Già dal titolo si capisce che la protagonista del film non poteva non essere Napoli, filmata in modo innamorato e indimenticabile da Sorrentino.
La storia viene raccontata da Parthenope (Celeste Della Porta da giovane, Stefania Sandrelli da anziana), una storia d'amore che ricorda a tratti Jules e Jim di François Truffaut.
Nella seconda parte del film appaiono due interpreti (e interpretazioni) memorabili, il professore universitario Silvio Orlando e il vescovo Peppe Lanzetta.
Silvio Orlando è il maestro di Parthenope, il professore che la sceglie come successore, e ha un segreto, un figlio malato, e lo mostra a Parthenope (il figlio ha qualche somiglianza con Charlie, il professore super obeso di The Whale).
Peppe Lanzetta è perfetto per il suo ruolo, il vescovo alle prese con il sangue di san Gennaro.
Un film che è una gioia per gli occhi, tra l'altro.
Buona (partenopea) visione - Ismaele
Che Sorrentino ci abbia abituato alla dismisura, è un
dato di fatto. Che Sorrentino abbia un universo intimo e che spesso questo
universo resti aggrappato al suo interno pur illudendosi di darsi completamente
al pubblico, è un altro incontestabile dato di fatto. Che poi Sorrentino abbia
una qualità visiva eccezionale, che parte proprio da quell’universo intimo, da
quella particolare propensione a vedere le cose attraverso un filtro tra il
levigato e il mostruoso, tra luci iperrealistiche scintillanti e l’oscurità
grottesca di Francisco Goya, è altrettanto incontestabile.
Parthenope è
questo. È un distillato di Sorrentino, che torna ancora a Napoli e la omaggia
attraverso la parabola esistenziale di una donna attraente, amata da tutti ma
che poco si concede, pur dispensando a chiunque la sua attenzione. Parthenope,
interpretata dalla pressoché esordiente Celeste Della Porta, è
creatura immersa in sostanza metaforica, è la ovvia prosopopea (non la
superba presunzione, la figura retorica) di una città che nasce dall’acqua per
sedurre, per soffrire, per convivere con i fantasmi rimossi del passato e per
allontanarsi inesorabilmente da se stessa, continuando a coltivare il proprio
rifiuto affascinato e nostalgico…
…Paolo
Sorrentino non è nuovo
all’utilizzo della metafora e del simbolismo. Con E’ stata la mano di
Dio aveva già percorso le
strade di Napoli, che però erano principalmente scenario alla vicenda personale
di Fabietto, il protagonista, e poi si è scoperto alter ego del regista stesso.
Con Parthenope, Sorrentino rimane a Napoli ma fa della città un personaggio nel
corpo e nel viso splendido di Celeste Della Porta. La
prima parte del film è più legata al classico viaggio di formazione, che si
esaurisce e conclude (forse) di fronte al primo grande dolore di questa giovane
donna. Da quel momento in poi che non specifichiamo ma che sarà chiaro a
chiunque vedrà il film, Parthenope prende una strada accidentata, quella
appunto metaforica e simbolica in cui la fanciulla si fa città e, man mano che procede
nella sua ricerca di senso della vita, entra in contatto con ogni aspetto di
Napoli stessa.
Parthenope entra in contatto con l’ambiente dell’arte, e
si avvicina alla recitazione, arrivando a ricevere consigli da una grande
attrice, una diva di origini napoletane che nel look e nei modi ricorda
vagamente Sofia Loren. Si avvicina all’occultismo e alla magia della fede
folkloristica tipica della città: il Miracolo e il Tesoro di San Gennaro, il
Vescovo intermediario tra la città e il popolo, che vuole “fottere” la città
per il suo tornaconto. Entra addirittura in contatto con le viscere mafiose del
capoluogo campano, quando assiste a un “matrimonio” tra famiglie di camorra. Si
immerge nell’ambito accademico, aspetto forse meno noto di Napoli, ma importante
e significativo a livello internazionale, dopotutto è a Napoli l’Università più
antica d’Europa, la Federico II. E’ lì che Parthenope “si ferma” e mette
radici. Il riprendere canonico del racconto monografico di questa non più
giovane donna la ritrova docente in via di pensionamento, mentre dice addio
alla sua cattedra di Antropologia…
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