martedì 31 ottobre 2023

Anatomia di una caduta - Justine Triet

un uomo muore, cadendo da una finestra, se ne accorge il figlio, praticamente cieco, la madre del bambino è la sospettata principale e subirà un processo.

marito e moglie sono due scrittori, lui in crisi creativa, lei baciata dal successo, gelosie, il figlio che ha perso la vista, i due non vanno d'accordo, come capita a molti.

dopo la morte di lui, lei è la colpevole perfetta, in tribunale quasi tutti sono certi della sua condanna, gli avvocati fanno il loro lavoro, più o meno sporco, difficile sentire in tribunale solo parole vere.

tutto sembra contro Sandra, ma c'è il figlio, non vede, ma sente, capisce e parla.

film abbastanza claustrofobico, ma non deluderà nessuno, promesso.

buona (misteriosa) visione - Ismaele




…due superbi attori: Swann Arlaud nel ruolo dell'avvocato Renzi e soprattutto Sandra Huller in quello della protagonista sua omonima (il che fa venire il sospetto che la parte sia stata scritta su di lei): la sua risata, allo stesso tempo salvifica e ferina, è al centro di una caratterizzazione magistrale.
Sandra Voyter non si relaziona alle persone se prima non ne ha individuato l'archetipo animale, e quale sia l'archetipo di Samuel lo si capirà solo alla fine. Nel frattempo emergerà tutta la disfunzionalità di una coppia in cui le rinunce dell'uno in nome dell'altra (e viceversa) sono vissute come imposizioni mal tollerate, e di un sistema giudiziario che preferisce soffermarsi sul come che sul perché di certe derive destinate a finire in tragedia.

Trier dirige avvicinandosi e allontanandosi dai suoi personaggi, talvolta oscurandoli e poi riportandoli in piena luce, altre volte dissociando l'immagine dal suono, senza abbandonarsi a inutili virtuosismi ma mettendosi a servizio di una storia di doppie verità e di invisibilità a se stessi, senza scene madri ma attraversata da mille piccoli scollinamenti morali. Anche i "trending topic" della contemporaneità - la fluidità di genere, le pari (o dispari) opportunità - sono gestiti con parsimonia, e spesso indicati più come manipolazioni retoriche che come circostanze rilevanti.
Perché la verità, suggerisce Triet, è scomoda e sottile, crea dissociazione e disagio. E la vita secondo la regista è "un caos in cui tutti siamo persi", dove la compulsione a giudicare è superiore alla disponibilità a comprendere, e tutti si sentono in credito: di attenzione, di riconoscimento, e soprattutto di amore privo di condizioni e giudizi.

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Si tratta di mettere in luce in primis gli automatismi, gli a priori, gli storytelling già dati, e di certificare la fallacia di questi tendenziosi schemi interpretativi del mondo (anche patriarcali, certo, ma non è mai il punctum del film, solo un elemento ulteriore, poi strumento di polemica per giornalisti cretini) di fronte al quotidiano di una coppia e di una famiglia, all’enigma impenetrabile del loro fragile e inspiegabile equilibrio. Come possono le parole dette a un terapista essere considerate prove e non all’opposto sfoghi irosi, autofiction catartiche e rincuoranti? Come è possibile cercare tracce di vero in un romanzo ispirato a fatti reali? Come spiegare che un rapporto extraconiugale non è sempre un tradimento? Come dimostrare che essere bisessuale non significa volersi accoppiare con ogni forma di vita? Ma soprattutto: come raccontare quella serie di spinte e controspinte silenziose, compromessi e sacrifici non detti, spazi concessi, perduti e taciuti che tengono insieme due persone, i loro dolori, i loro desideri? Non è da poco che il film si risolva con la deposizione del figlio, con il suo doppiare (e dunque falsificare?) il ricordo delle parole del padre: anche in questa scelta Anatomia di una caduta si rivela per quello che è, ovvero un grande film su come funziona l’amore, al netto di ogni opinione, oltre ogni possibile verità.

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…ci si ritrova in mezzo ad un’indagine processuale che è un capolavoro per capire una verità fondamentale: stare alla larga dai tribunali.

La povera (per modo di dire, anche lei ha le sue belle responsabilità) Sandra è messa sul tavolo del laboratorio e dissezionata, nulla sfugge al massacro, ci sono belle registrazioni di litigi violenti col marito che aveva il vizietto di fare questa cosa assurda, ma nella coppia può succedere, prendiamo nota a futura memoria.

Justine Triet ha una capacità formidabile di parlare dell’ambiguità della vita, delle certezze incrollabili che cadono in frantumi, dell’essere e dell’apparire in eterna competizione. La verità finisce là dove ne appare un’altra più convincente, chi abbiamo di fronte è carnefice o vittima?

Un film dalla sceneggiatura robusta, di forte eloquenza nel parlare di pieghe insondabili, i continui primi piani sul volto di lei e del figlio sono un’escavatrice che penetra nel loro intimo…

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lunedì 30 ottobre 2023

Cairo 678 - Mohamed Diab

opera prima di Mohamed Diab, regista egiziano davvero bravo.

la storia è quella di una donna (sostenuta da altre due) che si stanca di essere molestata e toccata in autobus, e non solo, e si difende come può.

ottimi attrici e attori per un film "rivoluzionario" nell'Egitto maschilista.

cercatelo, sarà una bella sorpresa.

buona (difensiva e femminista) visione - Ismaele


 

 QUI il film completo, con sottotitoli in inglese


 

… Un film immerso nella realtà del proprio paese, il racconto di un fenomeno sociale assai diffuso, quello delle molestie sessuali, ma troppo spesso culturalmente “soffocato”, reso “invisibile” dalle stesse vittime, un tabù (basti pensare che per il regista è stato molto difficile trovare attrici pronte a interpretare quei ruoli), qualcosa tanto presente nella vita di molte donne egiziane quanto non conosciuta o non percepita spesso nella sua reale portata, sebbene negli ultimi anni qualche passo in avanti ci sia stato. E un merito oggettivo, in questo senso, il film ce l’ha, perché è riuscito senz’altro a portare l’attenzione sul tema in patria, ad aprire varchi di discussione; del resto, se nelle figure di Fayza e Seba – come racconta il regista – confluiscono esperienze e caratteristiche di donne che ha incontrato, che hanno avuto il coraggio di raccontarsi a lui, la vicenda narrativa del personaggio di Nelly rimanda in maniera più diretta a un caso di cronaca di valore politico e storico di certo rilevante: il caso, cioè, di Noha Roshdy, la prima donna egiziana ad aver trascinato in tribunale il suo molestatore, poi condannato a tre anni di reclusione. La prima donna in Egitto, una sentenza del 2008, nulla di simile prima di allora, tutto questo ha catturato lo stupore e la curiosità di Diab, è stata la base fondamentale del film che sarebbe venuto.

Ma Cairo 678 pare custodire e anticipare, in effetti, anche certi umori sotterranei che quelle rivolte nelle strade contro il potere politico del paese avrebbero poi in qualche modo accolto, messo in circolo. Sotto il profilo della sua consistenza formale, invece, quest’opera si muove tra sprazzi quasi documentaristici, movimenti rapidi, nervosi e strutture e incroci che guardano al modello Arriaga-Iñárritu. Diab disegna bene psicologie e ferite, crisi e desideri di rivalsa, ma certi tentativi di entrare più in profondità sanno a volte di drammaturgia aggiuntiva, non mancano dunque sottolineature eccessive, ridondanti, momenti che se non vanno a scapito della tenuta per così dire ritmica, emotiva, del film, quantomeno indeboliscono la sua sostanza narrativa, la sua forza cinematografica, ed è un peccato perché, più che apparire come effettismi, sono elementi che scaturiscono da una scrittura non pienamente riuscita. Uomo e Donna qui sono poli, ma il regista – e in questo riesce molto bene – non crea dicotomie assolute, l’approccio è quello di chi vuole comprendere, imparare, scoprire, e in particolar modo il personaggio del poliziotto (Maged El Kedwany) si rivela, da questo punto di vista, scelta molto interessante, figura che conferisce maggiori complessità e sfumature all’insieme. C’è, insomma, del cinema nel Diab regista, ma deve “liberarsi” anche lui come Nelly.

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domenica 29 ottobre 2023

Killers of the Flower Moon - Martin Scorsese

Martin Scorsese non sbaglia un film da sempre, che il dio del Cinema lo conservi.

con una colonna sonora di Robbie Robertson (uno che di musica e indiani se ne intendeva) il film racconta una storia di rapina coordinata e continuativa ai danni delle tribù degli Osage, che abitavano in territori ricchi di petrolio.

il padrino della storia è William Hale (Robert De Niro), un padre padrone, amico paternalistico degli indiani Osage, regista del furto delle loro terre. Ernest (Leonardo DiCaprio) è il suo protetto, un uomo senza qualità, che sposa Mollie (Lily Gladstone), lei lo ama, lui forse, ma per conto del padrino, vuole i soldi di lei.

una scena sembra inutile, ma probabilmente è la più strana e rivelatirce del Potere.

il padrino fa parte della massoneria (quella di rito scozzese?), il Potere vero, Scorsese ci parla dell'oggi, di come nascono le ricchezze, le pulizie etniche, i furti di terre, e la massoneria regista e dominus di tutti.

il film dura tre ore e mezzo, sembra molto, ma tutti i minuti sono necessari per la storia, un western giallo, con l'FBI che riesce a dipanare la matassa.

il film è in molte sale, per fortuna, e lo stanno guardando in tanti, con sommo piacere, voglio pensare.

buona (imperdibile) visione - Ismaele


 

Con Killers of the Flower Moon Scorsese realizza il suo film più spirituale, ancor più di Silence: i paesaggi metafisici alla Wyeth sono il limbo cui sono confinate le anime; le visioni oniriche interpretano l’abisso interiore; mentre la ferocia primordiale ammantata di civiltà di De Niro/William Hale ci rimanda al male ineluttabile connaturato allo spirito dell’uomo.
Un film del genere, privo del gusto brillante della violenza, privo del piacere del sangue, ci lascia con un quadro impressionante e desolato del ciclico destino dell’uomo. C’è tanto presente rintracciabile nella Storia messa in scena da Scorsese, e di rado ho visto un film così narrativamente equilibrato e perfetto nei ritmi, nella costruzione psicologica dei personaggi (alcuni episodi hanno la poesia di un Edgar Lee Masters) e nel movimento temporale. La chiusa, bellissima, ci ricorda il piacere evocativo della rappresentazione. Killers of the Flower Moon rigetta l’eccesso, il sensazionalismo e la velocità per adottare un’estetica silenziosa e incorporea. Il cinema di Scorsese è divenuto un fantasma che cammina nella violenza del presente.

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In questo film che è un giallo, un mélo, un dramma storico, un legal thriller e – soprattutto – l’indagine forse definitiva sulla nascita di una nazione, genere a sé del cinema USA, l’81enne (quasi) Scorsese regola i conti anche con tutto il suo cinema. Killers of the Flower Moon è un’età dell’innocenza infranta, un racconto di goodfellas e di gangs, un teatro di infiltrati, con una (ultima) tentazione di spiritualità e natura eternamente profanata e il colore (nero) dei soldi che trasforma anche i più apparentemente candidi, vedi l’Ernest Burkhart di DiCaprio, in tassisti scatenati – il personaggio è, del resto, un autista.

Nel fare i conti col suo cinema, Scorsese dirige per la prima volta sul grande schermo i due feticci della sua opera: Robert De Niro che, in un filo che lega Taxi Driver a Quei bravi ragazzi a Cape Fear a The Irishman, resta l’essere diabolico che inizia al male, ma che dal male viene travolto; e Leonardo DiCaprio, l’anima fatalmente buona che si ritrova per destino avverso a scoprire il lato di sé più corrotto o corruttibile, in quel suo eterno romanzo di (de)formazione che va da Gangs of New York a Shutter Island.

Nel discorso che fa sul cinema suo e pure, dicevo all’inizio, sulla forma elastica e in progress che sta vivendo quest’arte oggi, Scorsese chiede allo spettatore inebetito da TikTok di passare 3 ore e 26 minuti in sala. E questo, in fin dei conti, è probabilmente l’atto più politico di tutti.

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Mentre scriveva Killers of the Flower Moon, il giornalista David Grann si è recato in Oklahoma per incontrare i membri della Osage Nation, tra cui la nipote di Ernest e Mollie, Margie Burkhart. Mentre era lì, interviste e archivi hanno portato alla luce prove di morti più misteriose nella contea di Osage su cui non si era mai indagato.

La ricerca di Grann lo portò a concludere che l’uccisione sistematica degli Osage per i loro diritti sul petrolio era “una vasta operazione criminale che stava raccogliendo milioni e milioni di dollari” attraverso frodi assicurative, appropriazione indebita e persone non Osage che uccidevano i loro coniugi Osage per denaro. William Hale ed Ernest Burkhart avevano pagato per i loro crimini, ma “ogni elemento della società era complice di questo sistema omicida”. E la maggior parte dei carnefici era riuscita a farla franca, scappando con milioni di dollari in ricchezza Osage. La storia è dunque complicata e non ancora del tutto alla luce del sole, e non c’è da stupirsi se l’occhio di Martin Scorsese è rimasto sedotto da questa storia tanto dal volerla raccontare al cinema!

Martin Scorsese, il suo cast e la troupe hanno trascorso molto tempo con gli storici di Osage e i leader della tribù durante lo sviluppo dell’adattamento cinematografico di Killers of the Flower Moon. Secondo quanto riferito, Scorsese e il suo co-sceneggiatore Eric Roth hanno riscritto la sceneggiatura dopo questi incontri, cambiando il fulcro della storia e spostandolo dalla formazione dell’FBI alla cultura e alle esperienze del popolo Osage. In una conferenza stampa successiva alla première mondiale del film, l’attuale leader della nazione Osage, Chief Standing Bear, ha descritto Killers of the Flower Moon come una storia sulla fiducia – tra Mollie e suo marito, così come tra gli Osage e il mondo esterno – e il “profondo tradimento” di quella fiducia. “La mia gente ha sofferto molto e fino ad oggi questi effetti sono con noi”, ha detto. “Ma posso dire, a nome degli Osage, che Martin Scorsese e il suo team hanno ripristinato quella ferita, e sappiamo che la fiducia non verrà tradita.”

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La storia di Killers of the Flower Moon si dipana gradualmente, seguendo il ritmo di una caccia spietata ma mai frenetica - la colonna sonora blues e rock di Robbie Robertson è quanto mai decisiva - come se ci fossero nascoste fisicamente delle trappole pronte a falciare animali inermi.

Se in un primo momento si poteva pensare a Killers of the Flower Moon come un western, vedendo il film di Scorsese la sua collocazione sembrerebbe guardare al noir. 

D’altronde John Ford ha insegnato che nel West se la leggenda diventa realtà vince la leggenda, e con l’epica dei racconti delle Grandi Praterie il massacro del popolo degli Osage non ha nulla a che spartire. 

Non è un caso perciò che uno dei colori predominanti in Killers of the Flower Moon sia il nero, un colore che assorbe la luce, che dà respiro al buio favorendo il branco di lupi pronto a fagocitare la terra pregna di sangue, depistando poi i segni di morte e del massacro compiuto. 

È un’opera silente sul Male quella di Martin Scorsese, visceralmente statunitense per come guarda alla bandiera a stelle e strisce con la consapevolezza della sua natura, vile e conquistatrice…

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Martin Scorsese mette nuovamente a nudo la malvagità dell’animo umano, la sua colpa e rivela uno dei (tanti) peccati americani della nascente (e forse anche presente) nazione statunitense. Una pagina di storia troppo spesso taciuta. Una prevaricazione che attraverso la scusa degli affari giustifica soprusi, violenze e delitti.

La fotografia perfetta, le interpretazioni magistrali, un consolidato e puntuale montaggio, una sceneggiatura estremamente curata fanno di “Killers of the flower Moon” un ennesimo capolavoro della filmografia del regista americano.

Lo spettatore potrebbe essere spaventato dalla durata “extra large” del minutaggio del film ma la trama viene sviluppata anche attraverso una sorta di thriller “a carte scoperte”. Un intreccio di malefatte sotto la luce del sole, talmente palesi da sembrare quasi irreali ma, purtroppo, ribadiscono la cattiveria di una parte della società degli anni ’20 americani che poi sarà la base per la creazione di altri “affari” quali mafia, gangster e malavita organizzata in generale.

“Killers of the flower moon” è un film che necessita di essere visto al cinema, con la concentrazione di non perdere nemmeno un minuto di un racconto che sarebbe delittuoso relegare alla sola visione distratta dello streaming.

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la prova di Robert De Niro è magistrale, in decisa controtendenza rispetto alle ultime interpretazioni, abbastanza deprimenti perché inserite in film stupidi: interpreta un vecchio patriarca dalle espressioni contrite e dall’azione manipolatoria e spietata, un finto amico degli indiani che si muove come la versione cerebrale del Robert Mitchum de La morte corre sul fiumeDiCaprio, invece, pare intrappolato in una recitazione a scatti, preda di tic non sempre motivati e di reazioni talvolta fuori sincrono, pur avendo il ruolo più interessante, quello di un personaggio stretto tra passione, obblighi di devozione e una friabile personalità…

la regia di Scorsese è quasi ipnotica: i movimenti di macchina accompagnano l’incedere dolente dei personaggi; i primissimi piani, soprattutto quelli sulla maschera di progressiva sofferenza di Lily Gladstone, la moglie indiana (e ricca) di DiCaprio, sono superfici in cui lo sguardo si fissa per smarrirsi, cullato da parole caratterizzate sempre da un senso duplice e occulto, espresse in una forma che nasconde una minaccia tesa all’annullamento della persona per assumerne funzioni e prerogative. A fare da collante al tutto, il soffuso accompagnamento musicale di Robbie Robertson, ex membro della Band e quindi già protagonista con Scorsese de L’ultimo valzer, quando la Band si sciolse, e mezzo indiano, perché la madre era una Mohawk. La musica di Robertson ha i toni del dark western, sembra un mantra funebre ossessivo che ambienta e angustia, tanto più se si pensa che quello che si sta ascoltando è il testamento del musicista, morto subito dopo aver ultimato il film, nello scorso agosto…

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venerdì 27 ottobre 2023

L'ARIA CHE TIRA - Giulio Sangiorgio

Alla luce delle ultime notizie che riguardano il futuro, anzi il presente, del rapporto tra le istituzioni e il cinema italiano, questa settimana pubblichiamo qui due contributi che vengono direttamente dal settimanale Film Tv e che affrontano l'uno la politica con cui vengono ripartiti i soldi ministeriali destinati a festival, premi e rassegne e il secondo i ventilati tagli dei finanziamenti al sistema industriale cinematografico italiano e le reazioni scomposte di certa stampa che coglie l'occasione per scagliarsi contro nemici antichi, a sproposito. Il tutto mentre il ministro Sangiuliano continua nella sua opera di smantellamento/rinnovamento nominando Pietrangelo Buttafuoco come nuovo presidente della Biennale di Venezia, una decisione che molto probabilmente si tradurrà in ulteriori cambiamenti nelle varie sezioni di cui si occupa la Fondazione tra le quali naturalmente c'è anche il cinema e la relativa Mostra.

Cercare un criterio
Pubblicate le graduatorie dei finanziamenti ministeriali a festival, premi e rassegne. Una traccia precisa della politica culturale italiana. Una di quelle prove provate dello status quo di cui nessuno scrive, per timore di effetti collaterali su carriere - quelle di giornalisti cinematografici, critici e programmer - d’estrema precarietà. Lo facciamo noi.

Primeggia, come d’abitudine, Giffoni, con 950 mila euro, a cui assommarne 50 mila per Giffoni Macedonia. Poi ci sono i soliti noti, a cominciare dall’impero di premietti di Pascal Vicedomini, che s’intasca 210 mila euro per Capri Film Festival (60 mila in più del 2022), 200 mila per il Global Film Festival di Ischia (50 in più) e 95 mila per il Los Angeles, Italia Film Festival. Anche le premiate ditte dei fratelli Casadonte aumentano la loro rilevanza, con il Magna Græcia Film Festival che celebra i suoi 20 anni (e 17 film in programma, la maggior parte dei quali già usciti in sala) con 250 mila euro, a cui aggiungere 100 mila per il Magna Graecia Experience III (rassegna dedicata agli studenti) e 25 mila per il premio Fondazione Mimmo Rotella. La Agnus Dei di Tiziana Rocca si porta a casa 100 mila euro per Filming in Italy in Sardegna 2023, 80 mila per Filming Italy Best Movie Award, 120 mila per Filming Italy Los Angeles, 80 mila per Filming Italy Il cinema incontra l’arte. Tutto si può dire, ma non che questi eventi promuovano il cinema come ricerca, storia, linguaggio. Al limite come evento culturale, pretesto mediatico, passerella.

Gerarchie dadaiste
Si escluda da questo discorso l’intelligente rilancio di Bellaria a opera della startup Approdi, che lascia al palo festival di simile qualità e misura e si garantisce un futuro roseo con 100 mila euro in più rispetto ai 60 dello scorso anno, finendo nella fascia alta del reddito (anche in queste tabelle non esiste la classe media) con un programma lodevole dedicato al cinema indipendente italiano (parola chiave, che non vale per Presente italiano di Pistoia, non finanziato). La gerarchia che si viene a creare mettendo in ordine i finanziamenti è dadaista, se si valutano i programmi: il Festival del cinema e della televisione di Benevento e il Comicon di Best Movie (120 mila euro a testa) valgono praticamente quanto le Giornate del cinema muto (135 mila) e la Settimana della critica (130 mila), festival storici come quello di Trieste (25 mila euro) contano metà di rassegne tanto lanciate nel futuro da non essere tracciate nemmeno da un proprio sito online (il Festival delle opere interattive, 50 mila euro), eventi con quattro film e tanti incontri sotto il sole come Marettimo (60 mila euro) contano quattro volte eccellenze d’alto livello come il Sicilia Queer di Palermo (15 mila).

Non si tratta di separare il bene dal male, ché ogni festival e rassegna ha un suo specifico, un suo perché, un suo valore territoriale indiscutibili, ma di capire: che i film per il governo sono strumenti per eventi ulteriori, che la commissione non valuta la qualità cinematografica dei programmi ma fattori differenti, che il mestiere del dirigente di un festival è soprattutto politico, non cinematografico. Che dire? Orgoglio italiano.


 da Film Tv n° 43 

giovedì 26 ottobre 2023

SOTTO TREGUA GAZA - Maria Nadotti e Giuseppe Baresi

 

 

con Marco Baliani, Giuseppe Cederna, Pippo Delbono, Silvia Gallerano, Sandro Lombardi, Andrea Lupo, Licia Maglietta, Anna Nogara, Maria Grazia Mandruzzato

Detour - Deviazione per l'inferno - Edgar G. Ulmer

un piccolo film, dura un'oretta, girato in pochi giorni, con un ritmo misterioso e implacabile, due protagonisti perfetti, con un grande regista, inganni su inganni, la maledizione del dollaro sempre in primo piano, scambi di persona, protagonista anche un bar che fa riposare, incontrare, pensare le persone.

un piccolo gioiellino da non perdere, non deluderà nessuno.

buona (implacabile) visione - Ismaele


 

QUI il film completo, in italiano

anche QUI il film completo, in italiano


 

 

Ed è qui che Ulmer compie il gesto filmico che fa la differenza tra un regista e un maestro: abbandona l’espressione stravolta del suo protagonista e, con una lieve panoramica in basso, fissa il quadro sul surreale dettaglio della tazza bianca di Al: una tazza palesemente fuori scala, evidente traslazione scenografica di quella vera tazza posata sul bancone alla quale abbiamo visto Al aggrapparsi. Una tazza che è la sua ancora di salvataggio per poter restare lì e allora, in quello spazio reale del Nevada Diner, lontano dal passato degli eventi accaduti che, di lì a qualche secondo, un’altra dissolvenza incrociata ci offrirà, giocando sull’allitterazione semantica tra il bordo della tazza, il cerchio del disco che gira nel juke-box (raggiunto intanto con una magnifica carrettata attraverso il buio irreale del bar) e la circonferenza della grancassa della batteria dell’orchestra che suonava quella canzone nel suo passato felice a New York...
È così che inizia Deviazione per l’inferno, magnifico road (to nowhere) movie seminale!

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In una classifica dei migliori Noir della Storia del cinema non dovrebbe mancare tra i primi dieci "Detour" di Edgar Ulmer, maestro del film a basso costo. Il fatalismo tipico del genere si fa vera poesia in una visione sconsolata del destino dell'Uomo, imprigionato in una esistenza dominata dal Caso che anticipa di parecchi decenni anche la tematica preferita del grande regista polacco Kieslowski. Le modalità espressive tipiche del B movie in questo caso funzionano a meraviglia, hanno stimolato il talento di Ulmer invece di limitarlo durante la lavorazione che durò solo sei giorni, con un budget misero e attori di secondo piano. La voce fuori campo è usata in abbondanza ma è indissociabile dall'universo Noir in cui bagna la trama e i personaggi, fra cui il più memorabile è la donna fatale di Ann Savage che ricatta il protagonista ma sarà punita dal destino "cinico e baro". La regia è virtuosa nella sua economia di mezzi anche se il famoso piano sequenza di sei minuti nella parte finale di cui parlavano molti critici è una leggenda metropolitana, come giustamente sottoscritto nella play list di Inside Man, perché l'inquadratura più lunga supera di poco il minuto. Per me resta forse il capolavoro di Ulmer, il suo film piu' completo,con una menzione anche per il bravo protagonista Tom Neale nel ruolo dello sfortunato Al Roberts.

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Un film incommensurabile, tra i più grandi capolavori dei prolifici Anni '40, e tra i più caratteristici sia per quanto riguarda la figura della femme fatale, in questo caso Ann Savage, che dà gli ordini, ricatta, compie giochi psicologici e gioca con le debolezze caratteriali. E' anche un film che tratta l'imprevedibilità delle esperienze nella vita. Al: "[..] di tutte le ragazze che pèotevano capitarmi, mi era capitato d'imbattermi proprio in quella ragazza [..] Nella vita qualunque strada un uomo decide di percorrere, se il destino gli è contrario, lo aspetta al varco e gli fa cambiare direzione."
Vera: "La vita è come una partita di baseball, devi sfruttare tutte le occasioni e non devi mai perdere di vista la palla."
La scena del litigio nel finale e la sequenza della mdp che inquadra ora il primo piano del viso di Vera sdraiata sul letto, ora la scrivania della camera da letto, ora la bottiglia vuota di brandy, ora il pavimento, con offuscamenti e messe a fuoco alternate, mentre Al recita l'ennesimo soliloquio, rimarrà d'antologia per l'intera storia del cinema.

Al nel finale: "[..] dovevo sparire [..] vagavo per la camera sotto l'effetto dello shock, tutto mi appariva come avvolto da una nebbia, non riuscivo a coordinare le idee [..] non sarei mai più potuto ritoranre a New York [..] ero a Beckersfield, la polizia cercava Charles Heskell, un uomo morto [..] Heskell mi aveva cacciato nei pasticci ed ora me ne tirava fuori [..] quale sarebbe stata la mia vita se non avessi chiesto ad Heskell quel passaggio [..] di una cosa sono certo, anzi certissimo.. un giorno una macchina si fermerà davanti a me, e questa volta senza che io abbia chiesto il passaggio... si! il destino: questa forza misteriosa. Può puntare il dito contro di me o contro di voi, senza una ragione apparente...."

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Ma tutto è funzionale, non c’è una sbavatura od un minuto di più. Nell’oretta di film è come entrare in una nube di fumo metropolitano nella quale è difficile addentrarsi, per poi uscirne e suonare nervosamente un pianoforte, fare l’autostop ed essere invasi dall’angoscia. Teso come il filo di un telefono attorcigliato al fine di suicidarsi, oscuro come una notte in autostrada, umido come una pioggia battente ed inaspettata, livido come un pensiero allucinante in un momento di crisi.

È un altro film sulla memoria (forse più sul ricordo), che prende accenti sfuocati ed incomprensibili, quasi a voler sottolineare per l’ennesima volta che niente è come sembra, che l’apparenza è la più grande fregatura in cui l’uomo possa imbattersi. Film sul caso e sul destino. Film sull’arcano che si fa verbo.

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… Raccontata dalla voce fuori campo del protagonista, presentato nella prima scena come un avventore scontroso all’interno di un diner dove si fermano per una breve sosta i viaggiatori delle highway, la storia di questo musicista fallito appare cupa come gli ambienti, perlopiù notturni e piovosi, che la accompagnano. Al si limita a desiderare, per sé e la sua donna, il minimo: nessun grande colpo o sogni di gloria artistica, solamente una vita tranquilla in qualche periferia della sterminata provincia americana. Ma il destino non lo accontenta, e ad ogni bivio Al sceglierà sempre la strada sbagliata. Lo racconta in un lungo flash back con un’amarezza priva di rabbia, come se la sua sorte fosse il pegno da pagare quando si nasce dalla parte sbagliata della scala sociale. E quando questo succede nella patria delle mille opportunità, dove la narrazione costante è quella di essere artefici della propria fortuna, perché arriva sempre un’occasione di cui approfittare, significa che i sogni di Al sono evaporati con la pioggia della notte.

Vera è una dark lady priva di fascino, di eleganza e di stile, interessata solo a fare quattrini, Al una vittima consapevole e svuotata di forze. Due losers che uniscono i propri destini senza riscatto, trascinandosi reciprocamente verso l’abisso: il loro incontro provoca un cortocircuito fatale, dal quale Al sarà costretto a fuggire tutta la vita, senza mai fermarsi, nell’attesa che qualcuno, in una notte come quelle in cui è ormai costretto a vivere, lo riconosca e lo tiri fuori dal suo incubo. 

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martedì 24 ottobre 2023

Dogman - Luc Besson

il film inizia così: "Ovunque ci sia un uomo infelice, Dio manda un cane a tenergli compagnia."

la storia è così verosimile da essere in realtà vera, quella di un bambino chiuso in gabbia con i cani, che ha colpito Luc Besson.

protagonista è un bambino che non dimentica i suoi amici fedeli e sinceri.

i cani non sono 101, sono solo 65, e tutti bravissimi.

l'interpretazione di Caleb Landry Jones, che è Dogman, è da premio Oscar, al festival di Venezia erano distratti, non se ne sono accorti.

il film è stato abbastanza maltrattato dai critici laureati, e anche in sala ha avuto poco successo, peccato per chi non l'ha ancora visto.

buona (canina e imperdibile) visione - Ismaele

 


ps: il film ricorda, per i cani, e per l'ultima scena, White god, di Kornél Mundruczó



 

 

Dogman è senza dubbio un film che merita di essere visto, e ancor di più è un film che, nonostante tutto, merita di essere amato, più che compreso. In un'ora e mezza circa, LucBesson mette tanta, forse troppa, carne al fuoco: il tema universale della famiglia, la fragilità umana, il rapporto tra l'uomo e il cane, la potenza del teatro, l'emarginazione, il fanatismo religioso, la disabilità, la fluidità di genere e chi più ne ha più ne metta. Altrettante sono le piste narrative affrontate con il linguaggio dei piu disparati generi cinematografici. Con spiazzante disinvoltura Besson passa dal thriller al drammatico, dall'action movie all'horror... Non mancano neppure scene che per usare un eufemismo rasentano il ridicolo, come quelle in cui i cani sono capaci di compiere azioni degne del miglior Tom Cruise in Mission Impossible, di Una Thurman in Kill Bill e perfino di Macaulay Culkin in Mamma ho perso l'aereo. I dialoghi, talvolta interessanti e molto accattivanti, sono per il resto pieni di banali luoghi comuni come la battuta "Più conosco gli uomini più amo i cani..." Ma ciò che rende Dogman un buon film sono tre elementi: il ritmo sempre incalzante; una trama capace di evocare tutta una serie di emozioni capaci di far dimenticare i passaggi meno convincenti del film; la performance immensa del protagonista Caleb Landry Jones, Dogman è un film che non va capito: lo guardi e ti lasci travolgere dalle emozioni, ignorando la necessità di doverti sempre spiegare tutto, perché in fondo funziona così ogni volta che si ha la fortuna di avventurarsi nel meraviglioso mondo delle favole!

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Ma cosa in fondo riscopre Besson? La pulsazione urbana che ci guida e ci rispecchia. Non antropomorfizza il non umano, ma difende la sua diversità, nella caratterizzazione della modernità. Quella pulsazione l’avverti dai sotterranei in cui si nasconde Douglas, in cui ha costruito una trappola perfetta per gli invasori del mondo soprastante. DogMan è una folata dark, un torrente insalubre. Forse è per questo che la sua sagoma su una sedia a rotelle si aggira per la metropoli, per le strade di celebri serial-killer, della cronaca nefasta. Anche la fugacità di un amore si mostra, per colei che, in età adolescenziale, gli ha insegnato ad amare il teatro, ad amare il travestimento, ad amare l’esibizione. Cattura quella fugacità, il fascino degli sguardi, perché Besson ha fatto un altro prepotente passo verso nuovi incontri, cattura quella seduzione e quella sensualità che la città offre a ogni angolo. Luc Besson però è anche stavolta un fenomenale sabotatore, non è il supereroe Douglas che cammina con noi e per noi, lo può fare solo per brevi spostamenti e può restare in piedi pochi istanti, il tempo di chiudere il sipario, prima di ripiombare a terra. La vendetta è servita verso se stesso, i suoi numerosi detrattori, in omaggio al suo cinema e i suoi personaggi preferiti e soprattutto a favore di quella costante attrazione per la maschera del disertore autoriale e l’inarrestabile, ancora una volta e per sempre, riflesso malinconico errante dei suoi ineguagliabili, ai più, orizzonti filosofico/scientifici.

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…Il film si apre con l'arresto del protagonista - un Caleb Landry Jones ormai specializzatosi in ruoli di figure ai margini della società - e si svolge diegeticamente lungo le 24 ore successive.  

Come spesso accade nel Cinema di Luc Besson sono i flashback a fare buona parte di costruzione del background del protagonista.

Malgrado abbia perso completamente la fiducia nel genere umano - tanto da preferire la compagnia canina e trovare sollievo solo nel travestimento, nella lettura e nel teatro - Doug non lesina atti di benevolenza, in piena coerenza con alcune delle figure più note della carriera del regista.

Luc Besson ha curato anche la sceneggiatura e la produzione del film e si è cimentato dunque nella preparazione di un prodotto che ormai padroneggia a memoria: un mix di dramma e thriller, su un reietto della società che riceve una seconda opportunità. 

Dogman contiene comunque diverse contaminazioni: con il suo tono generale quasi favolistico sembra richiamare al Cinema per ragazzi, ma le sue venature di violenza e di genere non ne permettono un'agevole catalogazione. A volte i fidi ed empatici cani di Doug si muovono come sgherri al servizio di un gangster e, per qualche minuto, il film si tinge di tinte da heist movie con una divagazione a dir poco bizzarra.

Il tutto mentre Doug oscilla tra follia ed empatia, imita Edith Piaf in un locale notturno, minaccia i criminali della zona e decanta in ogni modo il suo amore per i cani. 

Nel complesso, pur con tutti i suoi eccessi, Dogman dona a mio avviso dei momenti di Cinema in grado di toccare disparate corde in ogni categoria umana nel pubblico, con il rischio di indispettire gli spettatori in alcuni momenti, ma certamente senza mai lasciarli indifferenti…

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“Dog” è “God” al contrario. Stesse lettere, un semplice anagramma che si fa spazio in alcune scene anche con una certa evidenza grafica. Tutto il film comunque rimanda a una religiosità e credenza in Dio che è molto diversa a seconda dei personaggi che si incontrano.

Padre e fratello di Douglas risultano dei fanatici bigotti che non mettono in pratica nulla di quanto leggono o apprendono tramite la Bibbia. Douglas ne condivide un certo spirito, è fortemente credente a livello personale ma è ugualmente violento. “DogMan” presenta anche delle immagini create utilizzando la croce come simbolo incastrando il protagonista in una scenografia che, al tempo stesso è veicolo narrativo.

“Il cane è il dono di Dio a chi ha una ferita che procura dolore”

Questo l’incipit del film che troverà anche soluzione nella scena finale. Un film che tiene lo spettatore sempre in tensione e in modo fortemente ematico con il protagonista che racconta la sua storia per tappe. Malgrado, in questo caso, il fine non giustifica i mezzi, la figura di Douglas è molto ben scritta ed interpretata. Il film è sicuramente da vedere.

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…possiamo parlare bene quanto vogliamo di Dogman e dei virtuosismi registici di Besson, eppure sarebbe inimmaginabile concepire Dogman senza la sua star: Caleb Landry Jones è talmente magnetico e intenso che non si può non trepidare e "tifare" per lui, pur consapevoli del suo destino segnato. La sua performance è straordinaria (non si capisce come non abbia vinto la Coppa Volpi a Venezia, dove il film era in concorso, ma vedrete che sarà di sicuro tra i nominati agli Oscar) e riesce ad esprimere magnificamente il dolore e l'orrore di una vita talmente "particolare" e drammatica, specchio della sua terribile sofferenza e solitudine, alleviate solo dalla presenza simbiotica dei cani. Perchè, come si legge nella didascalia ad inizio film, "Ovunque ci sia un uomo infelice, Dio manda un cane a tenergli compagnia."

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Dogman è un gran bel film umano e umanista. E ciò proprio in virtù di trattare, in modo affascinante e pieno di colpi di scena, un caso drammatico di autismo e isolamento assoluto. Un film anche inconsueto e intenso, ottimamente recitato, oltre che dal protagonista, dalla psicologa altrettanto piagata dalla vita come Doug e dal cui interrogatorio apprendiamo il succedersi della storia. Senza parlare ovviamente della bravura espressiva dei cani (tutti di razze diverse) e della loro capacità di eseguire gli ordini ricevuti (altro che attori-cani!).

DogMan, dunque, vive e si illumina sull’idea che mentre la società non ti aiuta a guarire, è l’amore degli animali per il loro padrone il fattore catalizzante e salvifico, ed esso porta il reietto Doug a raggiungere la sua serenità finale in un finale quasi cristologico davanti ad una chiesa. Ma sì facciamo, come ci chiede il regista, il “tifo” per il nostro protagonista.
Assolutamente consigliabile per la sua ottima tavolozza di emozioni anche a chi predilige solo i felini.

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… è innegabile come Dogman sia, prima di ogni altra cosa, un affascinante viaggio all’interno di una psiche in tumulto. Dagli abusi paterni, rinchiuso in gabbia insieme ai cani, sino alla parentesi come sfrenata mimesi drag di Édith Piaf, il protagonista del film sviscera tutto se stesso, appellandosi al suo statuto di emarginato, all’amore dei cani (che, sostiene Douglas, sono capaci di amare di più dell’uomo), alle possibilità che gli sono state precluse a causa delle sue difficoltà a camminare. Douglas è un uomo sofferente, fragile, smarrito tra gli orizzonti di un mondo disconnesso che lo ha rigettato.

Tutto il resto è sfondo, in una tela narrativa che si rivela progressivamente come una parabola dal sapore quasi cristologico, con il rapporto con il divino che assurge per Douglas ad unica chiave interpretativa rimasta per cercare di attribuire un senso alla sua vita. Si tratta di uno studio del personaggio potente e inaspettato, guidato da un Caleb Landry Jones pienamente calato nella parte, afflitto, abbattuto, a tratti animalesco, ma anche incredibilmente lucido e divertente nei suoi spettacoli come drag queen, teatrale, sentimentale e passionale, in quello che è il miglior film di Besson dai tempi de Il quinto elemento.

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…Identità fortissima quella di Caleb Landry Jones, attore che si porta sulle spalle l’intero peso del film. Jones riesce a caratterizzare Douglas in maniera tutt’altro che superficiale, riuscendo nel difficile equilibrio di mostrarsi fragile e duro, perverso e gentile. Per tutte le due ore di durata del film, come spettatori potremmo avere tutte le ragioni per odiare il protagonista, ma questo sentimento non ci colpisce mai. E se risulta veramente difficile poter tifare per lui (anche se in certe occasioni l’empatia si fa più forte), non manca mai quella sensazione di comprensione della persona, essenziale per la riuscita del film.

Ma è soprattutto nel modo in cui parla, specie con gli occhi, che Jones primeggia. Capace di cambiare il tono del film nel giro di un’inquadratura, in un sorriso malizioso, nel modo in cui osserva ciò che sta intorno a lui, lasciando trasparire rabbia, rassegnazione e rancore, il suo Douglas è uno dei personaggi più forti visti finora al Festival di Venezia 2023. Tanto che, nonostante un finale in cui si tenta un’emozione maggiore, troppo ricercata per poter colpire con forte sincerità, adombra tutto il resto del cast, davvero troppo anonimo. Ad eccezione dei numerosi cani che riempiono la storia, capaci di colorare non solo l’esistenza del protagonista, ma parecchie scene del film. Anche in questo caso il rapporto tra l’uomo e l’animale regala una particolare alchimia che eleva il film…

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"Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane."

E con questa frase del poeta Alphonse de Lamartine, Luc Besson apre il suo film e ci fa immergere in un mondo in cui l’infelicità la fa da padrone. Senza sconti per nessuno.

E forse per questo motivo che per tutto il film sono rimasto incollato alle sofferenze del protagonista, al modo con cui sono state raccontate, alle emozioni e alle lacrime che la narrazione di Luc Besson ci porta. Senza toni ricattatori, l’empatia nasce spontanea come quando due anime gemelle si incontrano per la prima volta.

Alla base di Dogman c’è la storia vera di un ragazzo cresciuto dentro una gabbia e che ha toccato profondamente il regista che ha deciso di rappresentare il dolore, di come le violenze giovanili possano segnare e trasformare per sempre le persone tirando fuori quel lato cattivo che non credevano di avere.

Il film si apre con l’incontro di due anime lacerate dalla vita: da una parte Douglas un ragazzo in sedia a rotelle travestito da Marilyn Monroe e dall’altro una psichiatra svegliata nel cuore della notte che deve capire il segreto che si cela dietro questo stranissimo personaggio.

E così Douglas racconta il suo dolore all’unica persona che lo può capire perché i diversi si annusano, si riconoscono e si scelgono. Un po’ come successe tra Leon il killer bambino e Matilda la bambina killer o Nikita la tossica che nessuno vuole, riprogrammata per fare giustizia ma non per amare.

Douglas è un ragazzo cresciuto tra le botte senza motivo di un padre violento e l’anaffettività di una madre troppo debole per difenderlo che preferisce la fuga per una vita migliore. Costretto a vivere dentro una gabbia in compagnia dei cani che il genitore allevava per i combattimenti clandestini, oppresso da una religiosità invadente che tutto accetta “In the name of God”. Un God che rovesciato diventa un Dog che indirizzerà per sempre la vita del giovane Douglas.

Luc Besson decide di rappresentare questa vita dolorosa facendo un mix di generi ma risultando un’opera comunque originale, con una sua personalità che evidenzia la mano autoriale del regista.

Si inizia come un racconto Dickensiano dove i continui maltrattamenti costringeranno il protagonista all’immobilismo e dove la sedia a rotelle è sia salvezza che strumento di tortura visto che lui può stare in piedi e camminare solo per qualche minuto altrimenti va incontro a morte certa. Si trasforma in un’illusoria storia d’amore contrassegnata da tutta la poesia e la crudeltà di William Shakespeare, fino ad arrivare al più classico degli action movie con tanto sangue dove il protagonista si trasforma in un Villain/ Eroe accompagnato dal suo esercito fedele composto da cani di tutte le razze disposti a tutto per di difendere il loro capo branco.

Il grande merito di Besson è di aver scelto come protagonista un Caleb Landry Jones, già vincitore come migliore attore un paio di anni fa a Cannes, in stato di grazia che condensa sul suo corpo tutto lo strazio del dolore subito trovando conforto e protezione nella trasformazione di genere dentro un Queer Club.

E così tra un’intensa e disperata Edith Piaff e una seducente e conturbante Marlene Dietrich, compie il suo percorso verso il suo destino.

Dogman è un bellissimo film che parla di salvezza e redenzione, di diversità e dolore, di ricerca dell’amore totale che si trasforma nella scoperta dell’amore non convenzionale.

Il tutto all’interno di una valle di lacrime che sia quella dove vive il protagonista sia quella che sgorga dagli occhi dello spettatore al termine delle 2 emozionanti ore.

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lunedì 23 ottobre 2023

Kafka a Teheran - Ali Asgari e Alireza Khatami

dialoghi monchi, l'autorità, chi comanda, chi opprime non si vede, non ne ha bisogno, gli autori non ce li mostrano, gli oppressori, forse anche questa è una forma di (giusto) disprezzo.

i nove perseguitati, a vari livelli, umiliati e offesi, devono difendersi, giustificarsi, soffrire per (non) ottenere dei minimi diritti civili e umani.

se in qualche momento si sorride, passa subito, non preoccupatevi.

al cinema in pochissime sale.

buona (terribile) visione - Ismaele

 

 

…La potenza della parola diventa a tutti gli effetti onnipresente grazie allo stile minimal scelto dai due registi iraniani: la colonna sonora è quasi del tutto assente, a nove episodi – escludendo l’epilogo catastrofico – corrispondono nove long take a telecamera fissa, dove ad essere inquadrati sono soltanto gli accusati, mentre gli inquisitori restano sinistramente sullo sfondo. Lo spettatore, dunque, si ritrova catapultato su scene spiazzanti e a tratti orrorifiche, i cui dialoghi presentano per giunta chiare venature grottesche. Scene di vita quasi kafkiane, dove la risata, se c’è, è amarissima e si eclissa immediatamente nell’assurdità della vicenda narrata. Da qui si spiega il titolo italiano Kafka a Teheran: meno impattante dell’originale, ma tutto sommato valido.

Al terribile realismo dei nove episodi fa infine da contrappunto un epilogo ricco di simbolismi, che sembra richiamare certi film massimalisti di un certo cinema occidentale. Il terremoto che scuote le fondamenta di un intero paese, la natura che si riprende i suoi spazi a discapito dell’uomo piccolo e impotente. Necessità e oblio, materialismo e distruzione raccontati in chiave magistrale prima da Robert Altman in Short Cuts – America oggi in Italia -, e poi dal suo allievo Paul Thomas Anderson in MagnoliaL’umanità annientata per la sua disumanità, e di conseguenza lo scotto pagato paradossalmente da chi cerca di raccontare questa concreta possibilità, come testimonia il fatto che a uno dei due registi di Kafka a TeheranAli Asgari, è stato confiscato il passaporto e proibito di realizzare un nuovo film.

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I due registi hanno fatto un lavoro di resistenza civile che deve essere costato non poca fatica, espedienti e rischi e che non avrà spazio di visione in Iran. Perché questo è un cinema di denuncia sociale che, con grande semplicità di mezzi e con un approccio estremamente diretto alla realtà, sa comunicare con efficacia il proprio grido di ribellione molto più di altre opere formalmente elaborate ma distanti anni luce da una fruizione non intellettualisticamente di nicchia...

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Kafkiana, appunto. A raccontarcelo, con uno stile essenziale e sempre uguale (macchina da presa immobile, un solo soggetto in campo a duellare a parole con il vessatore di turno di cui udiamo soltanto la voce), sono due registi - Ali Asgari e Alireza Khatami - che rinfoltiscono la schiera di una delle migliori cinematografie al mondo, costretta quasi costantemente nella cattività di spazi raccolti, inosservabili dall'esterno, che permettano di girare film coraggiosissimi come questo. Ai capolavori di Farhadi, Majidi, Javidi e Jalilvand si aggiunge questa opera insolita, aperta e chiusa dalla minaccia sorda del terremoto, metafora di una nazione fatta di burocrazia ottusa, maschilismo imperante, abusi di potere, fondamentalismo religioso: tutto quello che, con altrettanta rapidità, potrebbe diventare l'Occidente in un futuro distopico non così lontano.

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non c'è mai un colpevole, poichè chi è nascosto dalla telecamera e guarda il giudicato osserva regole indiscutibili poichè scritte nel libro sacro e quindi insindacabili, anche nel momento in cui non si è liberi di togliersi il velo nemmeno nella prorpia casa, se qualcuno dalla finestra può vedere.

e non è il vedere l'atto criminoso, se mai ci fosse del crimine nel vedere; bensì l'essere guardato o peggio guardata.

poichè il vedere implica l'essere vista.

possedere tatuaggi di una nota poesia iraniana non è ritenuto normale, ma sentirsi chiedere di spogliarsi integralmente di fronte ad un funzionario statale per mostrarglieli, lo è.

è un crimine avere i capelli corti per non poter fissare il velo con le forcine; è un crimine prendere un antiacido, possedere un cane(animale considerato impuro), essere una bambina a cui piace ballare, capirai il non conoscere versi del corano.

il potere vuole sapere il perchè di ogni cosa, il perchè di un anti acido, il perchè di una maglietta con su topolino; il potere impone cosa è normale e cosa non lo è.

il potere ti concede di fare domande, ma il fare domande potrebbe essere considerato sconveniente; se non hai nulla da nascondere perchè insistere a chiedere…

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A raccontarcelo, con uno stile essenziale e sempre uguale (macchina da presa immobile, un solo soggetto in campo a duellare a parole con il vessatore di turno di cui udiamo soltanto la voce), sono due registi - Ali Asgari e Alireza Khatami - che rinfoltiscono la schiera di una delle migliori cinematografie al mondo, costretta quasi costantemente nella cattività di spazi raccolti, inosservabili dall'esterno, che permettano di girare film coraggiosissimi come questo. Ai capolavori di Farhadi, Majidi, Javidi e Jalilvand si aggiunge questa opera insolita, aperta e chiusa dalla minaccia sorda del terremoto, metafora di una nazione fatta di burocrazia ottusa, maschilismo imperante, abusi di potere, fondamentalismo religioso: tutto quello che, con altrettanta rapidità, potrebbe diventare l'Occidente in un futuro distopico non così lontano.

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Lo sfondo macroscopico è Teheran dove milioni di persone vivono una guerra ininterrotta ai lati opposti di un fronte ipotetico, che la divide: una moltitudine in cerca di normalità ed un’altra composta dai fanatici del regime dietro cui nascondono i propri soprusi. Censura e ricatto, ed una legge sacra da esibire come giustificazione contro il peccato di volere un’esistenza ordinaria priva di stupidi divieti. La morale è abbastanza chiara, il male non si nasconde nell’ombra, è radicato nel territorio e si alimenta grazie alla corruzione e le delazioni. Il tono complessivo è in linea con la premessa di normalità e di poco artefatto, e le drammatiche conseguenze nascono da un clima dai tratti aberranti, provocando lo sdegno dopo aver soffocato una risata amara.

Regrediti dopo la rivoluzione Khomeinista, ormai passato remoto, i diritti civili in Iran hanno subito una drastica battuta d’arresto, riservando alle donne la condanna più pesante, quella di essere il bersaglio preferito dei fondamentalisti, come il film non manca di rimarcare. La piccola durata, poco più di settanta minuti, non intaccano l’enorme valore politico di denuncia e la potenza del messaggio, una voce che con il suo disappunto intelligente, nei modi e nei tempi ordinati spinge a lottare ogni giorno contro chi vorrebbe ridurti al silenzio.

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domenica 22 ottobre 2023

Wake in Fright – Ted Kotcheff

un film che non lascia scampo, il povero maestro di città non risce a fuggire dall'outback australiano.e come ne "La leggenda del santo bevitore" una potente e implacabile calamita gli nega la salvezza.

i due protagonisti Gary Bond e Donald Pleasence sono eccezionali.

il film è un gioiellino da (ri)scoprire, promesso.

buona (prigioniera) visione - Ismaele


 

 

 

Ozploitation è una parola magica. Il cinema di genere australiano ha sempre mantenuto delle caratteristiche ben precise, il più delle volte legate ai netti contrasti del territorio: da un lato le città e le sviluppate zone costiere del sud, dall’altro l’outback ovvero le aree semidesertiche dell’interno, queste ultime viste come controparte negativa, pericolosa e retrograda. Proprio “Outback” è il titolo alternativo con il quale fu rilasciato “Wake In Fright”, pietra miliare del cinema aussie e documento imprescindibile per afferrare a pieno i concetti di cui sopra (civilizzazione vs abbrutimento), una pellicola per anni scomparsa dalla circolazione e solo nel 2009 restaurata per poi essere distribuita sia in dvd che in blu-ray.
John Grant è un maestro che lavora nella remota località di Tiboonda. Durante un viaggio verso Sydney (qui vive la sua ragazza), è costretto a fermarsi in una piccola cittadina denominata dagli abitanti Yabba, dove viene (suo malgrado) inoltrato nelle usanze tipiche degli uomini di quel luogo: gioco d’azzardo, alcool a fiumi e caccia al canguro, una vita primordiale nella quale non c’è posto per le donne, ma solo per una sporca routine fatta di autodistruzione. Il protagonista è costretto ad adeguarsi alla comunità trasformandosi in una bestia tra le bestie, in un paese nel quale l’acqua serve solo per lavarsi e dove non ci si scandalizza per uno stupro, ma solo per il rifiuto di un boccale di birra (“Have a drink, mate? Have a fight, mate? Have a taste of dust and sweat, mate? There’s nothing else out here”).
Il film fu vietato ai minori di diciotto anni per una scena controversa, quella della caccia al canguro: immagini vere, catturate durante la notte e pescate da un filmato realizzato da bracconieri professionisti. Ted Kotcheff (vegetariano dichiarato) ha sempre difeso questa sequenza di hunting footage dagli attacchi della censura, considerandola un atto di denuncia per la salvaguardia di questi marsupiali nel continente. Ma nel 2009, quando il film fu proiettato a Cannes, durante la scena incriminata dodici persone abbandonarono la sala.
Il realismo che si respira in “Wake In Fright” è impressionante, la fotografia è intrisa di una luce accecante, un giallo sudicio che avvolge lo spettatore in un lurido abbraccio di polvere e sudore. Però a funzionare è soprattutto il comparto attoriale, con Gary Bond e Donald Pleasence veri mattatori di un’opera divenuta di culto non solo in terra australiana (tra i suoi estimatori, ricordiamo Martin Scorsese e Nick Cave). Un film crudele (basato su un libro di Kenneth Cook del 1961), in un luogo dove le regole del quieto vivere borghese sono completamente ribaltate, un punto di partenza cruciale per il cinema ozploitation e per tutte quelle pellicole che seguiranno questi passi nella sabbia, in un mondo violento e senza umanità.
Ted Kotcheff, undici anni prima di dirigere “Rambo”, è entrato nella storia dalla porta principale, ma alcuni non lo sanno. Un ingresso trionfale che ha lasciato dei solchi profondi nel lungo cammino del cinema di genere australiano.

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Fatta la necessaria tara a certe convenzioni estetiche e di linguaggio da film con quarant'anni sulle spalle, Wake in Fright è un pugno nello stomaco ancora oggi, per il modo in cui alza continuamente la posta e per singole scene fortissime, tra le quali spicca quella già citata in cui viene mostrata una brutale caccia al canguro, ripresa seguendo dei veri cacciatori scatenati nella notte. C'è anche, va detto, una vena satirica che scorre lungo tutto il film e strappa più di una risata, ma che non riesce mai a levare di dosso una profonda sensazione di disagio. Non c'è da stupirsi se il popolo ritratto dal film si è preso male, ma la verità è che, purtroppo, nulla di quel che viene mostrato, al di là di alcuni atteggiamenti esasperati per amor d'effetto inquietante, m'è parso poi così improbabile. Diretto e interpretato benissimo, incredibilmente evocativo nell'utilizzo che fa dei suoi paesaggi, Wake in Fright mi ha un po' ricordato The Wicker Man, per il modo in cui racconta il viaggio all'inferno di un uomo assorbito dalle assurdità della profonda provincia. La differenza sta nel fatto che nel film di Ted Kotcheff non ci sono strane cospirazioni e culti pagani, c'è solo la brutale normalità dell'essere umano abbandonato a se stesso. E forse per questo fa molta più paura.

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