venerdì 26 maggio 2017

Kruh in mleko (Black and White) - Jan Cvitkovic

un bianco e nero vero e implacabile, in una storia dove i colori sono banditi.
una famiglia distrutta per un bicchiere di troppo, anzi ben più di uno.
il padre esce dalla struttura per alcolisti dove si è disintossicato, poi una giornata di follia fa scivolare il mondo all'indietro.
non ci sono prediche, solo una storia.
io la farei vedere nelle scuole, per veder l'effetto che fa.
dimenticavo di dire la cosa più importante, appena lo troverete vedrete dell'ottimo cinema, un piccolo capolavoro che non si dimentica - Ismaele












In the sixties, during the golden age of socialism, a big establishment named the “Taverna” was built in my hometown. It was intended for workers as a place where after hard work they could treat themselves to a subsidized lunch, play a game of chess, relax by bowling and have a drink or two.
As the years went by this place was steadily becoming less and less similar to what it was intended for in the beginning. It became a refuge for people who for some reason did not want to spend their spare time at home. The divorced, the lonely, people who did not get along with their relatives, alcoholics, the unemployed and young people who, like me, did not have anywhere else to go. The “Taverna” was now open all night long.
At that time (I was about 16 or 17 years old) a certain scene made a profound impact upon me. A chap, a family man whom I knew by appearance, came to a halt in the middle of the tavern at about three o’ clock in the morning, completely drunk, holding a plastic bag in his hand. There was a moment when it seemed that this man realized how he had ruined his own life. In the bag that he dropped on the floor were a loaf of bread and a liter of milk.
This scene remained with me somewhere in my sub consciousness all through the years until I decided to make a film based on it. I have accomplished this by adding the previous and the next day to that moment, that is, a bit of the past and a bit of future.
What was created is a film that actually does not examine the social conditions and the obvious problems of the protagonists so much. Instead it focuses more on their yearning for mutual love and warmth. The film looks especially closely at the mistakes that the protagonists make, because of which their final goal is farther and farther away.
Bread and Milk is a film about people living between heaven and hell. About people we all know.
Jan Cvitkovič

Cinema minuscolo ma emozionante, fatto della semplice, quasi algida esposizione della giornata di una famiglia allo sbando. 
Un padre alcolizzato, un figlio tossicodipendente, una madre senza la forza necessaria per fronteggiare la situazione.
La sincerità di Jan Cvitkovic - ex studente di fisica, poi vagabondo attraverso Israele, Egitto, Africa orientale e infine convertitosi allo studio dell'archeologia prima di approdare al cinema - e la sua distanza, priva di moralismi, dai personaggi che racconta, rende vivi i cliché. E fa vibrare quanto basta un vero film di soli 68 minuti, inizialmente inteso come cortometraggio e poi allargatosi seguendo le esigenze drammatiche dei personaggi così come queste venivano sviluppandosi durante le prove, prima delle riprese.
Immerso in un bianco e nero insieme intimo e documentario (girato in 16mm colore e poi gonfiato in 35mm b/n), col suo piglio asciutto e parsimonioso Kruh in mleko(letteralmente "Pane e latte") non spreca un fotogramma, non si concede una sola lungaggine.
Perfetta la colonna sonora, fra hardcore e techno.

Il regista Jan Cvitkovic, ex studente di fisica votato al viaggio e all’archeologia, ritrae con pennellate delicate le ferite di una famiglia in cui si riconosce un intero popolo. Girato interamente in Slovenia, Kruh in mleko (Bread and Milk) è il ritratto sensibile di un destino di inetti, il cui ultimo grido disperato si traduce in un rantolo di follia distruttiva. Una storia che affonda nel sentimento cosmico con un’economia poetica che non si perde in melodrammaticità superflua, ma si declina in un’ora di sensibilità emozionante, senza la necessità di quelle elucubrazioni cervellotico-filosofiche che sembrano interessare sempre più gran parte dell’ultimo cinema. La pellicola, inizialmente girata in 16mm e poi gonfiata a 35, era destinata al cortometraggio, ma il regista ha lasciato scorrere il respiro naturale dei propri personaggi su cui poggia discreto l’occhio meccanico, definendone con sguardo documentario le ferite più intime. Una musica altalenante di techno mista ad hardcore stride con ogni singola scena marcatamente lirica, con i silenzi venati di dolore che incidono quel bianco e nero di un’esistenza in declino. Il grigio-bianco che pervade l’intero film si frange in un secondo finale che segna l’ineluttabilità di un manicheismo non superato: paradiso e inferno si delineano nell’asettico bianco dell’ospedale e nel nero prolungato che scende sull’ultimo fotogramma di mondo silenzioso, ormai invaso dal suono pneumatico…
 La debolezza umana invade la quotidianità su cui la macchina da presa si sofferma timidamente, senza lungaggini, senza sprecare un singolo fotogramma, tutti tesi al senso di perdita di chi si accascia sui propri fallimenti. Il piglio asciutto e parsimonioso evita l’eccesso di un sentimentalismo patetico, a vantaggio di una vena intimistica fatta di dettagli essenziali. Un film sincero privo di moralismo, che impasta il bianco nel grigio per raccontare, in una sorta di mise en abime, la tragicità che intacca quei volti, quelle giacche, quei luoghi invecchiati e lisi.

 It doesn’t sound much like a comedy, but the disasters escalate so quickly and cruelly that they spiral into crazy farce: think Some Mothers Do ave Em, as written by Raymond Carver. But the film isn’t just an acid, black (and white) joke: with the minimum of effort, Cvitkovic captures the atmosphere of this town (Tolmin) by night, especially The Tavern. Identified in the credits as the Hamurabi Bar, this scruffy pub becomes one of the movies great dives: If this town is Eden, then this Tavern is the apple reads scrawled graffiti on the wall outside. On another wall, there’s the legend Love never dies, under which Robi slumps among cardboard boxes in lesser hands, the irony would be too cheap, but Cvitkovic knows he can get away with it if he takes things to sufficient extremes. And he pulls it off, loading Ivan with truly Job-like afflictions, only faltering at the very end: the director builds to a terrific dirty-poetic image, only to cobble on a poem, a dedication, and a final shot that goes just a step too far. At 67 minutes, this really would have been something special.
da qui




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