lunedì 7 ottobre 2024

Girotondo, giro attorno al mondo - Davide Manuli

Giuliano perde il suo migliore amico per un'overdose di droga, entra in crisi, smette di drogarsi e, dopo un po', si innamora di Serena, una prostituta incontrata per strada.

il film è in bianco e nero, è sorprendente quasi come un thriller, ogni scena è memorabile, gli attori sono davvero bravi, e il regista, che anche ha scritto il film, non è mai banale e prevedibile.

il film è girato in Francia, qualche volta i dialoghi sono in francese.

un questo film eccezionale è straordinaria la vecchietta francese, nel suo dialogo con Luciano, in attesa di Serena.

un gioiellino da non perdere.

buona visione - Ismaele

 


 

 

 

L’emersione storica della pellicola appare la traslazione di ciò che viene raccontato al suo interno: è una storia da oblio, film non identificato dove i suoi protagonisti sembrano, sono fantasmi erranti, quindi morti: non c’è pace, l’estasi allucinata risiede nella musica a 140 bpm, non c’è luogo, le cartoline da mondi paralleli, e che siano discariche o cessi di bar di provincia poco importa, non c’è parola, inglese francese italiano, l’identità è incerta, multiculturale, spaccata, volatilizzata, eppure, sorprendentemente, c’è amore: sincero perché fra gli ultimi, fra due che hanno pestato il proprio passato, di lividi divenuti tatuaggi, trip lisergici, tipi psichedelici, ingenui (come ingenuo è l’ultimo dialogo) che però trovano l’amore, riemergono, e il dramma assurdo costellato da maschere pasoliniane sotto effetto di LSD diventa fiaba, sporca, fetida, laida, ma comunque, in qualche modo, con un lieto fine.

da qui

 

Erroneamente paragonato ad Amore Tossico di Caligari e a Trainspotting uscito pochi mesi prima, Girotondo è qualcosa di estremamente più radicale, senza il benché minimo orpello o aggancio pop, nemmeno così focalizzato sul fattore droga ma panoramicamente, desolatamente conficcato nel cuore di un disagio sociale più esteso e nel contempo più sottile e non semplificabile; senza inni pop e colori, con surreali, convoluti dialoghi quotidiani e martellanti musiche techno a scandire i malandati pomeriggi dei sopravviventi e sopravvissuti.

E’ un film retrospettivo sul dolore, un tributo (per usare le parole di Manuli“alle tante persone perse prima e durante le riprese”, dove il vagare senza meta e senza prospettive degli emaciati protagonisti (su tutti il bravissimo, iconico Curreli) tra Milano, Roma e Parigi diventa una delocalizzata, universale processione di disperazione ed ottundimento generazionale. Manuli torna a qualche anno prima, all’eroina e al vagabondaggio di ventenni e trentenni senza salvezza, allo spettro dell’Aids e della scomparsa di corpo e di pensiero. “Voglio lasciare un segno, ci sono passata anch’io su questa fottutissima terra”, grida una delle protagoniste di Girotondo, chiedendo di essere messa incinta da Angelo, sillabando così il devastante manifesto di una gioventù in evaporazione.

Un film condannato dalle leggi di mercato, ma a cui occorre restituire giustizia e di cui è impossibile non respirare l’anima, logora ma furente, di una generazione tradita. Un film che puzza di vita.

da qui

 

Luciano Curreli è Angelo, il protagonista, un personaggio bellissimo, fragile, aperto, che lascia la droga dopo aver perso il suo migliore amico e aver incontrato la prostituta Serena (Sarah Boberg), straordinaria nella sua bellezza di angelo ferito, luminosa e tagliente. Due attori, due volti capaci di bucare lo schermo e conficcarsi dritti nell’occhio della cinepresa e di riflesso nel cuore e nella testa di chi guarda.
Manuli racconta un mondo sfatto e ai margini, intriso di morte, dolore, vita, gioia, amore, droga, favola, comprensione, umanità, senza la benché minima ombra di retorica, affidandosi al linguaggio di una cinepresa che aderisce alla naturale fotogenia degli attori. Senza compiacimento, ma solo spinto da un’urgenza e una necessità palpabili. Così, lontano dalle edulcorazioni della fiction, tutto sembra vero, sentito, sofferto, vissuto. E in queste sue “aperture”, in queste sue fughe spericolate a cavallo di un racconto che procede per sussulti, squarci e passaggi di natura biologica più che logica, c’è tutto il film preso nel suo “farsi”, il film come lavoro di set, di sceneggiatura scritta e rimaneggiata direttamente sul posto, al momento delle riprese, resa elastica e dirompente dalle dinamiche degli attori, dalla cinepresa a spalla che li segue in ascolto, dai toni e dalle facce giuste, dai luoghi reali, dall’improvvisazione, in qualche modo, che fa pensare ai momenti più liberi di un Cassavetes.

È inidentificabile e apolide, l’operazione di Manuli. Indipendente, certamente. Ma anche fuori dal tempo, allucinata, estranea al caos contemporaneo, capace di stare sul crine di un cinema che rilegge, con naturalezza e per pura necessità di espressione, le immagini libere e fiammeggianti degli anni ’60 e ’70, quelle delle nouvelles vagues impetuose e travolgenti (l’uso dello zoom a mano, furioso e selvaggio; un certo montaggio sincopato; la macchina a spalla a seguire le camminate degli attori…), ma anche quelle affacciate sul baratro di senso postmoderno della New Wave del cinema francese anni ’80, dove le storie avevano meno importanza dei personaggi (il rapporto uomo-donna tra i due protagonisti fa pensare al primissimo Luc Besson, mentre la sequenza nel caffè, con i suoi ospiti bizzarri, è un misto tra Godard e Beineix). E ancora i brevi e fulminanti quadri in cui i personaggi si rivolgono direttamente alla macchina da presa, o il mondo del circo e delle comunità nomadi, che fanno venire in mente il primo Kusturica.
La polifonia linguistica è un altro punto di forza del film, girato per un buon 70% da attori francesi in francese e con alcune battute di dialogo in inglese. L’italiano diventa allora una lingua tra le tante, e neanche la più importante; e tutto questo, inevitabilmente, porta al film un tangibilissimo quid di verità in più…

da qui

 


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