Giuliano perde il suo migliore amico per un'overdose di droga, entra in crisi, smette di drogarsi e, dopo un po', si innamora di Serena, una prostituta incontrata per strada.
il film è in bianco e nero, è sorprendente quasi come un thriller, ogni scena è memorabile, gli attori sono davvero bravi, e il regista, che anche ha scritto il film, non è mai banale e prevedibile.
il film è girato in Francia, qualche volta i dialoghi sono in francese.
un questo film eccezionale è straordinaria la vecchietta francese, nel suo dialogo con Luciano, in attesa di Serena.
un gioiellino da non perdere.
buona visione - Ismaele
…L’emersione storica della pellicola
appare la traslazione di ciò che viene raccontato al suo interno: è una storia
da oblio, film non identificato dove i suoi protagonisti sembrano, sono fantasmi
erranti, quindi morti: non c’è pace, l’estasi allucinata risiede nella musica a
140 bpm, non c’è luogo, le cartoline da mondi paralleli, e che siano discariche
o cessi di bar di provincia poco importa, non c’è parola, inglese francese
italiano, l’identità è incerta, multiculturale, spaccata, volatilizzata,
eppure, sorprendentemente, c’è amore: sincero perché fra gli ultimi, fra due
che hanno pestato il proprio passato, di lividi divenuti tatuaggi, trip
lisergici, tipi psichedelici, ingenui (come ingenuo è l’ultimo dialogo) che
però trovano l’amore, riemergono, e il dramma assurdo costellato da
maschere pasoliniane sotto effetto di LSD diventa fiaba, sporca, fetida, laida,
ma comunque, in qualche modo, con un lieto fine.
…Erroneamente paragonato ad Amore
Tossico di Caligari e a Trainspotting uscito pochi mesi prima,
Girotondo è qualcosa di estremamente più radicale, senza il benché minimo
orpello o aggancio pop, nemmeno così focalizzato sul fattore droga ma
panoramicamente, desolatamente conficcato nel cuore di un disagio
sociale più esteso e nel contempo più sottile e non
semplificabile; senza inni pop e colori, con surreali, convoluti
dialoghi quotidiani e martellanti musiche techno a scandire i
malandati pomeriggi dei sopravviventi e sopravvissuti.
E’ un film
retrospettivo sul dolore, un tributo (per usare le parole di Manuli) “alle
tante persone perse prima e durante le riprese”, dove il vagare senza
meta e senza prospettive degli emaciati protagonisti (su tutti il bravissimo,
iconico Curreli) tra Milano, Roma e Parigi diventa una delocalizzata,
universale processione di disperazione ed ottundimento generazionale. Manuli torna
a qualche anno prima, all’eroina e al vagabondaggio di ventenni e trentenni
senza salvezza, allo spettro dell’Aids e della scomparsa di corpo e di
pensiero. “Voglio lasciare un segno, ci sono passata anch’io su questa
fottutissima terra”, grida una delle protagoniste di Girotondo, chiedendo di
essere messa incinta da Angelo, sillabando così il devastante manifesto di una
gioventù in evaporazione.
Un film condannato dalle leggi di mercato, ma a cui
occorre restituire giustizia e di cui è impossibile non respirare
l’anima, logora ma furente, di una generazione tradita. Un film che puzza di
vita.
…Luciano
Curreli è Angelo, il protagonista, un personaggio bellissimo, fragile, aperto,
che lascia la droga dopo aver perso il suo migliore amico e aver incontrato la
prostituta Serena (Sarah Boberg), straordinaria nella sua bellezza di angelo
ferito, luminosa e tagliente. Due attori, due volti capaci di bucare lo schermo
e conficcarsi dritti nell’occhio della cinepresa e di riflesso nel cuore e
nella testa di chi guarda.
Manuli racconta un mondo sfatto e ai margini, intriso di morte, dolore, vita,
gioia, amore, droga, favola, comprensione, umanità, senza la benché minima
ombra di retorica, affidandosi al linguaggio di una cinepresa che aderisce alla naturale
fotogenia degli attori. Senza compiacimento, ma solo spinto da un’urgenza e una
necessità palpabili. Così, lontano dalle edulcorazioni della fiction, tutto
sembra vero, sentito, sofferto, vissuto. E in queste sue “aperture”, in queste
sue fughe spericolate a cavallo di un racconto che procede per sussulti,
squarci e passaggi di natura biologica più che logica, c’è tutto il film preso
nel suo “farsi”, il film come lavoro di set, di sceneggiatura scritta e
rimaneggiata direttamente sul posto, al momento delle riprese, resa elastica e
dirompente dalle dinamiche degli attori, dalla cinepresa a spalla che li segue
in ascolto, dai toni e dalle facce giuste, dai luoghi reali,
dall’improvvisazione, in qualche modo, che fa pensare ai momenti più liberi di
un Cassavetes.
È inidentificabile e apolide, l’operazione di Manuli.
Indipendente, certamente. Ma anche fuori dal tempo, allucinata, estranea al
caos contemporaneo, capace di stare sul crine di un cinema che
rilegge, con naturalezza e per pura necessità di espressione, le immagini
libere e fiammeggianti degli anni ’60 e ’70, quelle delle nouvelles vagues
impetuose e travolgenti (l’uso dello zoom a mano, furioso e selvaggio; un certo
montaggio sincopato; la macchina a spalla a seguire le camminate degli attori…),
ma anche quelle affacciate sul baratro di senso postmoderno della New Wave del
cinema francese anni ’80, dove le storie avevano meno importanza dei personaggi
(il rapporto uomo-donna tra i due protagonisti fa pensare al primissimo Luc
Besson, mentre la sequenza nel caffè, con i suoi ospiti bizzarri, è un misto
tra Godard e Beineix). E ancora i brevi e fulminanti quadri in cui i personaggi
si rivolgono direttamente alla macchina da presa, o il mondo del circo e delle
comunità nomadi, che fanno venire in mente il primo Kusturica.
La polifonia linguistica è un altro punto di forza del film, girato per un buon
70% da attori francesi in francese e con alcune battute di dialogo in inglese.
L’italiano diventa allora una lingua tra le tante, e neanche la più importante;
e tutto questo, inevitabilmente, porta al film un tangibilissimo quid di verità
in più…
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