infinitamente simpatico. Anche la dignità proletaria si era conservata, anche se ora era un po’ triste e cupa. Senza paura di sbagliarmi, mi avvicinai a lui e gli porsi la mano.
«Alla fine mi ha riconosciuto - disse lui -. Con quelli che non mi riconoscono, non ci parlo neanche. La cosa più curiosa è che io li riconosco sempre, mentre loro no e capisco subito che non abbiamo niente da dirci, perché i loro occhi rapaci cercano ovunque, non si fermano mai, sono vuoti. Io, il piccolo bambino, non ci sono in quegli occhi. Lei invece non ha perso gli occhi. E mi ha riconosciuto...».
All’inizio Enzo era un po’ rigido, poi si lasciò andare. Raccontò come una volta, tornando a casa, dopo la scuola, aveva notato un’auto che lo seguiva. Quando la macchina si fermò al suo fianco, vide al suo interno un bellissimo signore canuto che fece per parlargli. Bruno scappò a gambe levate per la paura di essere rapito. L’auto continuò a seguirlo e lui a malapena riuscì a rifugiarsi in casa. Il signore distinto lo raggiunse in casa e i genitori di Enzo lo riconobbero subito: era Vittorio De Sica. Voleva invitare il loro figlio per il ruolo di protagonista in uno dei suoi film. Nonostante la stima nei confronti di De Sica, i genitori rifiutarono. De Sica andò via, dispiaciuto. Un giorno, mentre la troupe faceva i provini, vicino al Colosseo, a bambini venuti da tutta Italia, Enzo non poté fare a meno di assistere alle riprese. Aveva convinto la zia ad accompagnarlo. De Sica lo riconobbe subito e si recò nuovamente dai genitori, proponendo loro un contratto da un milione di lire.
Erano tanti soldi per i genitori di Enzo: il padre guadagnava 700 lire al giorno e la somma propostagli equivaleva al lavoro di circa quattro anni. Ci pensarono un po’ su e guardarono il figlio per conferma. Ciò lo incuriosì ancora di più e fece cenno di sì. Fra l’altro la somma era considerevole anche per lo stesso De Sica, che vide così restringersi il budget del film. Gli americani si offrirono di finanziarlo a condizione che il regista scritturasse Cary Grant nel ruolo del padre di Bruno. Su questo punto, però, De Sica fu irremovibile: voleva che dei veri disoccupati facessero la parte dei disoccupati per mostrare al mondo che gli italiani non erano soltanto poveri, ma anche pieni di talento.
«Come sono state le prime riprese? - chiesi a Enzo -. Siete entrati subito in sintonia?».
«Con De Sica è stato facile. All’inizio mi fece vedere come avrebbe recitato ogni scena se fosse stato al mio posto. Poi mi chiese di improvvisare. La prima scena è stata girata a Porta Portese: è il momento in cui cerco la bicicletta rubata. In quella scena ci sono tante persone e nessuna di loro era abituata a stare davanti alla cinepresa, ma lui li convinse a essere naturali, a non fare caso alle riprese, a muoversi come se la macchina da presa non esistesse affatto; mentre a me disse di cercare la bicicletta e di non distrarmi. E così filò tutto liscio».
«De Sica non ti ha più proposto di girare con lui»?
«Credo che avrei potuto imparare ancora molto, se avessi girato con lui anche solo un’altra volta. Sarei certo diventato un attore professionista. Per questo ce l’ho un po’ con lui. In seguito, è vero, ho girato spesso. Persino con Anna Magnani in Vulcano e, poi, ne La contessa scalza ma solo fino ai miei 18-20 anni. Poi smisero di cercarmi. Quando sei bambino, fai sempre la parte dei bambini, mentre da "adulto" devi trovare il "tuo" regista che ti deve guidare. Invece i registi che mi invitavano cercavano solo il mio nome, non la mia anima».
«Che cos’hai fatto dopo?». «Mi sono iscritto all’Istituto tecnico per geometri». «Quali film preferisci»? «Oggi ci sono talmente tanti pericoli, tragedie, paure - a cominciare dalla paura di perdere il lavoro - che evito di guardare i film tristi che assomigliano alla vita e preferisco le commedie». Rimasi di stucco. Mi sconvolgeva che il protagonista di uno dei film tragici più famosi preferisse, alla fine dei suoi anni, le commediole vuote. Il piccolo Bruno era evaporato, come se non fosse mai esistito. Il geometra Enzo Staiola si alzò: «Chiedo scusa. Devo andare al matrimonio di mia nipote». E mentre salutava, uscendo si girò all’improvviso e sorrise; i suoi occhi di nuovo brillarono, come sessant’anni prima: «Comunque è sempre bello ricordarsi che esiste il francobollo con la faccia di Bruno, mentre un francobollo con Alberto Sordi non c’è!». E strizzò l’occhio alla sua irripetibile maniera romanesca.
Evgenij Evtushenko
(Traduzione di Rayna Castoldi)

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