lunedì 16 settembre 2024

La corta notte delle bambole di vetro - Aldo Lado

un giornalista ancora vivo, ma ormai per tutti morto, racconta la sua storia e le sue indagini su misteriosi casi di sparizioni di giovani ragazze. 

girato fra Lubiana, Zagabria e Praga, opera prima di Aldo Lado, è un film politico, il Potere (necrofilo) si nutre di carne e sangue freschi, ha bisogno di uccidere per restare in vita (si pensi alle centinaia di migliaia di morti in Ucraina, su ordine di Boris Johnson e Joe Biden, che si nutrono di quelle vite spezzate, lotta per il potere, politico ed economico, a qualsiasi costo, senza avversari, finora).

il giornalista riesce ad arrivare a un club esclusivo, dove vengono compiuti i sacrifici umani, in una scena impressionante e angosciante.

un gioiellino da non perdere. 

buona visione - Ismaele


 

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Raffinatissima opera scritta e diretta da un ispirato Aldo Lado, che mescola tematiche gotiche a doppi sensi politici, senza mai cadere nello snobismo. Al contrario, dirige un film fruibile in entrambi i casi, inserendo elementi misterici (il numero cabalistico 99, la struttura in vetro che rappresenta un demone, il significato simbolico delle farfalle) a chiari sottotesti politici. Il protagonista addormentato, posto in stato di "sonno freddo", per Lado rappresenta una metafora. È assimilabile, per condizione, alle persone consapevoli e contrarie al "regime" ma impossibilitate a reagire, a ribellarsi allo status quo. Durante la cerimonia finale questo aspetto viene opportunamente svelato dal prof. Karting, Gran Sacerdote della setta ed esecutore della pena al tempo stesso. La condanna riservata al protagonista, inizialmente concepita come sepoltura prematura, è infatti stata mutata in autopsia, da eseguirsi sul corpo di Gregory in un'aula universitaria, a mò  di esempio sul destino di chi si oppone allo status quo. Lado realizza poche sequenze nella suggestiva Praga, riprendendone anche i monumenti, ma trova difficoltà con le istituzioni locali, tanto che per giustificare il girato finge di realizzare un documentario e per portare a termine le scene in esterni si sposta in Croazia, a Zagabria. Eccezionali gli interpreti, in particolare, oltre a Jean Sorel, il sempre ottimo Mario Adorf, in una parte di contorno ma significativa…

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‘La corta notte’ é una storia dove si intrecciano generi diversi (horror, thriller, spy story), ma si tratta solo della tessitura di una rete narrativa in grado di catturare lo spettatore per condurlo li dove il regista vuole portarlo. Dal momento in cui le luci si spengono Lado ci getta dentro l’orrore (questo sì) della Jugoslavia comunista. Barbara Bach viene rapita misteriosamente. Jean Sorel non vuole farsi una ragione della sua scomparsa. Il montaggio secondo un tempo non lineare ci conduce avanti e indietro nella storia, ci permette di vedere Sorel vittima di una morte solo apparente. Combatte per comunicare ai vivi il suo stato di veglia, ma i suoi occhi restano vuoti. Rappresentazione terribile del totalitarismo (Sorel é un giornalista americano di una agenzia di stampa che lavora a Zagabria), il film é pervaso di colori sbiaditi, polverosi, tra i quali risaltano gli occhi azzurri di Sorel e la pelle straordinariamente bianca della Bach. I vecchi notabili di regime assumono le forme grottesche di manichini morti; o forse, sì, di quei morti adagiati nei letti di famiglia,  pietosamente ma grottescamente truccati in viso per l’ultima apparizione allo spettacolo della veglia funebre. ‘La corta notte’ é un film di vampirismo, ma non dei vampiri di cui abbiamo amato la disperata e sofferta solitudine, ma di quel vampiro che Riccardo Freda ha rivisitato molto bene nel suo splendido ‘I vampiri’ del 1957: “Essere vampiro significa vivere accanto a qualcuno estremamente più giovane di noi per succhiarne, senza che lui o lei se ne avveda, il meglio: intelligenza, spirito vitale e sopratutto freschezza di idee, di sentimenti, di reazioni”. Il vampiro di Lado non é più solo, non é più disperato, ha eletto la sua condizione a ‘sistema di stato’, ora é il principe rosso (o ‘nero’ che dir si voglia) che prende la forma del burocrate, del notabile di partito, del grigio funzionario d’apparato, in una parola di colui che non ha mai vissuto, che non ha mai amato. L’assenza di desiderio prende tuttavia le forme di vizi privati che fanno da contraltare alle pubbliche virtù della rispettabilità al potere. La scena del rito orgiastico ci mostra carni spettrali abbeverarsi a quella gioventù, a quella energia che appartiene a chi é giovane. La sessualità predata é la fonte che rende vivi quei ‘non morti’. E’ loro necessaria esattamente come per il vampiro é necessario il colore e il gusto del sangue. Ma essendo privi di un naturale sentimento, essendo irrimediabilmente vecchi, devono predare l’energia sessuale da una giovane che ne é dotata perché bella, perché vitale, perché ancora non corrotta. Era Adriano Sofri qualche tempo fa ad affermare che il conflitto oggi non é tra nord e sud, tra poveri e ricchi, ma tra chi é giovane e chi é irrimediabilmente vecchio. ‘La corta notte’ é in realtà l’icona disperata di questa lotta. Da una parte un mondo vecchio che non vuole morire, dall’altra l’immagine tenerissima di quella coppia di ragazzi che Lado ci mostra rubarsi un bacio nascosti tra gli scaffali di una biblioteca fatiscente. L’urlo finale di Ingrid Thulin con cui si conclude il film é raccapricciante. Le luci si accendono. La sala si fa vuota. Qualcuno rimane a leggere i titoli di coda. Le facce, uscendo, guardano fuori, verso il marciapiede. E’ ancora giorno, e i colori di Roma sono vividi come non li ho mai visti prima.

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Souvent présenté comme un giallo aux développements narratifs étranges, Je suis vivant ! est avant tout un véritable film d’auteur ambitieux qui dénonce par la métaphore les mécanismes d’asservissement de la population par une élite consciente d’elle-même et soucieuse de ses prérogatives.

Pour parvenir à ce constat glaçant, Aldo Lado soigne sa réalisation – décidément très racée – et impose tout au long de son film une ambiance pesante où la paranoïa finit par gagner le personnage principal, ainsi que le spectateur. Si l’on est d’abord mis sur la piste d’une critique envers un régime communiste dictatorial, le propos du réalisateur s’avère bien plus large et concerne en réalité tout type de pouvoir. Ce constat global permet au long-métrage d’être toujours d’actualité de nos jours, alors même qu’il est vieux d’une cinquantaine d’années…

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La sensación de pesadilla kafkiana que embarga a Gregory durante su impotencia cataléptica es transmitida directamente al espectador (a través del diálogo interno del personaje y sus memorias), quien con angustia ansía reconstruir junto a él los hechos relacionados con la desaparición de su novia; hechos que sin duda deben tener algo que ver con la infortunada situación en la que él se encuentra (Su mente no descansa en ningún momento, y es siempre consciente de que debe recuperar la movilidad cuanto antes, pues si no morirá de verdad durante la “autopsia”).

Un grupo de carácter sectario y satanista comandado por exponentes de la “élite”, la política internacional y las altas finanzas, realiza una serie de rituales perversos para mantener la cohesión, saciar sus apetitos vampíricos y preservar su poder. Cuando Gregory, que ha estado investigando a algunos exponentes de ese grupo, descubre que el secuestro de su novia (y el de otras chicas) está relacionado con el siniestro círculo, atrae inevitablemente la atención de sus miembros, quienes intentarán evitar a toda costa que el intrépido reportero siga tirando del hilo…

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Incorrectly classified as a giallo in my opinion, this Italian horror film is all about political metaphor, psychological tension and lightly surreal supernatural elements that has more in common with Hitchcock and Polanski's Rosemary's Baby than murder mysteries with violence and nudity. An American reporter finds himself medically declared as dead, and as he awaits the horrors of an autopsy, he tries to piece together the events that led up to this, events that involved the strange disappearance of his girlfriend and a strange group of rich, powerful older people. He investigates a city scared and oppressed by the powers that be, strange behaviour, a city where only the street bums and disabled seem to have any independence regarding what is going on with many disappearances, and a mysterious club. As a mystery, and like many Italian movies of the time, the details don't hold up to scrutiny, especially a final murder that makes no sense since it could easily have been committed much earlier. But as an atmospheric, strange, dread-filled, horror-metaphor for mind-controlling elements in society especially determined to use and control the young, it works nicely.

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sabato 14 settembre 2024

I tulipani di Haarlem - Franco Brusati

Pierre, un giovane impiegato in un ufficio, a Bruges, è un ragazzo allegro e ottimista, incontra una ragazza inglese, della quale s'innamora, diventa come un cagnolino con la padrona, fedele e devoto a Sara.

Sara cede a un riccone, Pierre le sta vicino, canta, balla. è sempre lì.

un film che non t'aspetti, interessante, avvincente e poetico.

un film da non perdere.

buona (sorprendente) visione - Ismaele

  

 

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Poetico, drammatico, con finale angoscioso e tragico, Pierre il personaggio che si innamora perdutamente di Sara, un film sul difficile rapporto di amare all'infinito e non esser ricambiati, lei si vuole uccidere per un'altro ed innamorata non ricambiata.

Come Il buon soldato, girato 13 anni dopo, è un altro boccone ancora più amaro da digerire, perché qui i presupposti per toccare il cielo con un dito c'erano tutti. Solo che quando in un qualsiasi rapporto a due uno riesce, dopo varie vicissitudini mentali, a raggiungere una certa serenità e un buon equilibrio, l'altro, anzichè seguirlo, trova più giusto ricacciarlo nel baratro con ogni mezzo, anche con la violenza e la crudeltà.

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Pierre (Frank Grimes) è un giovane impiegato che sembra prendere la vita così come viene. Vive da solo ed ha il sorriso sempre stampato in faccia, quasi come il segno indistinguibile di un’innata spensieratezza. In realtà, Pierre avrebbe bisogno di dare e ricevere affetto ed è per questo che si lega fedelmente a Sara (Carole Andrè), una sua vicina di casa che conosce nel momento stesso in cui la salva da un tentato suicidio. Si innamora quasi subito di questa misteriosa ragazza uscita da chissà quale dolorosa vicenda. Anche Sara si affeziona a Pierre, e lo sottopone a dei comportamenti mortificanti come per tastare il suo grado di devozione nei suoi riguardi :  esibirsi nudo in un ballo strano, essere attaccato al guinzaglio come un cane, coprirsi di ridicolo in un ristorante di classe, assistere come uno schiavo inerme agl’incontri amorosi con Bernardo (Gianni Garko), un ricco signore alquanto bizzarro. Siamo di fronte al disamore per la vita di una ragazza viziata o a delle prove d’amore che vogliono seguire dei percorsi enigmatici?...

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venerdì 13 settembre 2024

Patagonia - Simone Bozzelli

Yuri e Agostino sono due ragazzi ai margini della società.

decidono di lavorare insieme e vivere insieme, e il loro rapporto è speciale, amore/odio, ricatti e punizioni.

Yuri è poco più di un bambino, si consegna ad Agostino e vivono in simbiosi, in quel camper di Agostino.

opera prima di Simone Bozzelli, attori bravi e convincenti.

cercatelo, da non perdere.

buona (tormentata) visione - Ismaele

 

 

 

Patagonia è un esordio composto e sentito. Si attiene al restare aderente a questi due corpi che sussistono l’uno sull’altro, non fa il passo più lungo della gamba e per il momento è giusto così. Sottolinea un po’ qua e là, si accerta di specificare l’assorbimento totale a una condizione insostenibile. Ma funziona e introduce al palcoscenico un nuovo talento che sarà interessante seguire da qui in poi.

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Patagonia ricorda una fiaba inversa e macabra, dove punizioni e ricompense sono estreme e le regole non sono quelle universali. 

 

Tra i due protagonisti aleggia la figura di un Peter Pan inedito e spaventoso, come le dinamiche di rapporti in cui non si scorgono gli estremi: tra la mancanza di empatia di Yuri e l’unica relazione sana che Agostino sa instaurare - quella con i bambini, soprattutto con il figlio dell’amica Alma di cui si prende cura ogni giorno con rigore - l’unica cosa che può salvare il rapporto dalla subalternità, la gabbia in cui ci si è imbattuti, è la maturità delle scelte. 

Simone Bozzelli affronta in Patagonia temi mancanti nella cinematografia contemporanea, e lo fa benissimo: la normalità estranea al buon pensiero, lo sporco e lo schifo, la decisione sbagliata, i rapporti non definibili (ma lontani dall'amore)…

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Tutto è però propedeutico a quel che sarà: Per Ago, che con il fuoco tenta di alleggerire il peso dell’esistenza e delle relazioni senza riuscire a liberarsi delle radici che rispuntano nel suo sogno di libertà, per Yuri, che abituato a dipendere da qualcuno e a non essere abbastanza conquista gradualmente la forza di decidere da solo di voler subire anche le punizioni più ingiuste, e per gli spettatori. Che il film sottopone a diverse prove – molestie fisiche e psicologiche comprese – prima di ricompensare con un finale che giustifica le vessazioni, la perdita della speranza, dell’innocenza, il rischio di esser passati dal vivere rinchiusi in una famiglia tradizionale a un camper malmesso. Per una volta, la scuola della strada – e dell’arte di strada – tanto citata a sproposito dal popolo della rete, acquista corpo, e dignità. E offre spunti di riflessione sui concetti di libertà e dipendenza, anche nella fissità esasperata di certe sequenze, nell’accettazione del dolore e del male come reagente o dell’attesa di un Godot che stavolta potremmo essere noi.

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Patagonia è un film crudo, onesto nella sua “disonestà”, passionale e glaciale, tanto “corretto” quanto “scorretto”, un lungometraggio i cui protagonisti sono “santi” e “demoni” che siedono insieme in un “pezzo” di mondo, arcadico, aspro, selvatico. Yuri e Agostino, Andrea Fuorto e Augusto Mario Russi, vivono una relazione che mangia il cuore e consuma il fegato: prevaricazioni, abusi, perimetri asfissianti costruiscono una gabbia che sembra allontanare dal senso di sopravvivenza; sembra saccheggiare un’identità già isolata.. già smarrita nella profondità dell’umanità di un rapporto di dipendenza che assume i contorni di un reciproco tossico, distruttivo.  

Simone Bozzelli denuncia un romanticismo puritano, tratteggiando una narrativa difficile e contrastante. Fatalità e fatalismo sono gli elementi dissacranti in una storia che si suicida sul sipario dell’etica e della moralità. Un film che necessita più punti di vista, ripetute visioni, osservazioni ossessive per delineare la grandezza e la cura impeccabile del lungometraggio che rendono Patagonia un film che affina la sperimentazione cinematografica nell’epoca della sua stessa desertificazione…

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Attorno alla presa di coscienza del giovane Yuri, che fin lì ha vissuto una vita nell'abbraccio ovattato e stringente di una famiglia dai contorni imprecisati, Bozzelli riesce soprattutto a evocare un mondo distinto di giovani che, in un Abruzzo svuotato e soporifero, vivono nella loro versione di una società alternativa. Agostino, che preso da solo con il suo camper e il lavoro con i bambini sembrava un esemplare unico, è in realtà parte di un sistema che si apre agli occhi di Yuri e inizia a presentargli delle scelte che il ragazzo non ha mai avuto prima.
Nel rapporto tra i due sta la sostanza dell'opera, che indaga come nascono i rapporti di potere, la dipendenza, la proiezione del proprio desiderio su quello dell'altro. Gli animali e le gabbie sono un motivo ricorrente, la corrente omoerotica e sentimentale è forse lasciata a un'eccessiva ambiguità, ma c'è del rigore autentico nel modo in cui Bozzelli mette in fila le piccole manipolazioni di Agostino, dotato di un istinto innato nel capire cosa l'altro è disposto a cedere per poi prenderselo col sorriso.

L'esordiente Augusto Mario Russi ha il giusto carisma per renderlo verosimile, e soprattutto sembra avere una conoscenza intima e naturale del milieu in cui si muove la storia. Il lavoro a quattro mani trova nel protagonista Andrea Fuorto un valido contraltare, più costruito, che delinea una condizione infantilizzata ma lentamente ricettiva alle esperienze del mondo, di cui si prende il bene come il male…

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mercoledì 11 settembre 2024

I Ragazzi del massacro - Fernando Di Leo

tratto da una storia di Giorgio Scerbanenco, il film nelle mani di Fernando Di Leo diventa un gioiellino.

una storia terribile, nei primi minuti si vede e si capisce tutto e poi tocca al commissario Lamberti cercare di capire cosa è successo.

una sceneggiatura che non lascia respiro, non perdetevelo.

buona (violenta) visione - Ismaele



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Qualche anno prima di “Arancia meccanica” di Kubrick, Di Leo ci mostra i “nostri” drughi nostrani, che bevono anice lattescente al posto di “latte più” e risultano molto ma molto più brutali e meschini di Alex e la sua banda. Di Leo prende come spunto il lavoro di Scerbanenco per costruire una storia che per l'epoca era davvero attuale e per alcuni fatti di cronaca quasi premonitrice.
Ottima la scelta di Pier Paolo Capponi, che riesce ad incarnare un commissario dalle mille sfumature: deciso ma tenero con chi capisce che potrà condurlo alla soluzione finale, convinto a catturare il mandante contro tutto e tutti, anche a costo della propria carriera.
Ottima la scelta di utilizzare per il “branco” ragazzi di strada, non attori professionisti, scelti esclusivamente per le loro caratteristiche fisiche e per i volti segnati da una reale vita difficile.
Alcuni di loro hanno cercato in seguito una carriera nel settore cinematografico, invano.

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Un' "Arancia meccanica" arrivata in anticipo e senza lo straordinario talento visionario di un genio come Kubrick, ma di Leo, con pochi mezzi (si notano alcune inquadrature da "buona la prima"!), riesce a rendere un'atmosfera angosciante e coinvolgente, tutta italiana ma esportabile. Viene voglia alzarsi dalla poltrona e stringere la mano al regista per dirgli: "Bravo! Davvero bravo!"

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Quando osserviamo quel manipolo di delinquentelli farsi stupratori e assassini della loro giovane insegnante, la prima impressione che ne riceviamo è di essere dinnanzi a dei figli del demonio. Le loro facce torve sono il manifesto incontestabile del Male che li governa. La loro impassibilità, o meglio ancora la loro ferrea serenità, ci è insostenibile. Di fatto tutto ciò che vien dopo, nel film, si configura come un'umanizzazione progressiva di questi piccoli mostri, a partire da quella prima, orrifica, Polaroid iniziale. Per esempio uno dei ragazzi, il più giovane, non ha il coraggio di guardare la fotografia dell'insegnate straziata; un altro ha sonno, quasi in maniera infantile; un altro ancora sembra raggiungere il suo stato di beatitudine massima solo per il fatto di poter indossare giacca e cravatta, sotto la Galleria Vittorio Emanuele, come una persona perbene. Sono più gli adulti, incredibilmente, nel seguito, a farci ribrezzo: chi non ha intenzione di contribuire a risolvere il caso, chi vuole disfarsi dell'ingombrante presenza dei ragazzi il prima possibile, chi vuole conservare la poltrona... e soprattutto colui che ha empiamente corrotto le menti dei giovani prospettando loro soldi e donne facili. A quest'Omino di Burro è sufficiente una lucente Porsche - e un po' di alcol - per catturare la loro fantasia, e ingabbiarli in un bituminoso sogno da Paese dei Balocchi. Io tuttavia non credo ci sia un intento giustificazionista alla base: come dire, i giovani sono cattivi perché sono cattivi gli adulti. E non è neanche lontanamente presente un sottotesto consolatorio, del tipo, l'uomo nasce secondo principi di bontà, e viene contaminato dall'ambiente che lo circonda. Penso piuttosto che la poetica di Di Leo si cibi di una visione del mondo in cui tutto è nero, sia il giovane sia l'adulto, sia la persona perbene sia l'uomo dei bassifondi, sia il criminale sia il poliziotto. Solo il burbero commissario Lamberti rimane estraneo a questo inferno, ma la sua faccia ci dice moltissimo sul fardello della sua battaglia in solitario.

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martedì 10 settembre 2024

Chi si ferma è perduto - Sergio Corbucci

Antonio Guardalavecchia (Totò) e Giuseppe Colabona (Peppino de Filippo) fanno di tutto per diventare dirigenti del loro ufficio, tutti i trucchi vengono sviluppati, con gioia dello spettatore.

tante scene sono memorabili, e ogni volta che lo vedi ridi (se sei ancora vivo).

buona (strepitosa) visione - Ismaele

 

 

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Forse non sono in molti a ricordare questo film che li vede rivali sul lavoro. Antonio Guardalavecchia e Giuseppe Colabona sono due impiegati veterani della ditta Pasquetti (Trasporti perfetti!). Essi incarnano il prototipo di grigio travet, pronto a lavorare il minimo indispensabile, sempre al telefono con la moglie, scorbutico con il cliente di turno. Il loro capo, Cesare Santoro, ha già preparato i dossier per trasferirli in Sardegna. Purtroppo per lui, passerà, improvvisamente, a miglior vita, lasciando il compito di valutare i curriculum  a un ispettore aziendale di Milano. I due, intrufolandosi in ufficio, di notte, con tanto di mascherina da ladro e torcia elettrica, bruceranno le rispettive documentazioni, per non lasciare prova delle loro condotte. E da amici, i due sono anche vicini di casa, entreranno in guerra per un’agognata promozione, cercando di accattivarsi la simpatia del dirigente del nord. Se la trama può risultare non troppo originale, i duetti cui danno vita Totò e Peppino sono molto divertenti. I meccanismi comici sono quelli classici, l’errore di persona, lo jettatore, il triangolo amoroso, lo storpiamento dei cognomi, tanto per citarne alcuni. I due attori duellano senza esclusione di colpi, supportati da caratteristi di ottimo livello, come Luigi Pavese, l’immancabile Mario Castellani, e Luigi De Filippo, figlio di Peppino, nei panni di un fastidioso donnaiolo siciliano. L’atmosfera potrebbe essere antesignana di Fantozzi, non solo per la monotonia di certe situazioni, ma anche per l'ipocrisia e la cattiveria dei due, pronti a tutto per avere la meglio. Siamo in pieno boom economico, c'è la rincorsa al benessere e alla miglioria del proprio tenore di vita quotidiano, ma non tutti gli stipendi sono proporzionati alle esigenza personali, Antonio Guardalavecchia ha la colf a mezzo servizio... È un film invecchiato bene, che ancora oggi riesce a far ridere. Dirige Sergio Corbucci, è merito anche suo se i tempi comici del film rasentano la perfezione.

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Le nuove generazioni di comici dovrebbero, se già non lo hanno fatto,non solo guardare e gustare,ma anche studiare,queste magiche pellicole, che per quanto vecchie, non sono per niente invecchiate.Il duo Totò e Peppino, è stato sicuramente,insieme a tanti illustri del passato,come Stanlio e Onlio, Ric e Gian,Gianni e Pinotto,Franco e Ciccio, solo per fare qualche esempio,una coppia comica delle più affiatate e sfavillanti,del panorama cinematografico,regalando al pubblico preziose perle di umorismo,semplice, sano, immediato,composto,politicamente corretto e soprattutto immortale.Questo film,dalla storia semplice ma mai banale,ci consente di apprezzare alcune delle tante sfumature artistiche di questi indimenticabili attori. "Guardalavecchia" e "Orabona" impiegatucci,piccini ma ambiziosi , della "ditta  Pasquetti", si rintuzzano, si fanno i dispetti,si  rincorrono, per guadagnarsi l'ambito posto di capo-ufficio,dando vita a dei siparietti divertentissimi e producendosi in numeri comici, assolutamente esilaranti.L'elogio funebre di Totò al superiore defunto,fa simpaticamente il verso al monologo su Cesare di Marlon Brando.Citazione d'obbligo per la scena del corteggiamento "alla Romeo e Giulietta"con la Zoppelli sul balcone e Totò che recita versi aulici.Semplicemente deliziosa.

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Sbeffeggia il clichè dell'italiano campione del mondo tra i lacchè, e che sotterra la dignità pur di ottenere un minimo di carriera e soldi in più, giusto per salvarsi agli occhi degli altri e dei familiari (tanto poi non sta bene ugualmente).
E' assurdo che sia così, ma è una fotografia fedele dell'impiegato tricolore: questa penosa competizione sul luogo di lavoro rappresenta forse lo spirito più diffuso tra noi italiani sul posto di lavoro, come poi è stato affrescato da  Fantozzi.

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lunedì 9 settembre 2024

Campo di battaglia - Gianni Amelio

Stefano e Giulio sono due medici che lavorano in un ospedale militare, durante la prima guerra mondiale.

Stefano rimanda tutti a morire per la patria, se ancora quei soldati respirano, Giulio cerca di fare il possibile per rimandare a casa quei poveri cristi che ancora respirano, mandati a morire per una guerra maledetta, come tutte.

Anna, la loro amica infermiera, prima sposa le tesi di Stefano, poi Giulio la convince.

alla fine Giulio paga per la sua umanità, per il suo elogio della diserzione, quando possibile.

non è un film perfetto, ma il suo compito (quasi un documentario) lo svolge benissimo.

buona (pacifista) visione - Ismaele


 

 

Campo di battaglia riesce a comunicarci visivamente molto altro, un senso continuo di minaccia, di orrore, di collasso di un mondo. Di apocalisse. Con una fotografia livida che, soprattutto negli esterni, ci restituisce la desolazione di edifici massicci e grigi adibiti a ospedali, caserme, luoghi di contenzione e concentramento. Edifici squadrati, arcigni, come protesi verso il nulla (con un che, ma sì, di kafkiano, se volete di buzzatiano, di profondamente mitteleuropeo e poco italo-mediterraneo). E l’insistere della cinepresa sui corpi malati e vulnerati, sul sangue rappreso, sui bendaggi, sulle protesi, sulle stampelle, finiscono col configurare, forse al di là delle intenzioni dello stesso regista, un universo concentrazionario da cinema del mistero e dell’orrore. Di un orrore coporale e ancora di più mentale, psicologico. Che è una cifra assai rara nel nostro cinema e che fa di Campo di battaglia qualcosa di audace e anomalo. Ancora di più si slitta dal cinema bellico al gothic nella seconda parte, quando scende in  campo un altro nemico, l’epidemia che prenderà il nome di spagnola. I due medici amici-nemici, Siefano e Giulio, si troveranno ad affrontare anche questa nuova battaglia, ognuno a modo suo e con ruoli diversi: mentre il tasso visionario si alza e Campo di battaglia si fa sempre più incubo notturno, con quel lazzaretto dove vengono accumulati e isolati i malati per contenere il contagio, fino alla grande sequenza dei cadaveri buttati nella fossa comune e bruciati (ogni riferimento alla recente pandemia da Covid è probabilmente voluto). Si resta alla fine con la sensazione di avere assistito non a un classico film sulla guerra, piuttosto a un cinema di esplorazione del lato oscuro, nostro e della Storia, individuale e collettivo. Gabriel Montesi, attore in ascesa, è perfetto quale medico carogna, Alessandro Borghi forse un filo troppo manierato come Giulio. Federica Rosellini, gran nome del nostro teatro (non solo) di ricerca, è la crocerossina che voleva essere medico.

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…Bei dialoghi che rispettano le etimologie meravigliose dei nostri dialetti unici, così diversi da sembrare lingue differenti, ma non per questo passibili di non fare comprendere i sentimenti di chi li esprime ad altri coscritti, uniti da lingue differenti ma capaci di comprendersi con un semplice sguardo.

Un film scientemente lento e riflessivi, lucido e schietto che non rinuncia a ottime ricostruzioni di campi di battaglia e trincee, ospedali devastato da urla e dolore.

I tre interpreti citati sono davvero bravi, e Gianni Amelio si conferma, c'è ne fosse bisogno, un caposaldo versatile e sensibile del cinema di casa nostra.

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Gianni Amelio è uno dei grandi vecchi del cinema italiano, continua per la sua strada senza tentennamenti, anche se la critica nostrana sembra avergli voltato le spalle già da anni. "Campo di battaglia" è un film certamente dignitoso, magari non una delle sue opere maggiori in assoluto, ma non è un film di cui ci si possa liberare in maniera sbrigativa, come ha fatto una parte della stampa alla mostra di Venezia.

Il film è una requisitoria contro la guerra e un'analisi del conflitto di coscienza da parte di due ufficiali medici che si trovano a curare soldati feriti provenienti dal fronte della prima Guerra mondiale: il dottore interpretato da Gabriel Montesi vuole che i soldati guariscano in fretta per tornare al fronte, quello interpretato da Alessandro Borghi invece è pronto a causare ferite ulteriori per allontanare definitivamente il ritorno alla trincea…

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incredibile a dirsi, ma i presupposti di Campo di battaglia di Gianni Amelio sono tutti giusti. L’obiettivo, è chiaro, è di fare un film sulla prima guerra mondiale (in realtà poi vuole usare quello scenario per parlare d’altro, ma a questo ci arriviamo) e l’osservatorio scelto è perfetto: il Friuli Venezia Giulia nel 1918. Vuole raccontare di come le persone vivessero la guerra e per farlo sceglie anche le figure perfette: due medici che lavorano in un ospedale militare che non fa che ricevere feriti veri e feriti che si sono procurati le ferite (anche gravi) per essere mandati a casa. E poi ancora ha la caratterizzazione giusta: questi due medici sono uno molto patriottico, spietato, che indaga, cerca, scopre le truffe e non fa che rimandare al fronte al minimo dubbio; l’altro molto compassionevole che, di nascosto, opera e peggiora le condizioni di alcuni pazienti (in accordo con loro), così che non possano che essere davvero mandati a casa.

Sono le due anime del paese di fronte alla guerra, ma anche di fronte a qualsiasi cosa: quella rigorosa che crede nelle istituzioni, in quello che dicono e nella necessità di un atteggiamento intransigente; e quella che invece opera al di fuori di tutto, a proprio rischio, anteponendo l’umanità e i propri valori a quelle che sono le decisioni dello Stato, rispondendo a una morale che è sia sua che (nella sua testa) più alta. E nonostante entrambi gli attori, Gabriel Montesi e Alessandro Borghi, siano molto bravi a fare (da romani) due medici veneti, è Montesi a stupire di più, con questo personaggio davvero di altri tempi, una tipologia umana che non c’entra niente con il presente e ha un altro modo di fare, di relazionarsi, di muoversi e di parlare, che sembra venire dal passato. Duro e inflessibile, regio in tante cose, e che con abilità lascia trapelare ogni tanto un’umanità nascosta sotto strati di un senso del dovere come lo si poteva concepire solo a inizio Novecento…

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sabato 7 settembre 2024

Il Bi e il Ba - Maurizio Nichetti

il film ha un protagonista, Frassica, che non delude mai, circondato da attori e attrici (ottimi) al suo servizio.

film folle e fiabesco, un Nichetti che non ti aspetti, c'è da ridere e ridere ancora.

cercatelo e godetene tutti.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele

 

 

 

Diciamolo subito: il film è geniale, fa ridere (questo l'intento) e scorre via che è un piacere; d'altro canto due anime comico-surreali accorpate quali la regia di Nichetti e il perno de Il bi e il ba Frassica, creano l'ambiente ideale per dare un'insperata forza ridanciana - con una vena poetico/infantile - a una pellicola che, nonostante tutto, si rivelò un clamoroso flop al botteghino che ancor'oggi chiede giustizia e che di fatto relegò l'attore siciliano a fenomeno televisivo; insomma, il Frassica-movie n. 2 non c'è stato.

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E' una piacevolissima commedia interpretata da Nino Frassica e diretta da Maurizio Nichetti.Maurizio Nichetti e Nino Frassica rispettivametente regista e protagonista realizzano un film spassossimo ingiustamente snobato da critica e pubblico. Se avete voglia di sorridere di non pensare è un piccolo gioiellino

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venerdì 6 settembre 2024

Faccia d’angelo – Andrea Porporati

una bella sorpresa, Elio Germano è grandissimo, il boss del Brenta sembra lui.

una storia semplice e appassionante, con una sceneggiatura che non lascia nessuno spettatore indifferente.

provare per credere, un film che non delude.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele


 

QUI si può vedere la prima parte del film

QUI si può vedere la seconda parte del film

 

 

 

…Se Faccia d'angelo merita la visione perché, come si è detto, illumina pur con le sue libertà narrative una parte poco raccontata della storia del nostro paese, se va probabilmente fatta la riflessione su un gusto del pubblico televisivo che vira al nero e rende (finalmente!) possibile la realizzazione di un prodotto come questo, va anche detto che il film TV di Porporati è, preso in sé, un buonissimo prodotto. Se la già citata presenza di Germano, con il suo volto, la sua parlata e le sue studiate movenze, innerva di sé ogni momento del racconto, anche quelli in cui il suo personaggio non è presente, il meccanismo narrativo del film, con i suoi frequenti salti nel tempo, si rivela perfettamente funzionale allo scopo del regista: quello di raccontare la parabola di un uomo dedito al crimine, e la sua ingenua, infantile pretesa di dominare anche la sua brama di potere. Il Toso è infatti un boss cinico e beffardo, uno scaltro imprenditore del crimine, ma anche un uomo ingenuo: la sua illusione di poter amare, nella sua posizione, senza alcun rischio per la persona amata, di fare il bene di sua madre (un'intensa Katia Ricciarelli) con gli sterminati proventi delle sue attività criminali, di ridurre il suo vorticoso giro di affari illeciti a una pulita, incruenta attività imprenditoriale, è quanto di più illusorio si possa concepire. Una figura figlia di una classicità dal taglio tragico, parente di tanti altri boss malavitosi visti sul grande e piccolo schermo, ma di cui viene accentuato l'aspetto infantile, la convinzione di operare in fondo per il bene proprio e delle persone a sé vicine, l'illusione di un futuro luminoso mentre il cammino è in realtà segnato verso un'oscurità nerissima. In più, va ricordato il contrasto, anche questo figlio di decenni di storia del genere, con i rappresentanti della legge, guidati da un sempre più determinato (e ostinato) Carmine Recano; e lo sguardo antropologico, rivelatore, su una realtà contadina che, anche dentro a una regione che è motore economico dello sviluppo, conserva le sue tradizioni ancestrali e rende possibile, nel suo seno, la crescita di un'esperienza criminale come questa. Compito del noir è in fondo, da sempre, anche quello di restituirci un po' della nostra realtà, trasfigurata ma sempre (e mai come ora) attuale.

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Diciamolo subito, Felice Maniero, in arte “Toso” è un personaggio che ben si presta ad essere immortalato in un film, ed anche bello lungo dato che tantissime azioni (e situazioni) hanno segnato la sua (lunga) esistenza da criminale.

Si tratta di una parabola classica, gli inizi in piccolo (ma con un certo stile, altri tempi, altri realtà), seguiti dalla collusione con gli ambienti che contano, soldi a palate in entrata, agenti alle calcagne, arresti, fughe impossibili e poi la resa dei conti che, bene o male, prima o poi tocca a (quasi) tutti coloro che intraprendono una vita del genere.

Un film zeppo di occasioni per sviluppare il racconto, gestito con un ordine e con tante variabili al seguito (anche l’amore e la famiglia hanno ruoli tutt’altro che secondari) che probabilmente pecca soprattutto nei momenti chiave.

Insomma ci sono diverse scene fondamentali, ma quando il registro deve alzare i toni, che siano essi drammatici o meno, non si riesce ad andare oltre uno standard onorevole, ma non rinvigorito come si sarebbe potuto aspettarsi.

Ciò detto rimane un prodotto di tutto rispetto, un piatto ricco di sapore (aperto e chiuso dalle musiche degli Afterhours), che vive anche di un interprete di alto (a altro) rango qual’è Elio Germano che nei panni di un personaggio che si crede onnipotente può dar sfoggio del suo istrionismo senza troppi pudori.

Visione piacevole.

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giovedì 5 settembre 2024

Gli imbroglioni – Lucio Fulci

il film si apre con una bellissima canzone di Giorgio Gaber, e poi inizia il film a episodi. 

José Luis López Vázquez è il giudice che tiene insieme gli episodi del film.

il film è discontinuo, Franco e Ciccio appaiono tre volte,per la disperazione del giudice.

l'episodio con Walter Chiari, l'ultimo, è un capolavoro.

film divertente.

buona (funerea) visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo


 

Uno dei pochi film ad episodi dell'epoca non datati.

In un aula di tribunale, si intrecciano varie storie...

Uno dei pochi film comici ad episodi del periodo non datati e ancora oggi divertenti. Tra i tanti attori famosi dell'epoca che vi partecipano, i migliori e i più divertenti sono Franchi e Ingrassia, ma anche Chiari strappa molte risate. Fulci dirige con una certa diligenza.

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Fulci è regista che ha sempre un suo perché. Anche in una commedia come questa, non delle migliori, riesce a farsi guardare, proprio per l'originalità di alcune trovate: Franco e Ciccio con tripla identità ad esempio, o lo spassoso episodio con Walter Chiari. Curioso notare, in una scena, come il regista anche nelle sue commedie faccia riferimento a elementi che richiamano alla morte.

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mercoledì 4 settembre 2024

Pizza connection – Damiano Damiani

Michele Placido al meglio fa il mafioso, in un film che è sul Potere, e quindi anche sulla Mafia.

Damiano Damiani conferma di essere un bravo regista, con una sceneggiatura che non ti fa annoiare un momento.

la storia ha tutto quello che serve, il bravo giudice, la mafia in giacca e cravatta, l'amore del fratello per la prostituta bambina.

non perdetevelo.

buona (mafiosa) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

 

 

Il film di Damiani soffre di qualche lungaggine melodrammatica, come l'amore di Michele per Cecilia (Simona Cavallari), una quattordicenne che viene fatta prostituire dalla madre, o i dubbi del procuratore capo Santalucia (Massimo De Francovich) sulla reale onesta' del suo defunto padre, anch'egli magistrato. Ma tolte queste irrilevanti pecche che non riescono a minare il lavoro di Damiani, PIZZA CONNECTION può contare su un Placido eccezionale, affiancato da comprimari perfetti e su un confronto tra i due protagonisti degno di una tragedia biblica. Ritmo serratissimo e sequenze indimenticabili, come quella dell'attentato, veramente drammatica e impressionante. Quella che qui e' finzione, sette anni dopo diverrà tragica realtà. Finale forse prevedibile e telefonato, ma di grande impatto. Come già detto cast impeccabile, ma mi sento di menzionare l'esordiente Simona Cavallari, all'epoca appena quattordicenne, tanto brava e intensa, quanto bellissima.

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Un gran bel film di mafia, per quanto risentisse di una matrice artigianal commerciale da tv, come da prassi negli sventurati anni ’80. Il realismo e la freschezza sono illuminanti, nella loro verità tragica.

Il protagonista è il fratello minore di Placido, ben interpretato da uno sconosciuto Mark Chase: indignato, genuino, non si piega all’orrore. Non vuole uccidere il cavallo, dato che non ne ha nessuna motivo; ma neppure vuole uccidere l’uomo, per analoghi motivi di umanità. Sono gli stessi per i quali ha perso il lavoro: non era disonesto. Il pescivendolo viene ucciso perché è onesto: non vuole pagare il pizzo.

Damiani, che qui compone soggetto e sceneggiatura, va al cuore del problema, che è del potere di sempre, in gran parte, e non solo di quello mafioso; chi ha dei valori morali proprio per questo non  fa carriera. La carriera la fa chi non vuole averne, e proprio perché non ne vuole avere.

L’altro esempio è il giudice: roso dal sospetto che il padre fosse corrotto, lui non vuole esserlo. Proprio per questo viene massacrato. A colpi di bazooka, in pieno centro, con apoteosi di barbarie, che purtroppo la realtà non ha visto limitata alla sola fiction. Straordinario il dialogo in cui il giudice si rifiuta di accondiscendere alla proposta del suo sottoposto, una proposta tradizionale e vincente: far affari con certi criminali, avvantaggiandoli, pur di avere quelle informazione e quell’appoggio che sono indispensabili per fermare alti criminali, che al momento appaiono ancor più importanti da fermare. Ingiustizia fomentata dallo stato, pur di fermare altra ingiustizia. Pagherà questa insensatezza il giudice, ma soprattutto per questo: attaccherà i politici e i ricchi, quei piani alti che consentono protezione a Cosa nostra. Il giudice  può dire: «È il giudice a dover sempre essere scortato: qui sembra lui il vero delinquente».

Il film mostra bene poi la disinvoltura con cui la mafia era penetrata, ed era stata lasciata penetrare con modalità corrotte, nello Stato, condizionandolo e guidandolo. La tattica del “corvo”, dell’informatore della mafia in seno alle istituzioni, è resa bene. Così come i vari livelli di potere: indecifrabili, ma se ne sa abbastanza perché ognuno sappia che dev’essere disonesto e fare la sua parte nel male. Solo così potrà continuare a prosperare.

Splendida anche la storia d’amore, pulita, che segna subito un’impennata nella tagliente sceneggiatura: la minorenne che si deve prostituire per volere della madre e del patrigno, solo per pagare l’eroina la fratello maggiore, prediletto. Un orrore, consumato in modo abitudinario, nella più corsiva quotidianità dell’ignoranza e del degrado, da cui si riscatta solo il protagonista, pronto a rischiare di tutto. Il che è un emblema dell’unica soluzione: i valori morali seri sono l’unica diga contro la violenza, che altrimenti non può che prevalere.

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Muy buen polizziesco ochentero con logrados toques dramáticos. La trama mantiene en vilo al espectador en todo momento; el conflicto entre los hermanos (que se quieren pese a ser incompatibles), el idilio entre el inocente Michele y la atormentada adolescente Cecilia, las intrigas en el seno de la Mafia y el retrato del Palermo de aquellos años consiguen crear un interés creciente no sólo para los seguidores habituales del género, sino también para un público más vasto. El en Italia bastante conocido actor Michele Placido, que interpreta a Mario, dirigió más de 20 años después la también muy interesante “Romanzo Criminale” (2008). Por su parte el joven Mark Chase (que da vida a Michele) tiene curiosamente un notable parecido físico con José Luis Manzano, el protagonista de „El Pico“ y otros productos del cine quinqui de Eloy de la Iglesia.

No obstante, la historia de “Pizza Connection” filmada por Damiano Damiani no tiene nada que ver con la auténtica Pizza Connection (sucesora mediática de la “French Connection”) que existió en los años setenta y fue desbaratada poco antes del estreno de ésta película; la red de contrabando de droga que funcionaba importando a Sicilia opio procedente de Turquía para procesarlo en laboratorios de la isla italiana, transformándolo en heroína que a su vez era exportada a los EEUU y distribuída desde pizzerías neoyorkinas que hacían las veces de tapaderas.

Aunque no está basada en la historia real, la película merece ser vista.

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martedì 3 settembre 2024

Sette opere di misericordia – fratelli De Serio

un'opera cupa, due scarti della società s'incontrano e da lì nasce un rapporto complicato, ma si capiscono subito.

Roberto Herlitzka è perfetto per quel ruolo.

le sette opere di misericordia sono quelle del Vangelo secondo Matteo.

i registi poi hanno girato solo Spaccapietre.

da non perdere.

buona (misericordiosa) visione - Ismaele


 

 

 

Torino. Luminita è una giovane clandestina moldava che sopravvive grazie al borseggio di cui deve poi dare i frutti ai suoi 'padroni'. Luminita ha però un piano per sfuggire al loro controllo e ottenere dei documenti falsi. Inizia a metterlo in atto scegliendosi una vittima a caso. La vittima è Antonio, un uomo anziano e malato che vive in una situazione di semidegrado ed è costretto periodicamente a farsi ricoverare in ospedale. È lì che la ragazza lo incontra e inizia a seguirne le mosse.
Se vivessimo nell'area francofona in cui la passione cinefila è ancora intensamente vissuta si potrebbe paragonare l'esordio nel lungometraggio di finzione dei fratelli De Serio a quello dei Dardenne con 
La Promesse. Temiamo invece (sperando ovviamente di essere smentiti) che questo film non riceva l'attenzione che invece merita. Perché la rilettura delle cristiane opere di misericordia non ha nulla di confessionale e invece ha moltissimo di quel cinema che sa scavare a fondo nell'animo umano tout court…

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Luminita ha una vita fatta di espedienti ed emarginazione, Antonio invece consuma le sue giornate nella solitudine di una vecchiaia senza parole. L'emancipazione di entrambi passerà attraverso un incontro, in cui le differenze ed i contrasti si scioglieranno nella consapevolezza di una sofferenza comune.

Modulato sulle estetiche di un cinema derivato dalla realtà, ma capace di superarla per diventare apologo esistenziale, e qui ci riferiamo alla fenomenologia del quotidiano dei fratelli Dardenne, ed al Krzysztof Kieslowski del "Decalogo", ripreso nella traslazione sul piano laico e prosaico di un tema evangelico e religioso, "Sette opere di misericordia" vive sul contrasto tra l'essenzialità di un racconto minimalista, quasi muto, costruito sulla gestualità, anche corporale dei personaggi, e la complessità di una messinscena, dalla fotografia desaturata al puzzle di suoni reali ed artificiali, organizzata per dare voce all'ineffabile, nel tentativo di far emergere l'universale dal particolare. Immergendo la vicenda in un paesaggio urbano tanto concreto, per la specificità di ambienti quasi sempre lontani dall'iconografia del benessere, quanto rarefatto, per il progressivo diradarsi degli elementi che normalmente costituiscono la cornice della storia, quelli che permettono di inserirla in un contesto geografico o temporale, i fratelli De Serio, al loro esordio in un lungometraggio di finzione, danno vita ad una serie di quadri, ognuno dei quali è introdotto da una didascalia riferita all'opera di misericordia (corporale) che i personaggi stanno per compiere…

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Schermo nero. Rumori, presenze. E poi Luminita, giovane moldava, marginale persino in una baraccopoli, clandestina in cerca del minimo riconoscimento sociale, di un documento falso che documenti una (comunque) falsa integrazione. O quantomeno certifichi la sua esistenza. E poi Antonio, anziano prossimo alla morte, dedito ad affari la cui mancanza di limpidezza ha probabilmente bruciato e bucato la gola, uomo solo, bisognoso di cure mediche. Lottano, entrambi, per la sopravvivenza. E si scontrano: lei rapisce un neonato per rivenderlo in cambio di un’identità, aggredisce l’uomo, gli si installa in casa, lo sequestra nella sua stessa dimora. Poi, muti per divergenza linguistica e handicap fisico, si incontrano. Si guardano. Si comprendono. I gemelli De Serio, classe 1978, non sono una scommessa: le loro opere, tra installazioni, corti e documentari (l’ultimo, in ordine di tempo, è il bellissimo Bakroman), hanno girato il mondo, sono state premiate ovunque. E hanno creato una poetica riconoscibile, una visione del mondo e del cinema: un’arte che cammina verso i margini, che si muove lungo i bordi, che guarda e insegna a guardare al di là di ogni pregiudizio, di ogni significato automatico, cristallizzato, stantio. Per questo scelgono, per il loro esordio nel lungometraggio di finzione, di riempire il Cinemascope, il formato dello Spettacolo, dello spettacolo misero e umano della realtà. Per questo non ricorrono a facili drammatizzazioni, per questo creano vuoti ellittici in una narrazione potenzialmente piena di thrilling. Per questo non invitano all’immedesimazione classica, non addomesticano i personaggi per renderli gradevoli allo spettatore, per questo se ne fottono del manicheismo: non ci sono buoni e cattivi, qui. Ci sono uomini, prima che funzioni narrative. Per questo i cartelli che, tra Kieslowski e Godard, citano le sette opere di misericordia e punteggiano la storia si svestono dell’iniziale ironia, fino ad astrarsi dagli eventi mostrati. Perché questo è cinema, rarissimo oggi in Italia, che mostra la realtà e chiede di andare oltre, dallo stato delle cose allo spirito. Per questo parte dal vero e lo scolpisce nel tempo, con i suoi suoni, la sua luce: per dare forma a un concetto, a un sentimento di comprensione. E se il rigore si compiace, se l’idea di cinema si dice troppo esplicitamente, è per marcare la propria - già evidente - differenza: un neo giustificabile, in un’opera prima.

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Dal Vangelo secondo Matteo: 1. Dar da mangiare agli affamati; 2. Dar da bere agli assetati; 3. Vestire gli ignudi; 4. Alloggiare i pellegrini; 5. Visitare gli infermi; 6. Visitare i carcerati; 7. Seppellire i morti. Sono queste le sette opere di misericordia del titolo. Rilette in altra forma dai due gemelli De Serio, Gianluca e Massimiliano.

Se nel Vangelo queste sono quelle richieste dal Cristo, per ottenere il perdono dei peccati ed entrare nel suo regno, nel cinema dell’esordio dei fratelli De Serio queste diventano i sette fondamenti su cui si poggia un’estetica della vita e dell’azione, che al suo interno conserva, ma nello stesso tempo distrugge, ogni genere…

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E’ un film che si può sintetizzare in un unico aggettivo: crudele. Le sette opere di misericordia corporale (poi ci sono anche quelle spirituali perché giustamente sette sole non bastavano) sono quelle richieste da Gesù per guadagnarsi il regno del Padre. A prescindere dai significati cristiani la rappresentazione delle realtà proprie dei due protagonisti (con la superba espressività del sempre splendido Herlitzka) ben rappresenta alcune situazioni sociali e l’effettivo calvario di molte esistenze. Due percorsi pregni di differente sofferenza si scontrano, s’incontrano accudendosi e infine trovano due distinti e personali momenti di sofferta gratificazione nel “riscatto” del neonato e nel ravvedimento e restituzione dello stesso. La conseguente immancabile punizione evidenzia la componente “bestiale” di tanti umani a prescindere dall’etnia. Il film si chiude con l’unica speranza che, come sempre, dovrebbe risiedere nell’amore. A mio parere è un film che anche senza alcune ostinate sequenze (es: svestizione della moldava o nel finale assurdo persistere del bianco al lunotto del bus) e con qualche dialogo in più non avrebbe perso nulla del suo messaggio. In questo nasce il sospetto d’inutile forzatura verso il cinema d’essai…tranquilli gemelli! …anche con qualche taglio non sarebbe stato ugualmente un film per tutti.

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