Quando mi chiedono quale sia il mio film preferito, senza neppure
pensarci rispondo: Ladri di biciclette. E non sono il solo: tutta
la mia generazione è andata almeno una volta a vedere il film italiano che, nel
1948 - fra tutte le pompose pellicole staliniane sulla guerra o sui giganteschi
banchetti organizzati per migliaia di kolhoznik felici mentre
la campagna soffriva la fame - ci ha restituito il contatto con un’arte che
rappresentava di nuovo la vita reale.
Esattamente 60 anni dopo, nel 2008, a Roma ho avuto
l’incontro più incredibile nella mia vita. Non con una donna, ma con un uomo
che non conoscevo di persona, anche se l’avevo già visto circa trenta, quaranta
volte non nella vita reale, ma al cinema, in Ladri di biciclette.
Allora lui aveva 9 anni, ma l’età sullo schermo, si sa, non cambia mai. Nel
film si chiamava Bruno ed è diventato uno dei protagonisti, anzi non ho paura a
dirlo, uno dei miei maestri di vita, poiché in lui convergevano le tre migliori
qualità possibili dell’essere umano: sincerità, fedeltà e dignità. Aggiungo
pure il fascino, che non si impara dai registi.
Mi permetto una breve divagazione che però ha a che fare
con Enzo Staiola, il protagonista della mia storia. La contessa Suni Rattazzi
Agnelli, una mia vecchia conoscente della famiglia proprietaria della Fiat, nel
passato aveva lavorato per l’edizione newyorkese di Vogue. Ci siamo
conosciuti nel 1966 durante una cena in mio onore, organizzata in casa del
senatore Jacob Javits. Henry Kissinger, che era seduto vicino a me, si
meravigliò del mio orologio: «Che bello! È svizzero naturalmente»? Risposi
orgogliosamente: «Sovietico»!
Mi era stato regalato prima di partire, come modello
sperimentale, dopo un recital di poesia in una fabbrica di Mosca. Kissinger
sorrise con sospettosa incertezza: «Voi russi, naturalmente, sapete fare bene
bombe e razzi, ma non eleganti orologi come questo». Mi tolsi dal polso il mio
orologio e glielo porsi, mostrandogli la scritta Made in Urss.
Kissinger si tolse il suo, lo mise con cura nel taschino e indossò quello
sovietico. Senza offrirmi in cambio il suo, come ci si aspetterebbe in Russia.
In quel momento si alzò una bella donna sconosciuta dalla figura
aristocratica, con diversi fili bianchi apparsi precocemente tra i capelli neri
e un affascinante accento leggermente straniero: «Vedo che mister Kissinger non
conosce le usanze russe. E per non lasciare il nostro ospite con delle
impressioni sbagliate sulle tradizioni dell’Ovest, mi permetta, mister Evtušenko,
di regalarle il mio di orologio».
Era un Rolex, uno dei primissimi modelli, che porto tutt’oggi
al polso. Sul lato interno vi è inciso «Suni Rattazzi» e il suo gruppo
sanguigno. Kissinger arrossì e iniziò a spiegare confusamente che l’orologio
gli era stato regalato da una zia. Quando la storia trapelò e finì nella
rubrica di gossip di un giornale newyorkese, Kissinger consegnò il mio orologio
allo scrittore Jerzy Kosinski scusandosi con me, il quale, su mia richiesta, lo
consegnò a Suni. Questa era la cosa giusta da fare e l’episodio ci aiutò in
seguito a diventare amici, quando tornai a New York dopo la grande tournée americana.
Molti anni più tardi, Suni, riprendendo il cognome da
nubile, ritornò in Italia e divenne sottosegretario agli Esteri. Un giorno mi
invitò nel suo ufficio. C’era anche il ministro delle Poste. Disse che stavano
preparando una serie di francobolli commemorativi dedicati al cinema italiano e
mi chiese: «Lei conosce bene i nostri film. Quale attore a suo parere potrebbe
diventare il simbolo del cinema italiano»? La domanda non era semplice poiché
il cinema italiano delle prime pellicole neorealiste aveva conquistato il
mondo.
Nella mia mente affiorarono i volti di Anna Magnani, Isa Miranda,
Giulietta Masina, Massimo Girotti, Silvana Pampanini, Sofia Loren, Marcello
Mastroianni, Gina Lollobrigida. E all’improvviso tutti i volti famosi vennero
offuscati dal viso del bambino di nove anni di nome Bruno che avevo visto
in Ladri di biciclette: il piccolo benzinaio che riforniva le auto
di carburante con rara dignità proletaria e tirava su con il suo simpaticissimo
naso a forma di cetriolo. «Bruno! - risposi -. Il piccolo Bruno!».
«Come mai non ci è venuto in mente prima? Bruno, certo!»,
esclamarono quasi all’unisono. Dopo sei mesi ricevetti una busta con il timbro
delle Poste Italiane nella quale trovai, accuratamente riposti, i francobolli
con il sorriso del mio adorabile Bruno.
Ed ecco, ora stavo per vederlo per la prima
volta dal vivo come Enzo Staiola, il suo vero nome. Secondo i miei calcoli,
doveva avere circa 70 anni. Mi trovavo a Roma, in una fermata della metropolitana tra
le più distanti dal centro e lo aspettavo. Procurarmi il suo numero era stato
difficile, ma ancora più difficile parlargli al telefono. Quando chiamai Enzo,
brontolò: «Sono stufo dei giornalisti». Lo supplicai, spiegandogli che ero un
poeta russo, che insegnavo negli Usa e che ogni semestre, ormai da più di dieci
anni, mostravo ai miei studenti americani Ladri di biciclette e
con questo film «formavo il loro gusto».
A questo punto cedette: «Va bene, però a una
condizione. Venga all’uscita di quella fermata della metrò. Accetterò di
parlare con lei soltanto se mi riconoscerà e verrà da solo da me». «Ma mi dica
almeno come sarà vestito», chiesi mestamente. «No - tagliò corto Staiola -. Non
l’aiuterò a riconoscermi». Arrivai all’appuntamento in anticipo con mia moglie
Masha e con Marina, l’interprete. Di tanto in tanto davo un’occhiata al regalo
di Suni Rattazzi. Quando la lancetta raggiunse l’ora stabilita, lasciai Masha e
Marina sulla panchina sotto gli alberi e mi diressi verso la piazzetta davanti
all’uscita della metrò. Raccolsi tutta la mia memoria visiva e mi concentrai.
Vidi un uomo canuto in un abito dignitoso
e persino con la cravatta, non giovane, ovvio, ma nemmeno decrepito. Però il
naso a cetriolo era rimasto lo stesso, infinitamente simpatico. Anche la
dignità proletaria si era conservata, anche se ora era un po’ triste e cupa.
Senza paura di sbagliarmi, mi avvicinai a lui e gli porsi la mano.
«Alla fine mi ha riconosciuto - disse lui -. Con
quelli che non mi riconoscono, non ci parlo neanche. La cosa più curiosa è che
io li riconosco sempre, mentre loro no e capisco subito che non abbiamo niente
da dirci, perché i loro occhi rapaci cercano ovunque, non si fermano mai, sono
vuoti. Io, il piccolo bambino, non ci sono in quegli occhi. Lei invece non ha
perso gli occhi. E mi ha riconosciuto...».
All’inizio Enzo era un po’ rigido, poi si lasciò
andare. Raccontò come una volta, tornando a casa, dopo la scuola, aveva notato
un’auto che lo seguiva. Quando la macchina si fermò al suo fianco, vide al suo
interno un bellissimo signore canuto che fece per parlargli. Bruno scappò a
gambe levate per la paura di essere rapito. L’auto continuò a seguirlo e lui a
malapena riuscì a rifugiarsi in casa. Il signore distinto lo raggiunse in casa
e i genitori di Enzo lo riconobbero subito: era Vittorio De Sica. Voleva
invitare il loro figlio per il ruolo di protagonista in uno dei suoi film.
Nonostante la stima nei confronti di De Sica, i genitori rifiutarono. De Sica
andò via, dispiaciuto. Un giorno, mentre la troupe faceva i
provini, vicino al Colosseo, a bambini venuti da tutta Italia, Enzo non poté
fare a meno di assistere alle riprese. Aveva convinto la zia ad accompagnarlo.
De Sica lo riconobbe subito e si recò nuovamente dai genitori, proponendo loro
un contratto da un milione di lire.
Erano tanti soldi per i genitori di Enzo: il padre
guadagnava 700 lire al giorno e la somma propostagli equivaleva al lavoro di
circa quattro anni. Ci pensarono un po’ su e guardarono il figlio per conferma.
Ciò lo incuriosì ancora di più e fece cenno di sì. Fra l’altro la somma era
considerevole anche per lo stesso De Sica, che vide così restringersi il budget del
film. Gli americani si offrirono di finanziarlo a condizione che il regista
scritturasse Cary Grant nel ruolo del padre di Bruno. Su questo punto, però, De
Sica fu irremovibile: voleva che dei veri disoccupati facessero la parte dei
disoccupati per mostrare al mondo che gli italiani non erano soltanto poveri,
ma anche pieni di talento.
«Come sono state le prime riprese? - chiesi a Enzo
-. Siete entrati subito in sintonia?».
«Con De Sica è stato facile. All’inizio mi
fece vedere come avrebbe recitato ogni scena se fosse stato al mio posto. Poi
mi chiese di improvvisare. La prima scena è stata girata a Porta Portese: è il
momento in cui cerco la bicicletta rubata. In quella scena ci sono tante
persone e nessuna di loro era abituata a stare davanti alla cinepresa, ma lui
li convinse a essere naturali, a non fare caso alle riprese, a muoversi come se
la macchina da presa non esistesse affatto; mentre a me disse di cercare la
bicicletta e di non distrarmi. E così filò tutto liscio».
«De Sica non ti ha più proposto di girare
con lui»?
«Credo che avrei potuto imparare ancora molto, se avessi girato con
lui anche solo un’altra volta. Sarei certo diventato un attore professionista.
Per questo ce l’ho un po’ con lui. In seguito, è vero, ho girato spesso.
Persino con Anna Magnani in Vulcano e, poi, ne La
contessa scalza ma solo fino ai miei 18-20 anni. Poi smisero di
cercarmi. Quando sei bambino, fai sempre la parte dei bambini, mentre da
"adulto" devi trovare il "tuo" regista che ti deve guidare.
Invece i registi che mi invitavano cercavano solo il mio nome, non la mia
anima».
«Che cos’hai fatto dopo?». «Mi sono
iscritto all’Istituto tecnico per geometri». «Quali film preferisci»? «Oggi ci
sono talmente tanti pericoli, tragedie, paure - a cominciare dalla paura di
perdere il lavoro - che evito di guardare i film tristi che assomigliano alla
vita e preferisco le commedie». Rimasi di stucco. Mi sconvolgeva che il
protagonista di uno dei film tragici più famosi preferisse, alla fine dei suoi
anni, le commediole vuote. Il piccolo Bruno era evaporato, come se non fosse
mai esistito. Il geometra Enzo Staiola si alzò: «Chiedo scusa. Devo andare al
matrimonio di mia nipote». E mentre salutava, uscendo si girò all’improvviso e
sorrise; i suoi occhi di nuovo brillarono, come sessant’anni prima: «Comunque è
sempre bello ricordarsi che esiste il francobollo con la faccia di Bruno,
mentre un francobollo con Alberto Sordi non c’è!». E strizzò l’occhio alla sua
irripetibile maniera romanesca.
Evgenij Evtushenko
(Traduzione di Rayna Castoldi)
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