lunedì 30 settembre 2024

Il primo uomo – Gianni Amelio

tratto dall'ultimo (inconcluso) libro di Albert Camus, Amelio racconta la storia di Jean, un ragazzino algerino francese che ce l'ha fatta.

Jean torna ad Algeri per trovare la madre, e ricorda la sua infanzia, quando gli aguzzini francesi opprimono e torturano i partigiani algerini, quando i bambini erano bambini.

e ricorda e va a trovare la madre, e anche il suo vecchio maestro, grazie a lui gìha studiato e ha potuto diventare un uomo di successo, in Francia.

il film riesce a non annoiare mai.

buona visione - Ismaele


  

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 


Un'opera raffinata e umanissima, in grado di rivendicare l'importanza della memoria non solo personale ma collettiva, una memoria che deve essere adoperata come strumento d'indagine delle contraddizioni del presente. Sotto questo punto di vista quindi un film che guarda al passato per farsi attuale e necessario. Cinema di qualità estetica elevata e d'importanza civile. Da applauso.

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Nel rielaborare il testo del premio Nobel, Gianni Amelio contamina l'autobiografia (sotto falso nome) di Camus con invenzioni ispirate (la scena dell'accalappiacani) e diversi aneddoti della propria infanzia. Confeziona così un film al contempo elegante e personale, che riprende ancora una volta il tema della paternità negata o assente, proiettandola nella Storia. La pellicola è al contempo una summa del suo stile narrativo: misura e controllo della recitazione, carrellate realizzate con la steadycam, campi e controcampi “televisivi” che si alternano a elaborate riprese lunghe. Il tutto con un cast misto di esordienti e attori di esperienza che gli permettono di superare tutti i limiti del biopic, dando vita a un lungometraggio toccante, impegnato e ricco di contenuti importanti. Notevole, dal primo all'ultimo minuto.

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 Il basso profilo della recitazione suona come un vistoso gioco di interni umani accarezzati e di rimosse speranze passate. Sì, perché il mondo che vive lo scrittore al ritorno è quello di un bambino riconosciuto (dentro), nel volto di Nino Jouglet (ridente ed efficace), che si allontana dalla sua casa per misurarsi con vie e dintorni vicini (sapendo bene che sua nonna usa maniere forti nei rimproveri). Come quando giocherella con i cani in gabbia e con altri ragazzini li libera tutti; ma il ‘signore dei cani’ (come un nomignolo di favole illustrate) non vuole sapere del suo candore (forse questa volta era nel giusto) e lo tiene rinchiuso nella sua gabbia per molte ore (lì di fronte all’orizzonte del mare con un’immagine che è degna di romanzi d’avventura, di fasulli eroi e di reconditi vezzi di fantasie aggrumate). Una scena di speranze passate e di livori presenti: rinchiudere il se e il ma in un connubio di intenti ideali. E sì che i bambini prima riescono a darsela a gambe scendendo dagli alberi in un nascondimento perenne e solitario mentre la loro corsa appare vivace e piena di cieli. La prigione del bambino Jean è di fianco al carrozzone di legno del Gatto e la Volpe (Franchi e Ingrassia) all’inizio del ‘Pinocchio’ di Luigi Comencini come il suo urlare è quello di Pinocchio che vuole assolutamente correre (e capire il mondo intorno) e avere le gambe di carne e ossa. Ma il suo sguardo fisso e attraente ricorda quello di Bruno (Enzo Staiola), un commiserato povero di famiglia di “Ladro di biciclette” o uno ‘sciuscià’ (Pasquale o Giuseppe del film di Vittorio De Sica) di strada che ha voglia di voler pulire le scarpe del suo folletto animo.
   Siamo negli anni venti quando il giovanissimo Jean andava a scuola e colloquiava con pochi e si menava con Hamoud Djamel Said) per ‘urgenze’ razziali e religiose. “Femminuccia”, mai dirlo ad un bambino che al minimo appiglio può partire senza pensarci e darl(se)le di santa ragione. Un bambino e il suo maestro, ciò che un ruolo non riesce dimenticare e quando quel ruolo ricorda una frase di una vita: “ogni bambino contiene già i germi dell’uomo che diventerà“ (quell’incontro dopo tanti anni è suggestivo non nel luogo e nei modi ma nel profondo delle vite di due persone oramai avanti negli anni).
   Ma i fatti narrati e il riassunto di uno scrittore (seppur famoso) non possono essere la cartina da tornasole di un paese e della sua civiltà. “Chi scrive non è mai all’altezza di chi muore”: qui sta il nocciolo importante e fondamentale di un  gruppo o di una nazione che aspetta fatti più che giochi romanzati. E così che l’approccio di Jean adulto all’Università (di fronte agli studenti) è solo tradimento per chi li ha lasciati ed è diventato famoso scrivendo in terra ‘straniera’ (la Francia di cui ogni comunicazione coloniale si vorrebbe tranciare). Sì appare e lo è un tradimento irreparabile, una sconfitta di un ideale e una denigrazione del suo popolo (è proprio vero che più volte, quando si torna nella ‘propria casa’ di origine, i nemici attorno crescono e l’invidia cova sotto la cenere…).
   E sì che Amelio riesce a mettere una passione dirompente lungo tutta la pellicola nonostante pare tutto un susseguirsi di schemi ameni ed inermi: i visi, le gesta e i dialoghi rivelano un pastoso animo ‘filmico’ in subbuglio. Tutto in merito destabilizzante e meno in luci sgargianti: l’uomo isola se stesso e sconquassa l’intorno comunque. Devastante lo scandagliare i visi e i loro interiori modi con traini e spinte narrative affrante e salivari. Un film pieno di istantanee perse e ritrovate da ciascuno. E una sedia, un tavolo e un bicchiere vuoto che cade tra le mani di Jean (adulto) subito viene rimesso a posto: un silenzio e un piccolo rumore assordante con le voci in sottofondo di una bevuta in lontananza di un bambino vicino al mare (“Il ladro di bambini” e la scena in spiaggia con bicchieri che si annodano tra le mani); nello stesso tempo il bambino assapora il gusto marinaresco tra la mamma e lo zio in un colore ammantato di vapori (in)passato in un lungo riva di stile che fu e di nostalgia stantia. Il gusto mescolante di posti, luoghi, tempi e film diversi desta nello spettatore un’allegoria e una fantasia acclamato ria fuori da ogni gesto autoreferenziale e acclamante. Una regia sobria, delicata e di grande efficacia rendono i posti fermi e compatti come se i vari personaggi fuoriuscissero a piacimento per scorrere nei percorsi temporali e spaziali. Su accorgimenti carezzevoli e piani immagini a spirale nelle profondità interne non certamente negli allunghi di un teleobiettivo imbastito di presente-passato come fuorilegge di colori festanti nell’orizzonte chiuso da un aborto ignoto. Quello che non si vede è il senso profondo della fine e del tempo inesistente. Un giorno che sta volgendo alla fine: una sera estiva per Jean adulto, una sera autunnale per sua madre e i ricordi sempre più sottratti…

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Il film, nel suo passare continuo e fluido tra presente e passato, tra anni '20 e anni '50, mette in scena l'impossibile integrazione di francesi e algerini lungo più di 30 anni, raccontando il colonialismo strisciante di Parigi e dei suoi generali, il fascismo culturale delle istituzioni e della scuola e le figure che con umile dignità seppero ribellarsi alle costrizioni, se non quelle politiche, almeno quelle umane.
Decisamente mi sembrava a tratti di vedere un film di Rossellini, maestro nel raccontare in soggettiva di bambino (non so se qualcuno di voi ha visto lo splendido Germania Anno Zero).
Descrivere la realtà guardandola con gli occhi di un bambino e riuscirci con tale risultato, e comunque descrivere la realtà con tutte le complesse sfumature sociali politiche, umane con tale dovizia di particolari e sensibilità, fa di Amelio (e lo ha già dimostrato più volte) colui che in qualche modo continua il percorso intrapreso da Rossellini...Bellissimo film, davvero, altamente consigliato anche per chi non conosce D'Amelio, un'occasione per pensare di andare a rivedere capolavori come "Lamerica", "Ladro di bambini", "Cosi' Ridevano"...

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venerdì 27 settembre 2024

I tre volti della paura – Mario Bava

tre episodi che valgono come tre film, densi e convincenti.

tre storie davvero ben scritte e ben dirette, un film da non perdere, fra i preferiti di Quentin Tarantino.

la paura non manca, ed è filmata benissimo.

un film da non perdere.

buona (paurosa) visione - Ismaele

 

 

 

QUI si può vedere il film

 

 

 

Come accade sempre con Bava ciò che maggiormente colpisce è la straordinaria messa in scena: le luci, gli arredamenti, i costumi, tutto ha il suo inconfondibile tocco gotico. Il primo episodio ruota attorno a una persecuzione telefonica, il secondo al vampirismo, ma è sicuramente il terzo quello più riuscito e spaventoso, con protagonista il cadavere di una vecchia contessa dall'aspetto inquietante. Divertenti sia l'introduzione che (soprattutto) la conclusione della pellicola, girate in studio. Cult.

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Tre frammenti del gotico italiano e tre lezioni di regia. Con il primo - “Il telefono”- Bava si fa moderno cantastorie, con una storia fredda, pungente che circoscrive lo spazio e il tempo dell’ossessione persecutoria. “I Wurdalak” invece punta la sua carica terrifica tra le ramificazioni di vecchie leggende e maledizioni millenarie. Con “La goccia d’acqua “, il migliore della trilogia, la decadente dimora di un’anziana signora deceduta prende vita, e con essa un intrecciarsi di spiriti e anime inquiete da far gelare il sangue. Stilisticamente, poi, ha ancora molto da insegnare.

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Il primo episodio è un thriller con qualche influsso hitchcockiano, avanti sui tempi nel rappresentare in maniera abbastanza esplicita una relazione lesbica, mentre nel secondo, una classica storia di vampiri, e nel terzo, ghost story dai risvolti psicologici, prevale l'elemento soprannaturale che permette di dare libero sfogo alla fantasia di Bava. L'attore mito del genere horror, l'originario mostro di Frankenstein Boris Karloff, è protagonista, oltre che dell'episodio centrale, anche del prologo e del finale che incorniciano il film, ove rompendo la quarta parete si rivolge direttamente al pubblico e, in chiusura, disvela con ironia il trucco cinematografico…

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Antologia del terrore di un maestro, che non vi farà rimpiangere l'ora e mezzo impiegata per visionarlo.

Diciamoci la verità: andando a chiedere a caso alla gente chi è Mario Bava, secondo voi la maggioranza lo conosce? Ma potrei anche chiedere chi è Lucio Fulci, Antonio Margheriti,Riccardo freda,Joe D'Amato (oddio, forse qualcuno che ha vissuto negli anni 70/80 se lo ricorda...). Quelli che li conoscono, tra cui io, siamo debitori di Quentin Tarantino: nelle sue varie conferenze stampa ha citato alcuni di questi film dei registi sopraelencati, tra cui zombie 2 e questo, I TRE VOLTI DELLA PAURA, la cui struttura lo ha ispirato per il suo capolavoro PULP FICTION. Tornando alla domanda principale, questi registi sono stati quasi dei rivoluzionari nella cinematografia horror, tanto che in America sono molto più conosciuti (e anche più apprezzati)…

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Mario Bava è un regista che ha avuto molto meno di quello che meritava. Fa sorridere come alla fine del film egli ci mostri il "trucco" dietro tutto, e fa senso pensare come con cosí pochi mezzi riuscisse a creare certi pezzi di cinema che hanno influenzato molti registi a venire. Il primo episodio è pura suspence Hitchcockiana, mentre il secondo è l'arte dell'inquadratura; seppur senza un soldo l'ambientazione è credibilissima, e il ritmo lento riesce a farci sentire il freddo di quei boschi e l'ansia respirata dai protagonisti. É un susseguirsi di trovate geniali che fanno sembrare il film come appena uscito, grazie ai suoi tocchi surreali e fuori dal tempo è invecchiato benissimo. Il terzo episodio è quello che incute più ansia, anche qui le trovate geniali si susseguono: il temporale che crea illogicamente bagliori di luce verdi a cadenza regolari (Dario Argento prenderá spunto) e terrificanti manichini usciti dall'aldilá, la morale della storia è quasi black humour e senza scampo. I gatti che infestano la magione della medium defunta mi ricordano un certo Tim Burton, che sia sia ispirato da qui per la casa della sua Catwoman?
Il titolo inglese del film, Black Sabbath, ispirerà gli omonimi padrini dell'heavy/doom metal  capitanati da Ozzy Osbourne. Che stile ragazzi!

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giovedì 26 settembre 2024

La misura del dubbio - Daniel Auteuil

l'avvocato Jean Monier (interpretato da Daniel Auteuil) s'innamora dell'idea che Nicolas Milik (interpretato da Gregory Gadebois, già conosciuto in Angèle e Tony).

e per tutto il film Nicolas sembra un brav'uomo, capitato in una storia più grande di lui, Jean Monier ci convince.

ma non tutto è quello che sembra.

un altro film nelle aule giudiziarie, non annoiano mai.

da non perdere un film a sorpresa.

buona visione, al cinema - Ismaele

 

 

 

 

Con un finale scioccante La misura del dubbio, dal sapore internazionale, coinvolge dalle prime inquadrature, raccontando una storia di vita e di giustizia. Un film che ruota attorno al concetto di realtà, quella più astratta e interiore che si fa strada ancor prima del bisogno di agire. Con riprese dall’alto delle paludi, delle distese di sabbia, dei laghi e dei canneti che caratterizzano la Camargue. Così come le riprese oniriche dei tori camargue, tipici della zona, che simboleggiano tutta quella violenza che avvocato e imputato, insieme contro tutti, sentono addosso. Il toro che carica è quella carica emotiva che arriva, urta, investe e in qualche modo porta a un termine, a un punto, a una fine. Tra flashback, frammenti di memoria e dialoghi contraddittori, il caso del film appare dapprima come tristemente simile a molti altri, rivelandosi poi più complesso, inestricabile e aggrovigliato, semplificandosi solo quando quella verità tanto dibattuta giunge inaspettata e improvvisa…

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Senza nulla togliere a Daniel Auteuil che qui si supera imperioso e magistrale tra scrittura, regia e interpretazione, ma La Misura del dubbio (in originale Le Fil) possiede quella inimitabile e corale credibilità attoriale e quella solidità generale di messa in scena che il cinema francese sembra avere oramai da decenni per default. Nel 2017, in una Camargue arida e invernale, l’avvocato Jean Monier (Auteuil) prende per caso la difesa d’ufficio di Nicolas Milik (Gregory Gadebois, superbo), un omone padre di tre figlie e due figli, marito di una donna alcolizzata violenta e imprevedibile che è stata trovata morta con la gola tagliata poco fuori dal paese in cui abitano…

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mercoledì 25 settembre 2024

Sembra mio figlio – Costanza Quatriglio

Ismail e il fratello Assan sono afgani, vivono a Trieste, una vita quasi normale, fino a che non ricevono una telefonata, la loro madre è in pericolo.

Ismail parte e quello che trova è terrivile, qualche delinquente raccoglie in una prigione, o qualcosa del genere, vedove e poi chiede un riscatto ai familiari per rilasciarle.

alla fine il film è quasi un documentario.

un film da non perdere.

buona (afgana) visione. - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Ismail con la sua patria di nascita conserva ormai soltanto il legame con la madre, tenuto vivo attraverso il telefono, ma dalle ultime chiamate capisce che c’è qualcosa che non va per il verso giusto. Del suo paese ha ereditato gli occhi, un segno di riconoscimento, ed altre inconfondibili caratteristiche fisiche, un carattere silenzioso e poco espansivo, in Europa ha un lavoro, delle amicizie, anche altro che potrebbe essere doloroso abbandonare (si sta innamorando), e tutto lascia propendere che sia impensabile fare marcia indietro verso il passato. Costanza Quatriglio fa in modo che la tensione, lo stato di crisi del protagonista emerga molto lentamente, servendosi della figura chiave di Assan, fratello di Ismail, un individuo guidato dai precetti della fede, rigidamente ortodosso ed inquieto, immergendo tutto in una atmosfera quasi di torpore, che lascia intendere qualcosa di silente in procinto di essere svegliato. Di lui si serve la regista per seminare l’agitazione ed arrivare al decisivo punto di svolta narrativo della storia: Ismail per ritrovare la madre dovrà andare lì, in quei luoghi da cui è dovuto scappare, e tra il Pakistan e l’Afghanistan cercare di rintracciare sua madre, ammesso non sia nel frattempo caduta nelle mani sbagliate, vittima della tragica sorte che aspetta le vedove di guerra hazare, una sorte che sin dall’antichità non è cambiata molto, e consiste nel trasformarle in merce di scambio…

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lunedì 23 settembre 2024

Finalement - Claude Lelouch

Kad Merad (che interpreta Lino Massaro) è l'attore perfetto per il ruolo di un avvocato che lascia tutto per vivere un'altra vita, malato di follia dei sentimenti.

non ne può più della vita di successo e di menzogne, e fugge, calandosi ogni volta nei panni di un'altra persona .

ed è molto convincente, tutti ci credono, che Lino sia un suonatore di tromba o un regista di film porno.

un film "libero", di quelli che non ti aspetti, e per questo vale molto.

solo in una cinquantina di sale cinematografiche, da non perdere.

buona (folle) visione - Ismaele


 

 

Come sempre (o quasi) con l'occhio attaccato dietro l'oculare della camera ("perché Van Gogh non cedeva il pennello ad altri") e con la partecipazione nei confronti degli attori a cui non fa leggere tutta la sceneggiatura ma che segue ovunque. Di lui Jean-Claude Brialy ha detto: "Come un amante appassionato segue in permanenza i suoi attori con la sua macchina da presa. È sempre con voi, vi sbagliate di porta, rientrate in un armadio a muro e la macchina da presa è già nell'armadio! E se questo imprevisto gli piace lo mette nel film."
In questa occasione il titolo potrebbe far pensare ad un'opera intesa come ultima ma il senso che lui gli dà non è quello. È semmai quel senso di liberazione che la parola contiene, quel 'finalmente' potersi esprimere senza quei vincoli che la società impone o cerca di imporre. In prossimità della fine se ne trova l'esempio più provocatorio e sottile.
C'è però indubbiamente il piacere del citarsi, del ricordare, magari inserendo in un dialogo un titolo di un suo film, che la follia dei sentimenti è un'affezione che ben conosce e di cui non si vuole affatto liberare. Così come vuole tenere vivo il ricordo non solo di un attore ma anche di un amico chiamando il suo protagonista Lino e omaggiando in più di un'occasione il Lino Ventura protagonista del memorabile 
L'avventura è l'avventura (a tal proposito lasciate anche scorrere tutti i titoli di coda).
Ma, da uomo di cinema a 360° qual è, non cita solo sé stesso e le proprie opere. Ad un certo punto diventerà centrale un film di un altro autore. Sarà interessante e anche curioso scoprirne il perché.

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A volerla sintetizzare, la trama di Finalement dice tutto e niente, il che permette di capire quanto il cinema di Lelouch, orizzontale per la sensibilità popolare e verticale per l’autorevolezza dello sguardo, sia arrivato a un punto in cui può astenersi dall’incasellare, rinunciare al dovere didascalico, pretendere che le linee procedano in modo retto anziché curvando.

Come già nei suoi ultimi film, Lelouch prende per mano le presenze care del suo cinema, che siano quelle che hanno camminato a lungo con lui (Aimée e Trintignant o Johnny Hallyday, la stessa Fabian) o le più recenti (Sandrine Bonnaire, Elsa Zylberstein, Michel Boujenah, Clementina Célarié), e le accompagna in un gioco in cui riannodare i fili per slegarli un attimo dopo, trovando ancora una volta nella musica la chiave d’accesso per dare un senso all’incomprensibile. La folie des sentiments, appunto, come recita il sottotitolo iniziale poi messo da parte, come una delle canzoni che intona Barbara Pravi, che porta il film nel musical: che piacere, che levità, che spessore.

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Lino Massaro è un avvocato di successo in preda a una crisi profonda, forse dovuta a un’incipiente demenza lobo frontale. La verità è che non è soddisfatto più della sua vita, il lavoro, la famiglia, i rapporti. Tutto gli sembra menzogna e tutto gli sta stretto, come un paio di scarpe troppo piccole. Perciò decide di partire e di far perdere le proprie tracce. Inizia un lungo vagabondaggio da Mont Saint-Michel ad Avignone, facendosi passare di volta in volta per prete scomunicato, regista di film porno, trombettista dilettante… Nel frattempo la moglie, i figli, la madre, gli amici si affannano nelle ricerche. Ma è tutto vero o si tratta in gran parte di sogni, di fantasie allucinate? Poco importa, perché in questa favola musicale, come viene definita sin dai titoli di testa, saltano completamente gli equilibri di scrittura e le connessioni logiche tra gli accadimenti. Finalement procede per scene slegate, momenti ritmici autonomi e poi giustapposti, come una libera improvvisazione jazz. Si disperde nelle svolte imprevedibili della trama, a volte davvero assurde, in frammenti di storie secondarie che sono altrettanti film in potenza, appena accennati (lo sbarco in Normandia, la storia della piccola ebrea salvata dalla portinaia), in momenti completamente assorbiti dalle note e dalle parole di una canzone, in schegge di musica e di teatro. E di cinema, ovviamente. Che viene in ogni istante citato, interpretato, rimontato. Amato. Dai discorsi su I ponti di Madison County e La grande illusione, allo splendido, strampalato omaggio a Lino Ventura, che contorte nelle vicende di Finalement è il padre del protagonista, un vecchio gangster morto in carcere. E che riappare grazie alle immagini di L’aventure c’est l’aventure, insieme Aldo Maccione, Jacques Brel, Charles Denner, e di La bonne année (Una donna e una canaglia), insieme a Françoise Fabian, che non a caso qui è la madre di Lino Massaro. È la trovata di Claude Lelouch per riattraversare il proprio cinema, per rimetterne in gioco i volti, i corpi, gli umori, i toni. Così, pur se gran parte del film si regge sull’interpretazione di Kad Merad, è il regista il vero mattatore. Preso dalla smania di abbracciare tutto il suo modo, di offrirlo, ancora una volta, agli spettatori, si abbandona a una foga che può anche essere retorica, con gli infiniti momenti a cuore aperto, con tutte le frasi a effetto: “conta solo amare ed essere amati”, “l’amicizia è l’amore senza i casini”, “meglio aver noie che la noia”.  Il risultato può anche sembrare squilibrato, caotico. Ma più di una volta ci regala un sorriso e una lacrima. Non è ancora la fine.

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domenica 22 settembre 2024

Il sasso in bocca – Giuseppe Ferrara

un documentario/film sulla storia della mafia in Italia.

la mafia nasce come sicario di chi sta in alto, potere politico, e statiunitense.

un film denso di informazioni e suspence.

buona (mafiosa) visione - Ismaele


 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

Eccezionale, da visione obbligatoria per un italiano. Si tratta, e bene, della mafia: uno di quegli argomenti che non si devono mai trattare in modo competente, per interesse della classe dirigente politica ed economica italiana. E qua se ne offre una tesi che apparirebbe forse la più convincente: la mafia avrebbe ottenuto potere grazie all'impunità che sarebbe stata garantita dagli Usa. Gli Usa non potevano fare a meno della mafia per passare in Europa e vincere la seconda guerra mondiale, e così controllare la maggioranza del mondo di 70 anni fa, e anche di oggi: e allora hanno concesso ogni potere locale, anche politico oltrechè economico, alla criminalità organizzata. Con le conseguenze nefaste per lo stato italiano che poi si sono verificate, tipiche di uno stato servo, privo di reale sovranità. Il legame fortissimo tra mafia e capitalismo è poi reso con chiarezza, anche con il suo passaggio tramite il fascismo, ma non solo. Tale studio della mafia è auspicabile che venga esteso anche alle università e ancora di più alle scuole, affinchè divenga parte imprescindibile del bagaglio culturale di ogni elettore italiano. Se poi le tesi contenute in questo film siano veritiere o no, lo si può giudicare solo da parte di persone competenti: che hanno appunto approfondito la questione senza dare aprioristicamente precedenza a nessuna tesi in particolare, fosse essa legata al potere reale o no. Insomma, su cose così fondamentali non conviene nè essere ignoranti, nè distorcere la realtà: ne va della propria dignità di persone libere e aspiranti alla felicità.

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Spesso criticato all'eccesso, il primo lungometraggio di Giuseppe Ferrara è un esperimento insolito e coraggioso, specialmente se si considera il periodo in cui fu realizzato. Bollato come regista schematico e didascalico anche nei suoi film successivi, qui l'autore toscano lo è volutamente, poiché gli interessa lanciare un messaggio, che nel 1970 non è per niente scontato: basti pensare ai collegamenti che Ferrara fa tra la mafia e gli omicidi, molto ravvicinati nel tempo di Enrico Mattei e J. F. Kennedy.

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Cinema stilisticamente rozzo ed inattendibile. È da questa opera prima che si originano tutti i problemi del cinema ferrariano: tutti i pregi e tutti i difetti sono già ben ravvisabili, e le contaminazioni in campo (realtà e finzione, analisi e sintesi, documentario e fiction…) non sempre funzionano. A conti fatti, Il sasso in bocca manca di rigore, fors’anche di passione (ma non civile) e soprattutto di linearità. Semplicistico e complicato, artefatto e schematico, il primo opus della carriera di Ferrara risente certamente del suo sperimentalismo ardito e quasi eroico, ma non basta.

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Pseudo mondo movie a tema mafia, che ti entra dentro come una lama di coltello affilata sin dall'incipit con i bulbi oculari asportati e ben esibiti alla mdp (tipico del Ferrara esasperare l'aspetto grandguignolesco della vicenda di sangue). Da Costello a Giuliano, dalla borsa a Scelba, un susseguirsi di codici e infrazioni ai medesimi, di uomini d'onore e relative punizioni (per tutte la morte del capo di Cosa Nostra sol perché calabrese e non siculo). Stupendo!

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sabato 21 settembre 2024

L'orribile segreto del dr.Hichcock - Riccardo Freda

il dr. Hichcock è un bravo dottore, ma gioca col fuoco, le sue mogli non se la passano bene.

il film è ambientato in una villa piena di mistero e segreti, con una governante "gotica" come la casa.

musica d'autore, di Roman Vlad.

un film che non lascia tranquillo, da non perdere.

buona visione - Ismaele



QUI si può vedere il film completo



 

Il genere gotico in Italia nacque intorno agli anni '60 grazie ai contributi di Mario Bava e di film come questo, di Riccardo Freda, col comune denominatore costituito da mezzi e fondi risibili, sceneggiature non impeccabili e compensate da un certo gusto per la scenografia e talento registico, doti purtroppo misconosciute in Italia e invece molto apprezzate all'estero; qui, inoltre, gli attori offrono prove convincenti, con l'icona del genere Barbara Steele e Robert Flemyng nei panni di Hichcock. Se da un lato è comprensibile che 50 anni dopo L'orribile segreto del dottor Hichcock e altri film congeneri del periodo non facciano più davvero paura, dall'altro sono da apprezzare la visionarietà e le innovazioni apportate da queste opere; da riscoprire, se non altro per capire che l'horror italiano non è stato solo Dario Argento...

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Nell’ambito dell’operazione di recupero del cinema popolare all’italiana di cosiddetta serie B (se non altro per impegno produttivo e circuito commerciale), L’orribile segreto del dr. Hichcock ha un posto d’onore e ha guadagnato nel corso degli anni un invidiabile stato di culto. Sarà forse perché il seme del culto è piantato sin dal titolo, così sfacciatamente allusivo ad una certa idea del cinema di tensione (molti omaggi al maestro inglese), sarà per le condizioni di lavoro che hanno un qualcosa di epico se non grottesco (girato in una villa ai Parioli, praticamente distrutta, in dodici giorni), sarà per il proverbiale talento di Freda sta nel fare di necessità virtù e di realizzare grandi effetti con due soldi.

Il film ha una sua splendida rozza efficacia per tre ragioni sostanziali: il tema della necrofilia, quantomeno inconsueto se non proprio tabù tuttora; il gusto gotico-horror che fa dell’assurdo la propria cifra essenziale; gli effetti visivi che di speciale hanno solo la maestria tecnica di consumati artigiani (giochi di luci e carrellate in prevalenza). Con, oltretutto, approfondimenti psicologici inseriti in una cornice tetra e raffinata, resta una tappa fondamentale del cinema dell’orrore all’italiana, seminale per almeno due generazioni di cinefili. Visto in una disgraziata copia 35mm disperatamente affascinante, come in un drive in della provincia americana degli anni sessanta.

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Tenebroso, sofisticato ed allucinato (le espressioni dipinte sul volto del professore), prodotto dell'epoca creativa italiana. Accompagnato da un tema musicale che sa di morte/o, come una serenata al defunto e al suo odore. È una sottile nenia malata e oscura che conduce alla maledizione ed al trapasso; ma quest'ultimo viene vissuto come una esperienza eccitante e seducente. Non è esplicito (per le risapute ragioni) e per questo non trova il podio tra le pellicole antiche e disturbanti: per qualcuno un pregio, per altri un limite. Genio e sregolatezza.

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giovedì 19 settembre 2024

Abuso di potere - Camillo Bazzoni

la polizia ha gravi difficoltà e richiama in servizio il commissario Luca Miceli per risolvere un caso delicato, l'omicidio di un giornalista.

il commissario ha metodi poco garantisti per i delinquenti, ma solo i pesci piccoli sono imputabili, ma i capi mafia sono intoccabili.

come fare a non sostenere il commissario?

buona (rassegnata) visione - Ismaele




Bazzoni importa con mestiere la figura del poliziotto alla "Dirty Harry" poco avvezzo alla disciplina e la consegna in eredità ai professionisti del poliziottesco che stavano già scaldando i motori. La storia di mafia ha obiettivi piuttosto generici ma si segue senza mal di testa, anche se a Stafford manca il carisma degli emuli più famosi, tanto che rimangono più impresse le figure dei "cattivi". Discreta la regia che si muove bene fra intrighi e qualche momento action non disprezzabile. Non altissimo il ritmo ma il film riesce comunque a guadagnarsi una risicata sufficienza.

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Date retta: s'è visto di peggio. La trama è piuttosto "classica", per quanto riguarda il poliziesco di serie B, compresa l'incazzatura del commissario protagonista con i superiori e con il magistrato di turno troppo garantista e/o corrotto. A reggere la baracca contribuisce anche l'interpretazione del non disprezzabile attore praghese Frederick Stafford, il cui personaggio è chiaramente ricalcato sulla figura del commissario Calabresi, che in quel 1972 assurse, suo malgrado, agli onori delle cronache. Lo ricorda dalla sagoma, ai maglioni dolcevita, alla tragica fine.

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L'omicidio del giornalista Gagliardi (Umberto Orsini) nasconde motivazioni più profonde del banale delitto passionale, destinato a chiudere il caso. Per andare in profondità il Questore (Reinhard Kolldehoff) attribuisce il caso al determinato commissario Luca Miceli (Frederick Stafford) il quale, senza alcun riguardo per le formalità, arriva a scoprire un traffico di droga. Non solo, Miceli arriva a individuare in un locale da gioco clandestino -centro e motore di connivenze tra  criminalità e istituzioni deviate- Rosenthal (Corrado Gaipa), un boss del narcotraffico nascosto dietro falsa identità e ufficialmente impegnato in attività da usuraio…

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mercoledì 18 settembre 2024

Napoli violenta – Umberto Lenzi

Umberto Lenzi gira un film con ottima sceneggiatura, come ottima è la musica.

attori bravissimi, scene d'azione memorabili, un grande regista riesce a girare un gioiellino da non perdere.

buona (violenta) visione - Ismaele

 

  

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Grandissimo. Lenzi in stato di grazia non si limita unicamente a girare inseguimenti serrati fra le strade di una Napoli fotografata benissimo, ma offre intere sequenze action che mandano in visibilio ogni cellula corporea. La violenza, funzionale per storie di vita e malavita, ha un paio di picchi notevoli che sfociano nel gore più truculento. Merli - assoluto - sforna una prestazione fisica magistrale, tale da far amare senza condizionamenti il personaggio interpretato. La sceneggiatura è fra le più coerenti e riuscite del filone. Micalizzi divino.

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Grande poliziottesco, tra i migliori del genere. Diretto in maniera assolutamente efficace da Lenzi e dotato di un ottimo cast, dal grande Maurizio Merli (qui forse nel suo film migliore) a una serie di bravi attori secondari. Sceneggiatura non troppo originale ma godibilissima. Molte le scene memorabili, dalla sequenza della funicolare all'omicidio al bowling. Colonna sonora da applausi. Da non perdere.

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Fantastico,inimitabile cinema.Quando ancora,nel nostro paese,esisteva un cinema
che valeva(e vale)piu'di quello attuale,fatto di tante chiacchiere inutili e
sterili esercizi d'autore.Dove tutti si credono Autori e,alla fine,scava scava
sono solo dei poveri mentecatti.Negli anni '70,grazie a film come questo si
potevano produrre le opere dei Grandi Maestri,i quali,spendendo soldi a caso,
molto spesso tonfavano al botteghino.Quanti autori con la A maiuscola dovranno
dire grazie al sottobosco italiano ?Secondo me troppi.Pietra miliare indiscussa
del cinema d'azione,un serrato,bellissimo,avvincente poliziesco che,a distanza
di trent'anni riesce ancora ad avvincere ed a emozionare.Merito sopratutto di
un copione di ferro e della regia magnifica di Lenzi,che costruisce diversi
momenti di grandissimo cinema,primo fra tutte la sequenza,girata dal vero,nel
traffico di Napoli in moto,ad alta velocità.Merli consegnato di diritto alla
leggenda,specie nella scena della funivia,girata senza controfigura.Perfetti
anche Saxon,Zamuto e il vecchio Sullivan.Grande,irripetibile cinema. CULT

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Ottimo esempio del poliziesco italian style che era diffusissimo negli anni 70:certo la concezione che il commissario Betti ha della giustizia è molto al di sopra della legge(per usare un eufemismo),i personaggi sono tagliati con l'accetta,alcuni passaggi inutili nell'economia del racconto ma il film avvince soprattutto nelle spericolate scene d'azione(le sequenze sulla funicolare sono eccellenti come quelle in moto).Mettici un paio di divi americani in trasferta pagata e il film è servito.

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martedì 17 settembre 2024

Da uomo a uomo - Giulio Petroni

Bill è l'ultimo sopravissuto allo sterminio della sua famiglia e cresce pensando di vendicarsi. 

trova un alleato decisivo in Ryan, anche lui, dopo 15 anni di prigione, desideroso di vendicarsi.

un western come si deve (distrutto da Roger Ebert e amato da Quentin Tarantino, ognuno ha i suoi gusti).

buona (vendicativa) visione - Ismaele

 

 

 

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Bel western, giudicato da Tarantino come il film modello per i revenge movie all'italiana. L'opera si apre con un inizio dilatatissimo dalle scenografie horror (notte, pioggia e vento che ulula continuo), prosegue con una sequenza da poliziottesco in cui vediamo il protagonista esercitarsi con la pistola e rientra poi nei binari del western all'italiana alla Leone (da cui vengono ereditati anche gli attori feticcio Luigi Pistilli e Mario Brega). Molte le citazioni da "Per qualche dollaro in più" (parte finale in cui Van Cleef e un giovane Law che - anche se sbarbato - si atteggia alla Clint Eastwood collaborano tra loro in un villaggio fantasma dopo essersi boicottati a vicenda per tutto il resto del film, facendo fuori uno a uno tutta la banda contro cui si schierano) a "I giorni dell'ira" (Van Cleef che da lezioni al protagonista) e "Un dollaro bucato" (protagonista legato e costretto a restare al sole dopo avergli fatto ingerire una manata di sale), proseguendo per un finale in cui viene richiamato anche "Sette dollari sul rosso" (Van Cleef che rifiuta il duello con Law dandogli le spalle mentre l'altro lo invita a difendersi). Spassoso e tipicamente da b-movie lo spiazzo deserto dove compaiono teschi e volti mummificati che anticipano la tortura prediletta dai messicani del posto: sotterrare fino al collo le vittime e lasciarle cuocere dal sole…

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Una banda di fuorilegge assalta una fattoria, uccidendo e violentando gli abitanti della stessa. Si salva il piccolo Bill, passerà il resto della vita ad attendere la sua vendetta. Western spaghetti di discreta fattura, consigliato a chi ama il genere.

Spaghetti western condito con tutti gli ingredienti del caso, alcol, vendetta, machismo. L'attore protagonista è abbastanza scialbo e forza il suo personaggio, privo di un suo fascino naturale ma compensano i co-protagonisti ed il buon Lee Van Cleef. Discreta la sceneggiatura e non male anche la colonna sonora a firma di Morricone; nel complesso un prodotto apprezzabile.

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Alas, it generally takes two hours for these connections to be established. But in the meantime, sitting there in the dark, watching this bad Western on a Saturday afternoon, you get an autobiographical feedback. You reestablish contact with yourself at the age of 10, when you sat through dozens of exactly such bad Westerns (only not so violent, although they seemed violent enough). And contemplation of this sort, the mystics assure us, is necessary for psychic well-being.

You can also reflect upon the fates of Lee Van Cleef and John Phillip Law. It is one thing to hurtle into stardom as a result of spaghetti Westerns, as Clint Eastwood did. But it is another thing to remain stuck in them. Van Cleef’s face, in closeup, has the lean, hardened, embittered expression of a man who has either (a) been pursuing his lonely vengeance across the plains of the West for 30 years, or (b) realizes he will be making spaghetti Westerns the rest of his life. These two feelings are nearly indiscernible.

But Law still retains a certain innocence. His eyes are blue, his face unlined, his cheekbones the sort we expect on a young and stubborn hero. He usually wears suspenders in these movies (just as Eastwood smokes cigars and Van Cleef a pipe), and they give him a naive earnestness. We feel that he will doggedly obtain revenge, wipe out the bad guys and return to Hollywood some day. We are on his side. No wonder. He needs us.

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lunedì 16 settembre 2024

La corta notte delle bambole di vetro - Aldo Lado

un giornalista ancora vivo, ma ormai per tutti morto, racconta la sua storia e le sue indagini su misteriosi casi di sparizioni di giovani ragazze. 

girato fra Lubiana, Zagabria e Praga, opera prima di Aldo Lado, è un film politico, il Potere (necrofilo) si nutre di carne e sangue freschi, ha bisogno di uccidere per restare in vita (si pensi alle centinaia di migliaia di morti in Ucraina, su ordine di Boris Johnson e Joe Biden, che si nutrono di quelle vite spezzate, lotta per il potere, politico ed economico, a qualsiasi costo, senza avversari, finora).

il giornalista riesce ad arrivare a un club esclusivo, dove vengono compiuti i sacrifici umani, in una scena impressionante e angosciante.

un gioiellino da non perdere. 

buona visione - Ismaele


 

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Raffinatissima opera scritta e diretta da un ispirato Aldo Lado, che mescola tematiche gotiche a doppi sensi politici, senza mai cadere nello snobismo. Al contrario, dirige un film fruibile in entrambi i casi, inserendo elementi misterici (il numero cabalistico 99, la struttura in vetro che rappresenta un demone, il significato simbolico delle farfalle) a chiari sottotesti politici. Il protagonista addormentato, posto in stato di "sonno freddo", per Lado rappresenta una metafora. È assimilabile, per condizione, alle persone consapevoli e contrarie al "regime" ma impossibilitate a reagire, a ribellarsi allo status quo. Durante la cerimonia finale questo aspetto viene opportunamente svelato dal prof. Karting, Gran Sacerdote della setta ed esecutore della pena al tempo stesso. La condanna riservata al protagonista, inizialmente concepita come sepoltura prematura, è infatti stata mutata in autopsia, da eseguirsi sul corpo di Gregory in un'aula universitaria, a mò  di esempio sul destino di chi si oppone allo status quo. Lado realizza poche sequenze nella suggestiva Praga, riprendendone anche i monumenti, ma trova difficoltà con le istituzioni locali, tanto che per giustificare il girato finge di realizzare un documentario e per portare a termine le scene in esterni si sposta in Croazia, a Zagabria. Eccezionali gli interpreti, in particolare, oltre a Jean Sorel, il sempre ottimo Mario Adorf, in una parte di contorno ma significativa…

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‘La corta notte’ é una storia dove si intrecciano generi diversi (horror, thriller, spy story), ma si tratta solo della tessitura di una rete narrativa in grado di catturare lo spettatore per condurlo li dove il regista vuole portarlo. Dal momento in cui le luci si spengono Lado ci getta dentro l’orrore (questo sì) della Jugoslavia comunista. Barbara Bach viene rapita misteriosamente. Jean Sorel non vuole farsi una ragione della sua scomparsa. Il montaggio secondo un tempo non lineare ci conduce avanti e indietro nella storia, ci permette di vedere Sorel vittima di una morte solo apparente. Combatte per comunicare ai vivi il suo stato di veglia, ma i suoi occhi restano vuoti. Rappresentazione terribile del totalitarismo (Sorel é un giornalista americano di una agenzia di stampa che lavora a Zagabria), il film é pervaso di colori sbiaditi, polverosi, tra i quali risaltano gli occhi azzurri di Sorel e la pelle straordinariamente bianca della Bach. I vecchi notabili di regime assumono le forme grottesche di manichini morti; o forse, sì, di quei morti adagiati nei letti di famiglia,  pietosamente ma grottescamente truccati in viso per l’ultima apparizione allo spettacolo della veglia funebre. ‘La corta notte’ é un film di vampirismo, ma non dei vampiri di cui abbiamo amato la disperata e sofferta solitudine, ma di quel vampiro che Riccardo Freda ha rivisitato molto bene nel suo splendido ‘I vampiri’ del 1957: “Essere vampiro significa vivere accanto a qualcuno estremamente più giovane di noi per succhiarne, senza che lui o lei se ne avveda, il meglio: intelligenza, spirito vitale e sopratutto freschezza di idee, di sentimenti, di reazioni”. Il vampiro di Lado non é più solo, non é più disperato, ha eletto la sua condizione a ‘sistema di stato’, ora é il principe rosso (o ‘nero’ che dir si voglia) che prende la forma del burocrate, del notabile di partito, del grigio funzionario d’apparato, in una parola di colui che non ha mai vissuto, che non ha mai amato. L’assenza di desiderio prende tuttavia le forme di vizi privati che fanno da contraltare alle pubbliche virtù della rispettabilità al potere. La scena del rito orgiastico ci mostra carni spettrali abbeverarsi a quella gioventù, a quella energia che appartiene a chi é giovane. La sessualità predata é la fonte che rende vivi quei ‘non morti’. E’ loro necessaria esattamente come per il vampiro é necessario il colore e il gusto del sangue. Ma essendo privi di un naturale sentimento, essendo irrimediabilmente vecchi, devono predare l’energia sessuale da una giovane che ne é dotata perché bella, perché vitale, perché ancora non corrotta. Era Adriano Sofri qualche tempo fa ad affermare che il conflitto oggi non é tra nord e sud, tra poveri e ricchi, ma tra chi é giovane e chi é irrimediabilmente vecchio. ‘La corta notte’ é in realtà l’icona disperata di questa lotta. Da una parte un mondo vecchio che non vuole morire, dall’altra l’immagine tenerissima di quella coppia di ragazzi che Lado ci mostra rubarsi un bacio nascosti tra gli scaffali di una biblioteca fatiscente. L’urlo finale di Ingrid Thulin con cui si conclude il film é raccapricciante. Le luci si accendono. La sala si fa vuota. Qualcuno rimane a leggere i titoli di coda. Le facce, uscendo, guardano fuori, verso il marciapiede. E’ ancora giorno, e i colori di Roma sono vividi come non li ho mai visti prima.

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Souvent présenté comme un giallo aux développements narratifs étranges, Je suis vivant ! est avant tout un véritable film d’auteur ambitieux qui dénonce par la métaphore les mécanismes d’asservissement de la population par une élite consciente d’elle-même et soucieuse de ses prérogatives.

Pour parvenir à ce constat glaçant, Aldo Lado soigne sa réalisation – décidément très racée – et impose tout au long de son film une ambiance pesante où la paranoïa finit par gagner le personnage principal, ainsi que le spectateur. Si l’on est d’abord mis sur la piste d’une critique envers un régime communiste dictatorial, le propos du réalisateur s’avère bien plus large et concerne en réalité tout type de pouvoir. Ce constat global permet au long-métrage d’être toujours d’actualité de nos jours, alors même qu’il est vieux d’une cinquantaine d’années…

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La sensación de pesadilla kafkiana que embarga a Gregory durante su impotencia cataléptica es transmitida directamente al espectador (a través del diálogo interno del personaje y sus memorias), quien con angustia ansía reconstruir junto a él los hechos relacionados con la desaparición de su novia; hechos que sin duda deben tener algo que ver con la infortunada situación en la que él se encuentra (Su mente no descansa en ningún momento, y es siempre consciente de que debe recuperar la movilidad cuanto antes, pues si no morirá de verdad durante la “autopsia”).

Un grupo de carácter sectario y satanista comandado por exponentes de la “élite”, la política internacional y las altas finanzas, realiza una serie de rituales perversos para mantener la cohesión, saciar sus apetitos vampíricos y preservar su poder. Cuando Gregory, que ha estado investigando a algunos exponentes de ese grupo, descubre que el secuestro de su novia (y el de otras chicas) está relacionado con el siniestro círculo, atrae inevitablemente la atención de sus miembros, quienes intentarán evitar a toda costa que el intrépido reportero siga tirando del hilo…

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Incorrectly classified as a giallo in my opinion, this Italian horror film is all about political metaphor, psychological tension and lightly surreal supernatural elements that has more in common with Hitchcock and Polanski's Rosemary's Baby than murder mysteries with violence and nudity. An American reporter finds himself medically declared as dead, and as he awaits the horrors of an autopsy, he tries to piece together the events that led up to this, events that involved the strange disappearance of his girlfriend and a strange group of rich, powerful older people. He investigates a city scared and oppressed by the powers that be, strange behaviour, a city where only the street bums and disabled seem to have any independence regarding what is going on with many disappearances, and a mysterious club. As a mystery, and like many Italian movies of the time, the details don't hold up to scrutiny, especially a final murder that makes no sense since it could easily have been committed much earlier. But as an atmospheric, strange, dread-filled, horror-metaphor for mind-controlling elements in society especially determined to use and control the young, it works nicely.

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