un uomo muore, cadendo da una finestra, se ne accorge il figlio, praticamente cieco, la madre del bambino è la sospettata principale e subirà un processo.
marito e moglie sono due scrittori, lui in crisi creativa, lei baciata dal successo, gelosie, il figlio che ha perso la vista, i due non vanno d'accordo, come capita a molti.
dopo la morte di lui, lei è la colpevole perfetta, in tribunale quasi tutti sono certi della sua condanna, gli avvocati fanno il loro lavoro, più o meno sporco, difficile sentire in tribunale solo parole vere.
tutto sembra contro Sandra, ma c'è il figlio, non vede, ma sente, capisce e parla.
film abbastanza claustrofobico, ma non deluderà nessuno, promesso.
buona (misteriosa) visione - Ismaele
…due superbi attori: Swann Arlaud nel ruolo
dell'avvocato Renzi e soprattutto Sandra Huller in quello della protagonista
sua omonima (il che fa venire il sospetto che la parte sia stata scritta su di
lei): la sua risata, allo stesso tempo salvifica e ferina, è al centro di una
caratterizzazione magistrale.
Sandra Voyter non si relaziona alle persone se prima non ne ha individuato
l'archetipo animale, e quale sia l'archetipo di Samuel lo si capirà solo alla
fine. Nel frattempo emergerà tutta la disfunzionalità di una coppia in cui le
rinunce dell'uno in nome dell'altra (e viceversa) sono vissute come imposizioni
mal tollerate, e di un sistema giudiziario che preferisce soffermarsi sul come
che sul perché di certe derive destinate a finire in tragedia.
Trier dirige avvicinandosi e allontanandosi dai
suoi personaggi, talvolta oscurandoli e poi riportandoli in piena luce, altre
volte dissociando l'immagine dal suono, senza abbandonarsi a inutili
virtuosismi ma mettendosi a servizio di una storia di doppie verità e di
invisibilità a se stessi, senza scene madri ma attraversata da mille piccoli
scollinamenti morali. Anche i "trending topic" della contemporaneità
- la fluidità di genere, le pari (o dispari) opportunità - sono gestiti con
parsimonia, e spesso indicati più come manipolazioni retoriche che come
circostanze rilevanti.
Perché la verità, suggerisce Triet, è scomoda e sottile, crea dissociazione e
disagio. E la vita secondo la regista è "un caos in cui tutti siamo
persi", dove la compulsione a giudicare è superiore alla disponibilità a
comprendere, e tutti si sentono in credito: di attenzione, di riconoscimento, e
soprattutto di amore privo di condizioni e giudizi.
Si tratta di mettere in luce in primis gli automatismi, gli a priori, gli storytelling già dati, e di certificare la fallacia di questi
tendenziosi schemi interpretativi del mondo (anche patriarcali, certo, ma non è
mai il punctum del film, solo un elemento ulteriore, poi strumento di
polemica per giornalisti cretini) di fronte al quotidiano di una coppia e di
una famiglia, all’enigma impenetrabile del loro fragile e inspiegabile
equilibrio. Come possono le parole dette a un terapista essere considerate
prove e non all’opposto sfoghi irosi, autofiction catartiche e rincuoranti?
Come è possibile cercare tracce di vero in un romanzo ispirato a fatti reali?
Come spiegare che un rapporto extraconiugale non è sempre un tradimento? Come dimostrare
che essere bisessuale non significa volersi accoppiare con ogni forma di vita?
Ma soprattutto: come raccontare quella serie di spinte e controspinte
silenziose, compromessi e sacrifici non detti, spazi concessi, perduti e
taciuti che tengono insieme due persone, i loro dolori, i loro desideri? Non è
da poco che il film si risolva con la deposizione del figlio, con il suo
doppiare (e dunque falsificare?) il ricordo delle parole del padre: anche in
questa scelta Anatomia di una caduta si rivela per quello che è, ovvero un grande film su come
funziona l’amore, al netto di ogni opinione, oltre ogni possibile verità.
… Un film
immerso nella realtà del proprio paese, il racconto di un fenomeno sociale
assai diffuso, quello delle molestie sessuali, ma troppo spesso culturalmente
“soffocato”, reso “invisibile” dalle stesse vittime, un tabù (basti pensare che
per il regista è stato molto difficile trovare attrici pronte a interpretare
quei ruoli), qualcosa tanto presente nella vita di molte donne egiziane quanto
non conosciuta o non percepita spesso nella sua reale portata, sebbene negli
ultimi anni qualche passo in avanti ci sia stato. E un merito oggettivo, in
questo senso, il film ce l’ha, perché è riuscito senz’altro a portare
l’attenzione sul tema in patria, ad aprire varchi di discussione; del resto, se
nelle figure di Fayza e Seba – come racconta il regista – confluiscono
esperienze e caratteristiche di donne che ha incontrato, che hanno avuto il
coraggio di raccontarsi a lui, la vicenda narrativa del personaggio di Nelly
rimanda in maniera più diretta a un caso di cronaca di valore politico e storico di
certo rilevante: il caso, cioè, di Noha Roshdy, la prima donna egiziana ad aver
trascinato in tribunale il suo molestatore, poi condannato a tre anni di
reclusione. La prima donna in Egitto, una sentenza del 2008, nulla di simile
prima di allora, tutto questo ha catturato lo stupore e la curiosità di Diab, è
stata la base fondamentale del film che sarebbe venuto.
Ma Cairo
678 pare custodire e anticipare, in effetti, anche certi umori
sotterranei che quelle rivolte nelle strade contro il potere politico del paese
avrebbero poi in qualche modo accolto, messo in circolo. Sotto il profilo della
sua consistenza formale, invece, quest’opera si muove tra sprazzi quasi
documentaristici, movimenti rapidi, nervosi e strutture e incroci che guardano
al modello Arriaga-Iñárritu. Diab disegna bene psicologie e ferite, crisi e
desideri di rivalsa, ma certi tentativi di entrare più in profondità sanno a
volte di drammaturgia aggiuntiva, non mancano dunque sottolineature eccessive,
ridondanti, momenti che se non vanno a scapito della tenuta per così dire
ritmica, emotiva, del film, quantomeno indeboliscono la sua sostanza narrativa,
la sua forza cinematografica, ed è un peccato perché, più che apparire come
effettismi, sono elementi che scaturiscono da una scrittura non pienamente
riuscita. Uomo e Donna qui sono poli, ma il regista – e in questo riesce molto
bene – non crea dicotomie assolute, l’approccio è quello di chi vuole
comprendere, imparare, scoprire, e in particolar modo il
personaggio del poliziotto (Maged El Kedwany) si rivela, da questo punto di
vista, scelta molto interessante, figura che conferisce maggiori complessità e
sfumature all’insieme. C’è, insomma, del cinema nel Diab regista, ma deve
“liberarsi” anche lui come Nelly.
Martin Scorsese non sbaglia un film da sempre, che il dio del Cinema lo conservi.
con una colonna sonora di Robbie Robertson (uno che di musica e indiani se ne intendeva) il film racconta una storia di rapina coordinata e continuativa ai danni delle tribù degli Osage, che abitavano in territori ricchi di petrolio.
il padrino della storia è William Hale (Robert De Niro), un padre padrone, amico paternalistico degli indiani Osage, regista del furto delle loro terre. Ernest (Leonardo DiCaprio) è il suo protetto, un uomo senza qualità, che sposa Mollie (Lily Gladstone), lei lo ama, lui forse, ma per conto del padrino, vuole i soldi di lei.
una scena sembra inutile, ma probabilmente è la più strana e rivelatirce del Potere.
il padrino fa parte della massoneria (quella di rito scozzese?), il Potere vero, Scorsese ci parla dell'oggi, di come nascono le ricchezze, le pulizie etniche, i furti di terre, e la massoneria regista e dominus di tutti.
il film dura tre ore e mezzo, sembra molto, ma tutti i minuti sono necessari per la storia, un western giallo, con l'FBI che riesce a dipanare la matassa.
il film è in molte sale, per fortuna, e lo stanno guardando in tanti, con sommo piacere, voglio pensare.
buona (imperdibile) visione - Ismaele
…Con Killers
of the Flower Moon Scorsese realizza il suo film più
spirituale, ancor più di Silence:
i paesaggi metafisici alla Wyeth sono il limbo cui sono confinate le anime; le
visioni oniriche interpretano l’abisso interiore; mentre la ferocia primordiale
ammantata di civiltà di De Niro/William Hale ci rimanda al male ineluttabile
connaturato allo spirito dell’uomo. Un film del genere, privo del gusto brillante
della violenza, privo del piacere del sangue, ci lascia con un quadro
impressionante e desolato del ciclico destino dell’uomo. C’è tanto presente
rintracciabile nella Storia messa in scena da Scorsese, e di rado ho visto un
film così narrativamente equilibrato e perfetto nei ritmi, nella costruzione
psicologica dei personaggi (alcuni episodi hanno la poesia di un Edgar Lee
Masters) e nel movimento temporale. La chiusa, bellissima, ci ricorda il
piacere evocativo della rappresentazione. Killers
of the Flower Moon rigetta l’eccesso, il sensazionalismo e
la velocità per adottare un’estetica silenziosa e incorporea. Il cinema di
Scorsese è divenuto un fantasma che cammina nella violenza del presente.
…In questo film che è un giallo, un mélo, un dramma
storico, un legal thriller e – soprattutto – l’indagine
forse definitiva sulla nascita di una nazione, genere a sé del cinema USA,
l’81enne (quasi) Scorsese regola i conti anche con tutto il suo cinema. Killers
of the Flower Moon è un’età dell’innocenza infranta, un racconto
di goodfellas e di gangs, un teatro di
infiltrati, con una (ultima) tentazione di spiritualità e natura eternamente
profanata e il colore (nero) dei soldi che trasforma anche i più apparentemente
candidi, vedi l’Ernest Burkhart di DiCaprio, in tassisti scatenati – il
personaggio è, del resto, un autista.
Nel fare i conti col suo cinema, Scorsese dirige per la
prima volta sul grande schermo i due feticci della sua opera: Robert De Niro
che, in un filo che lega Taxi Driver a Quei bravi
ragazzi a Cape Fear a The Irishman,
resta l’essere diabolico che inizia al male, ma che dal male viene travolto; e
Leonardo DiCaprio, l’anima fatalmente buona che si ritrova per destino avverso
a scoprire il lato di sé più corrotto o corruttibile, in quel suo eterno
romanzo di (de)formazione che va da Gangs of New York a Shutter
Island.
Nel discorso che fa sul cinema suo e pure,
dicevo all’inizio, sulla forma elastica e in progress che
sta vivendo quest’arte oggi, Scorsese chiede allo spettatore inebetito da
TikTok di passare 3 ore e 26 minuti in sala. E questo, in fin dei conti, è
probabilmente l’atto più politico di tutti.
…Mentre scriveva Killers of the Flower Moon, il
giornalista David Grann si è recato in Oklahoma per incontrare i membri della
Osage Nation, tra cui la nipote di Ernest e Mollie, Margie Burkhart. Mentre era
lì, interviste e archivi hanno portato alla luce prove di morti più misteriose
nella contea di Osage su cui non si era mai indagato.
La ricerca di Grann lo portò a concludere che l’uccisione
sistematica degli Osage per i loro diritti sul petrolio era “una vasta
operazione criminale che stava raccogliendo milioni e milioni di dollari”
attraverso frodi assicurative, appropriazione indebita e persone non Osage che
uccidevano i loro coniugi Osage per denaro. William Hale ed Ernest Burkhart
avevano pagato per i loro crimini, ma “ogni elemento della società era complice
di questo sistema omicida”. E la maggior parte dei carnefici era riuscita a
farla franca, scappando con milioni di dollari in ricchezza Osage. La storia è
dunque complicata e non ancora del tutto alla luce del sole, e non c’è da
stupirsi se l’occhio di Martin Scorsese è rimasto sedotto da questa storia tanto dal
volerla raccontare al cinema!
Martin Scorsese, il suo cast e la troupe hanno trascorso molto
tempo con gli storici di Osage e i leader della tribù durante lo sviluppo
dell’adattamento cinematografico di Killers of the Flower
Moon. Secondo quanto riferito, Scorsese e il suo co-sceneggiatore Eric Roth hanno riscritto
la sceneggiatura dopo questi incontri, cambiando il fulcro della storia e
spostandolo dalla formazione dell’FBI alla cultura e alle esperienze del popolo
Osage. In una conferenza stampa successiva alla première mondiale del film,
l’attuale leader della nazione Osage, Chief Standing Bear, ha descritto Killers of the Flower Moon come una storia sulla fiducia – tra Mollie e suo
marito, così come tra gli Osage e il mondo esterno – e il “profondo tradimento”
di quella fiducia. “La mia gente ha sofferto molto e fino ad oggi questi
effetti sono con noi”, ha detto. “Ma posso dire, a nome degli Osage, che Martin Scorsese e il suo team hanno ripristinato quella ferita, e
sappiamo che la fiducia non verrà tradita.”
…La
storia di Killers of the Flower Moon si dipana gradualmente,
seguendo il ritmo di una caccia spietata ma mai frenetica - la colonna sonora
blues e rock di Robbie Robertson è quanto mai decisiva - come
se ci fossero nascoste fisicamente delle trappole pronte a falciare animali
inermi.
Se in un primo momento si poteva pensare a Killers of the Flower Moon come
un western, vedendo il film di Scorsese la sua collocazione sembrerebbe
guardare al noir.
D’altronde John Ford ha insegnato che nel West se la
leggenda diventa realtà vince la leggenda, e con l’epica dei racconti delle
Grandi Praterie il massacro del popolo degli Osage non ha nulla a che
spartire.
Non è un caso perciò che uno dei colori predominanti in Killers of the
Flower Moon sia il nero, un colore che assorbe la luce, che dà respiro al buio
favorendo il branco di lupi pronto a fagocitare la terra pregna di sangue,
depistando poi i segni di morte e del massacro compiuto.
È un’opera silente sul Male quella di Martin Scorsese,
visceralmente statunitense per come guarda alla bandiera a stelle e strisce con
la consapevolezza della sua natura, vile e conquistatrice…
…Martin Scorsese mette
nuovamente a nudo la malvagità dell’animo umano, la sua colpa e rivela uno dei (tanti)
peccati americani della nascente (e forse anche presente) nazione statunitense.
Una pagina di storia troppo spesso taciuta. Una prevaricazione che attraverso
la scusa degli affari giustifica soprusi, violenze e delitti.
La fotografia perfetta, le interpretazioni magistrali, un
consolidato e puntuale montaggio, una sceneggiatura estremamente curata fanno
di “Killers of the flower Moon” un ennesimo capolavoro della
filmografia del regista americano.
Lo spettatore potrebbe essere spaventato dalla durata
“extra large” del minutaggio del film ma la trama viene sviluppata anche
attraverso una sorta di thriller “a carte scoperte”. Un intreccio di malefatte
sotto la luce del sole, talmente palesi da sembrare quasi irreali ma,
purtroppo, ribadiscono la cattiveria di una parte della società degli anni ’20
americani che poi sarà la base per la creazione di altri “affari” quali mafia,
gangster e malavita organizzata in generale.
“Killers of the flower moon” è un film che necessita di essere visto al cinema,
con la concentrazione di non perdere nemmeno un minuto di un racconto che
sarebbe delittuoso relegare alla sola visione distratta dello streaming.
…la prova di Robert De Niro è magistrale, in decisa controtendenza rispetto alle ultime
interpretazioni, abbastanza deprimenti perché inserite in film stupidi:
interpreta un vecchio patriarca dalle espressioni contrite e dall’azione manipolatoria
e spietata, un finto amico degli indiani che si muove come la versione
cerebrale del Robert Mitchum de La morte corre sul fiume. DiCaprio,
invece, pare intrappolato in una recitazione a scatti, preda di tic non sempre
motivati e di reazioni talvolta fuori sincrono, pur avendo il ruolo
più interessante, quello di un personaggio stretto tra passione, obblighi di
devozione e una friabile personalità…
…la regia di Scorsese è quasi ipnotica: i movimenti di macchina accompagnano l’incedere
dolente dei personaggi; i primissimi piani, soprattutto quelli sulla maschera
di progressiva sofferenza di Lily Gladstone, la moglie indiana (e
ricca) di DiCaprio, sono superfici in cui lo sguardo si fissa per smarrirsi,
cullato da parole caratterizzate sempre da un senso duplice e occulto, espresse
in una forma che nasconde una minaccia tesa all’annullamento della persona per
assumerne funzioni e prerogative. A fare da collante al tutto, il soffuso
accompagnamento musicale di Robbie Robertson, ex membro della Band e
quindi già protagonista con Scorsese de L’ultimo valzer, quando
la Band si sciolse, e mezzo indiano, perché la madre era una Mohawk. La musica
di Robertson ha i toni del dark western, sembra un mantra funebre
ossessivo che ambienta e angustia, tanto più se si pensa che
quello che si sta ascoltando è il testamento del musicista, morto subito dopo
aver ultimato il film, nello scorso agosto…
Alla luce delle ultime notizie che riguardano il futuro, anzi
il presente, del rapporto tra le istituzioni e il cinema italiano, questa
settimana pubblichiamo qui due contributi che vengono direttamente dal
settimanale Film Tv e che affrontano l'uno la politica con cui vengono
ripartiti i soldi ministeriali destinati a festival, premi e rassegne e il
secondo i ventilati tagli dei finanziamenti al sistema industriale
cinematografico italiano e le reazioni scomposte di certa stampa che coglie
l'occasione per scagliarsi contro nemici antichi, a sproposito. Il tutto mentre
il ministro Sangiuliano continua nella sua opera di smantellamento/rinnovamento
nominando Pietrangelo Buttafuoco come nuovo presidente della Biennale di
Venezia, una decisione che molto probabilmente si tradurrà in ulteriori
cambiamenti nelle varie sezioni di cui si occupa la Fondazione tra le quali
naturalmente c'è anche il cinema e la relativa Mostra.
Cercare un criterio
Pubblicate le graduatorie dei finanziamenti ministeriali a festival, premi e
rassegne. Una traccia precisa della politica culturale italiana. Una di quelle
prove provate dello status quo di cui nessuno scrive, per timore di effetti
collaterali su carriere - quelle di giornalisti cinematografici, critici e
programmer - d’estrema precarietà. Lo facciamo noi.
Primeggia, come d’abitudine, Giffoni, con 950 mila euro, a cui assommarne 50
mila per Giffoni Macedonia. Poi ci sono i soliti noti, a cominciare dall’impero
di premietti di Pascal Vicedomini, che s’intasca 210 mila euro per Capri Film
Festival (60 mila in più del 2022), 200 mila per il Global Film Festival di
Ischia (50 in più) e 95 mila per il Los Angeles, Italia Film Festival. Anche le
premiate ditte dei fratelli Casadonte aumentano la loro rilevanza, con il Magna
Græcia Film Festival che celebra i suoi 20 anni (e 17 film in programma, la
maggior parte dei quali già usciti in sala) con 250 mila euro, a cui aggiungere
100 mila per il Magna Graecia Experience III (rassegna dedicata agli studenti)
e 25 mila per il premio Fondazione Mimmo Rotella. La Agnus Dei di Tiziana Rocca
si porta a casa 100 mila euro per Filming in Italy in Sardegna 2023, 80 mila
per Filming Italy Best Movie Award, 120 mila per Filming Italy Los Angeles, 80
mila per Filming Italy Il cinema incontra l’arte. Tutto si può dire, ma non che
questi eventi promuovano il cinema come ricerca, storia, linguaggio. Al limite
come evento culturale, pretesto mediatico, passerella.
Gerarchie dadaiste
Si escluda da questo discorso l’intelligente rilancio di Bellaria a opera della
startup Approdi, che lascia al palo festival di simile qualità e misura e si
garantisce un futuro roseo con 100 mila euro in più rispetto ai 60 dello scorso
anno, finendo nella fascia alta del reddito (anche in queste tabelle non esiste
la classe media) con un programma lodevole dedicato al cinema indipendente
italiano (parola chiave, che non vale per Presente italiano di Pistoia, non
finanziato). La gerarchia che si viene a creare mettendo in ordine i
finanziamenti è dadaista, se si valutano i programmi: il Festival del cinema e
della televisione di Benevento e il Comicon di Best Movie (120 mila euro a
testa) valgono praticamente quanto le Giornate del cinema muto (135 mila) e la
Settimana della critica (130 mila), festival storici come quello di Trieste (25
mila euro) contano metà di rassegne tanto lanciate nel futuro da non essere
tracciate nemmeno da un proprio sito online (il Festival delle opere
interattive, 50 mila euro), eventi con quattro film e tanti incontri sotto il
sole come Marettimo (60 mila euro) contano quattro volte eccellenze d’alto
livello come il Sicilia Queer di Palermo (15 mila).
Non si tratta di separare il bene dal male, ché ogni festival e rassegna ha un
suo specifico, un suo perché, un suo valore territoriale indiscutibili, ma di
capire: che i film per il governo sono strumenti per eventi ulteriori, che la
commissione non valuta la qualità cinematografica dei programmi ma fattori
differenti, che il mestiere del dirigente di un festival è soprattutto
politico, non cinematografico. Che dire? Orgoglio italiano.
con Marco Baliani, Giuseppe Cederna, Pippo Delbono, Silvia Gallerano, Sandro Lombardi, Andrea Lupo, Licia Maglietta, Anna Nogara, Maria Grazia Mandruzzato
un piccolo film, dura un'oretta, girato in pochi giorni, con un ritmo misterioso e implacabile, due protagonisti perfetti, con un grande regista, inganni su inganni, la maledizione del dollaro sempre in primo piano, scambi di persona, protagonista anche un bar che fa riposare, incontrare, pensare le persone.
un piccolo gioiellino da non perdere, non deluderà nessuno.
… Ed è qui che Ulmer compie il gesto
filmico che fa la differenza tra un regista e un maestro: abbandona
l’espressione stravolta del suo protagonista e, con una lieve panoramica in
basso, fissa il quadro sul surreale dettaglio della tazza bianca di Al: una
tazza palesemente fuori scala, evidente traslazione scenografica di quella vera
tazza posata sul bancone alla quale abbiamo visto Al aggrapparsi. Una tazza che
è la sua ancora di salvataggio per poter restare lì e allora, in quello spazio
reale del Nevada Diner, lontano dal passato degli eventi accaduti che, di lì a
qualche secondo, un’altra dissolvenza incrociata ci offrirà, giocando
sull’allitterazione semantica tra il bordo della tazza, il cerchio del disco
che gira nel juke-box (raggiunto intanto con una magnifica carrettata
attraverso il buio irreale del bar) e la circonferenza della grancassa della
batteria dell’orchestra che suonava quella canzone nel suo passato felice a New
York... È così che inizia Deviazione per l’inferno, magnifico road (to nowhere) movie seminale!
In una classifica dei migliori Noir della Storia del cinema
non dovrebbe mancare tra i primi dieci "Detour" di Edgar Ulmer,
maestro del film a basso costo. Il fatalismo tipico del genere si fa vera
poesia in una visione sconsolata del destino dell'Uomo, imprigionato in una
esistenza dominata dal Caso che anticipa di parecchi decenni anche la tematica
preferita del grande regista polacco Kieslowski. Le modalità espressive tipiche
del B movie in questo caso funzionano a meraviglia, hanno stimolato il talento
di Ulmer invece di limitarlo durante la lavorazione che durò solo sei giorni,
con un budget misero e attori di secondo piano. La voce fuori campo è usata in
abbondanza ma è indissociabile dall'universo Noir in cui bagna la trama e i
personaggi, fra cui il più memorabile è la donna fatale di Ann Savage che
ricatta il protagonista ma sarà punita dal destino "cinico e baro".
La regia è virtuosa nella sua economia di mezzi anche se il famoso piano
sequenza di sei minuti nella parte finale di cui parlavano molti critici è una
leggenda metropolitana, come giustamente sottoscritto nella play list di Inside
Man, perché l'inquadratura più lunga supera di poco il minuto. Per me resta
forse il capolavoro di Ulmer, il suo film piu' completo,con una menzione anche
per il bravo protagonista Tom Neale nel ruolo dello sfortunato Al Roberts.
…Un film incommensurabile, tra i più grandi capolavori
dei prolifici Anni '40, e tra i più caratteristici sia per quanto riguarda la
figura della femme fatale, in questo caso Ann Savage, che dà gli ordini,
ricatta, compie giochi psicologici e gioca con le debolezze caratteriali. E'
anche un film che tratta l'imprevedibilità delle esperienze nella vita. Al:
"[..] di tutte le ragazze che pèotevano capitarmi, mi era capitato
d'imbattermi proprio in quella ragazza [..] Nella vita qualunque strada un uomo
decide di percorrere, se il destino gli è contrario, lo aspetta al varco e gli
fa cambiare direzione." Vera: "La vita è come una partita di
baseball, devi sfruttare tutte le occasioni e non devi mai perdere di vista la
palla." La scena del litigio nel finale e la sequenza
della mdp che inquadra ora il primo piano del viso di Vera sdraiata sul letto,
ora la scrivania della camera da letto, ora la bottiglia vuota di brandy, ora
il pavimento, con offuscamenti e messe a fuoco alternate, mentre Al recita
l'ennesimo soliloquio, rimarrà d'antologia per l'intera storia del cinema.
Al nel finale: "[..]
dovevo sparire [..] vagavo per la camera sotto l'effetto dello shock, tutto mi
appariva come avvolto da una nebbia, non riuscivo a coordinare le idee [..] non
sarei mai più potuto ritoranre a New York [..] ero a Beckersfield, la polizia
cercava Charles Heskell, un uomo morto [..] Heskell mi aveva cacciato nei
pasticci ed ora me ne tirava fuori [..] quale sarebbe stata la mia vita se non
avessi chiesto ad Heskell quel passaggio [..] di una cosa sono certo, anzi certissimo.. un giorno una macchina
si fermerà davanti a me, e questa volta senza che io abbia chiesto il
passaggio... si! il destino: questa forza misteriosa. Può puntare il dito
contro di me o contro di voi, senza una ragione apparente...."
Ma tutto è
funzionale, non c’è una sbavatura od un minuto di più. Nell’oretta di film è come
entrare in una nube di fumo metropolitano nella quale è difficile addentrarsi,
per poi uscirne e suonare nervosamente un pianoforte, fare l’autostop ed essere
invasi dall’angoscia. Teso come il filo di un telefono attorcigliato al fine di
suicidarsi, oscuro come una notte in autostrada, umido come una
pioggia battente ed inaspettata, livido come un pensiero allucinante in un
momento di crisi.
È un altro
film sulla memoria (forse più sul ricordo), che prende accenti sfuocati ed
incomprensibili, quasi a voler sottolineare per l’ennesima volta che niente è
come sembra, che l’apparenza è la più grande fregatura in cui l’uomo possa
imbattersi. Film sul caso e sul destino. Film sull’arcano che si fa verbo.
… Raccontata
dalla voce fuori campo del protagonista, presentato nella prima scena come un
avventore scontroso all’interno di un diner dove si fermano per una breve sosta
i viaggiatori delle highway, la storia di questo musicista fallito appare cupa
come gli ambienti, perlopiù notturni e piovosi, che la accompagnano. Al si
limita a desiderare, per sé e la sua donna, il minimo: nessun grande colpo o
sogni di gloria artistica, solamente una vita tranquilla in qualche periferia
della sterminata provincia americana. Ma il destino non lo accontenta, e ad
ogni bivio Al sceglierà sempre la strada sbagliata. Lo racconta in un lungo
flash back con un’amarezza priva di rabbia, come se la sua sorte fosse il pegno
da pagare quando si nasce dalla parte sbagliata della scala sociale. E quando
questo succede nella patria delle mille opportunità, dove la narrazione
costante è quella di essere artefici della propria fortuna, perché arriva
sempre un’occasione di cui approfittare, significa che i sogni di Al sono
evaporati con la pioggia della notte.
Vera è una
dark lady priva di fascino, di eleganza e di stile, interessata solo a fare
quattrini, Al una vittima consapevole e svuotata di forze. Due losers che
uniscono i propri destini senza riscatto, trascinandosi reciprocamente verso
l’abisso: il loro incontro provoca un cortocircuito fatale, dal quale Al sarà
costretto a fuggire tutta la vita, senza mai fermarsi, nell’attesa che
qualcuno, in una notte come quelle in cui è ormai costretto a vivere, lo
riconosca e lo tiri fuori dal suo incubo.
il film inizia così: "Ovunque ci sia un uomo infelice, Dio manda un cane a tenergli compagnia."
la storia è così verosimile da essere in realtà vera, quella di un bambino chiuso in gabbia con i cani, che ha colpito Luc Besson.
protagonista è un bambino che non dimentica i suoi amici fedeli e sinceri.
i cani non sono 101, sono solo 65, e tutti bravissimi.
l'interpretazione di Caleb Landry Jones, che è Dogman, è da premio Oscar, al festival di Venezia erano distratti, non se ne sono accorti.
il film è stato abbastanza maltrattato dai critici laureati, e anche in sala ha avuto poco successo, peccato per chi non l'ha ancora visto.
buona (canina e imperdibile) visione - Ismaele
ps: il film ricorda, per i cani, e per l'ultima scena, White god, di Kornél Mundruczó
Dogman è senza dubbio un film che merita di essere visto, e
ancor di più è un film che, nonostante tutto, merita di essere amato, più che
compreso. In un'ora e mezza circa, LucBesson mette tanta, forse troppa, carne
al fuoco: il tema universale della famiglia, la fragilità umana, il rapporto
tra l'uomo e il cane, la potenza del teatro, l'emarginazione, il fanatismo
religioso, la disabilità, la fluidità di genere e chi più ne ha più ne metta.
Altrettante sono le piste narrative affrontate con il linguaggio dei piu
disparati generi cinematografici. Con spiazzante disinvoltura Besson passa dal
thriller al drammatico, dall'action movie all'horror... Non mancano neppure
scene che per usare un eufemismo rasentano il ridicolo, come quelle in cui i
cani sono capaci di compiere azioni degne del miglior Tom Cruise in Mission
Impossible, di Una Thurman in Kill Bill e perfino di Macaulay Culkin in Mamma
ho perso l'aereo. I dialoghi, talvolta interessanti e molto accattivanti, sono
per il resto pieni di banali luoghi comuni come la battuta "Più conosco
gli uomini più amo i cani..." Ma ciò che rende Dogman un buon film sono
tre elementi: il ritmo sempre incalzante; una trama capace di evocare tutta una
serie di emozioni capaci di far dimenticare i passaggi meno convincenti del
film; la performance immensa del protagonista Caleb Landry Jones, Dogman è un
film che non va capito: lo guardi e ti lasci travolgere dalle emozioni,
ignorando la necessità di doverti sempre spiegare tutto, perché in fondo
funziona così ogni volta che si ha la fortuna di avventurarsi nel meraviglioso
mondo delle favole!
…Ma cosa in fondo riscopre Besson? La
pulsazione urbana che ci guida e ci rispecchia. Non antropomorfizza il non
umano, ma difende la sua diversità, nella caratterizzazione della modernità. Quella
pulsazione l’avverti dai sotterranei in cui si nasconde Douglas, in cui ha
costruito una trappola perfetta per gli invasori del mondo soprastante. DogMan è una folata dark, un torrente insalubre.
Forse è per questo che la sua sagoma su una sedia a rotelle si aggira per la
metropoli, per le strade di celebri serial-killer, della cronaca nefasta. Anche
la fugacità di un amore si mostra, per colei che, in età adolescenziale, gli ha
insegnato ad amare il teatro, ad amare il travestimento, ad amare l’esibizione.
Cattura quella fugacità, il fascino degli sguardi, perché Besson ha fatto un
altro prepotente passo verso nuovi incontri, cattura quella seduzione e quella
sensualità che la città offre a ogni angolo. Luc Besson però è anche stavolta
un fenomenale sabotatore, non è il supereroe Douglas che cammina con noi e per
noi, lo può fare solo per brevi spostamenti e può restare in piedi pochi
istanti, il tempo di chiudere il sipario, prima di ripiombare a terra. La
vendetta è servita verso se stesso, i suoi numerosi detrattori, in omaggio al
suo cinema e i suoi personaggi preferiti e soprattutto a favore di quella
costante attrazione per la maschera del disertore autoriale e l’inarrestabile,
ancora una volta e per sempre, riflesso malinconico errante dei suoi ineguagliabili,
ai più, orizzonti filosofico/scientifici.
…Il film si apre con l'arresto del protagonista - un Caleb Landry
Jones ormai specializzatosi in ruoli di figure ai margini della
società - e si svolge diegeticamente lungo le 24 ore successive.
Come spesso accade nel Cinema di Luc Besson sono i
flashback a fare buona parte di costruzione del background del protagonista.
Malgrado abbia perso completamente la fiducia nel genere umano - tanto da
preferire la compagnia canina e trovare sollievo solo nel travestimento, nella
lettura e nel teatro - Doug non lesina atti di benevolenza, in piena coerenza
con alcune delle figure più note della carriera del regista.
Luc Besson ha curato anche la sceneggiatura e la produzione del film e si è
cimentato dunque nella preparazione di un prodotto che ormai padroneggia a
memoria: un mix di dramma e thriller, su un reietto della società che riceve
una seconda opportunità.
Dogman contiene comunque diverse contaminazioni: con il suo tono generale
quasi favolistico sembra richiamare al Cinema per ragazzi, ma le sue venature
di violenza e di genere non ne permettono un'agevole catalogazione. A volte i
fidi ed empatici cani di Doug si muovono come sgherri al servizio di un
gangster e, per qualche minuto, il film si tinge di tinte da heist
movie con una divagazione a dir poco bizzarra.
Il tutto mentre Doug oscilla tra follia ed empatia, imita Edith
Piaf in un locale notturno, minaccia i criminali della zona e decanta
in ogni modo il suo amore per i cani.
Nel complesso, pur con tutti i suoi eccessi, Dogman dona a
mio avviso dei momenti di Cinema in grado di toccare disparate corde in ogni
categoria umana nel pubblico, con il rischio di indispettire gli
spettatori in alcuni momenti, ma certamente senza mai lasciarli indifferenti…
…“Dog” è “God” al
contrario. Stesse lettere, un semplice anagramma che si fa spazio in alcune
scene anche con una certa evidenza grafica. Tutto il film comunque rimanda a
una religiosità e credenza in Dio che è molto diversa a seconda dei personaggi
che si incontrano.
Padre e fratello di Douglas risultano
dei fanatici bigotti che non mettono in pratica nulla di quanto leggono o
apprendono tramite la Bibbia. Douglas ne condivide un certo spirito, è
fortemente credente a livello personale ma è ugualmente violento. “DogMan” presenta
anche delle immagini create utilizzando la croce come simbolo incastrando il
protagonista in una scenografia che, al tempo stesso è veicolo narrativo.
“Il cane è il dono di Dio a chi ha una ferita che procura
dolore”
Questo l’incipit del film che troverà anche soluzione
nella scena finale. Un film che tiene lo spettatore sempre in tensione e in
modo fortemente ematico con il protagonista che racconta la sua storia per
tappe. Malgrado, in questo caso, il fine non giustifica i mezzi, la figura
di Douglas è molto ben scritta ed interpretata. Il film è
sicuramente da vedere.
…possiamo
parlare bene quanto vogliamo di Dogman e dei virtuosismi registici
di Besson, eppure sarebbe inimmaginabile
concepire Dogman senza la sua star: Caleb Landry Jones è
talmente magnetico e intenso che non si può non trepidare e "tifare"
per lui, pur consapevoli del suo destino segnato. La sua performance è
straordinaria (non si capisce come non abbia vinto la Coppa Volpi a Venezia,
dove il film era in concorso, ma vedrete che sarà di sicuro tra i nominati agli
Oscar) e riesce ad esprimere magnificamente il dolore e l'orrore di una vita
talmente "particolare" e drammatica, specchio della sua terribile
sofferenza e solitudine, alleviate solo dalla presenza simbiotica dei cani.
Perchè, come si legge nella didascalia ad inizio film, "Ovunque ci
sia un uomo infelice, Dio manda un cane a tenergli compagnia."
…Dogman è
un gran bel film umano e umanista. E ciò proprio in virtù di trattare, in modo
affascinante e pieno di colpi di scena, un caso drammatico di autismo e
isolamento assoluto. Un film anche inconsueto e intenso, ottimamente recitato,
oltre che dal protagonista, dalla psicologa altrettanto piagata dalla vita come
Doug e dal cui interrogatorio apprendiamo il succedersi della storia. Senza
parlare ovviamente della bravura espressiva dei cani (tutti di razze diverse) e
della loro capacità di eseguire gli ordini ricevuti (altro che attori-cani!).
DogMan,
dunque, vive e si illumina sull’idea che mentre la società non ti aiuta a
guarire, è l’amore degli animali per il loro padrone il fattore catalizzante e
salvifico, ed esso porta il reietto Doug a raggiungere la sua serenità finale
in un finale quasi cristologico davanti ad una chiesa. Ma sì facciamo, come ci
chiede il regista, il “tifo” per il nostro protagonista.
Assolutamente consigliabile per la sua ottima tavolozza di emozioni anche a chi
predilige solo i felini.
… è innegabile come Dogman sia, prima di ogni altra cosa, un
affascinante viaggio all’interno di una psiche in tumulto. Dagli abusi paterni,
rinchiuso in gabbia insieme ai cani, sino alla parentesi come sfrenata
mimesi drag di Édith Piaf, il protagonista del film
sviscera tutto se stesso, appellandosi al suo statuto di emarginato, all’amore
dei cani (che, sostiene Douglas, sono capaci di amare di più dell’uomo), alle
possibilità che gli sono state precluse a causa delle sue difficoltà a
camminare. Douglas è un uomo sofferente, fragile, smarrito tra gli orizzonti di
un mondo disconnesso che lo ha rigettato.
Tutto il resto è sfondo, in una tela narrativa
che si rivela progressivamente come una parabola dal sapore quasi cristologico,
con il rapporto con il divino che assurge per Douglas ad unica chiave
interpretativa rimasta per cercare di attribuire un senso alla sua vita. Si
tratta di uno studio del personaggio potente e inaspettato, guidato da un Caleb
Landry Jones pienamente calato nella parte, afflitto, abbattuto, a tratti
animalesco, ma anche incredibilmente lucido e divertente nei suoi spettacoli
come drag queen, teatrale, sentimentale e passionale, in
quello che è il miglior film di Besson dai tempi de Il quinto elemento.
…Identità fortissima quella di Caleb Landry Jones, attore che si
porta sulle spalle l’intero peso del film. Jones riesce a caratterizzare
Douglas in maniera tutt’altro che superficiale, riuscendo nel difficile
equilibrio di mostrarsi fragile e duro, perverso e gentile. Per tutte le due
ore di durata del film, come spettatori potremmo avere tutte le ragioni per
odiare il protagonista, ma questo sentimento non ci colpisce mai. E se risulta
veramente difficile poter tifare per lui (anche se in certe occasioni l’empatia
si fa più forte), non manca mai quella sensazione di comprensione della
persona, essenziale per la riuscita del film.
Ma è soprattutto nel modo in cui parla, specie con gli occhi, che
Jones primeggia. Capace di cambiare il tono del film nel giro di
un’inquadratura, in un sorriso malizioso, nel modo in cui osserva ciò che sta
intorno a lui, lasciando trasparire rabbia, rassegnazione e rancore, il suo
Douglas è uno dei personaggi più forti visti finora al Festival di Venezia
2023. Tanto che, nonostante un finale in cui si tenta un’emozione maggiore,
troppo ricercata per poter colpire con forte sincerità, adombra tutto il resto
del cast, davvero troppo anonimo. Ad eccezione dei numerosi cani che riempiono
la storia, capaci di colorare non solo l’esistenza del protagonista, ma
parecchie scene del film. Anche in questo caso il rapporto tra l’uomo e
l’animale regala una particolare alchimia che eleva il film…
E con questa frase del poeta Alphonse de Lamartine, Luc Besson apre
il suo film e ci fa immergere in un mondo in cui l’infelicità la fa da padrone.
Senza sconti per nessuno.
E forse per questo motivo che per tutto il film sono rimasto
incollato alle sofferenze del protagonista, al modo con cui sono state
raccontate, alle emozioni e alle lacrime che la narrazione di Luc Besson ci
porta. Senza toni ricattatori, l’empatia nasce spontanea come quando due anime
gemelle si incontrano per la prima volta.
Alla base di Dogman c’è la storia vera di un ragazzo cresciuto dentro
una gabbia e che ha toccato profondamente il regista che ha deciso di
rappresentare il dolore, di come le violenze giovanili possano segnare e
trasformare per sempre le persone tirando fuori quel lato cattivo che non
credevano di avere.
Il film si apre con l’incontro di due anime lacerate dalla vita: da
una parte Douglas un ragazzo in sedia a rotelle travestito da Marilyn Monroe e
dall’altro una psichiatra svegliata nel cuore della notte che deve capire il
segreto che si cela dietro questo stranissimo personaggio.
E così Douglas racconta il suo dolore all’unica persona che lo può
capire perché i diversi si annusano, si riconoscono e si scelgono. Un po’ come
successe tra Leon il killer bambino e Matilda la bambina killer o Nikita la
tossica che nessuno vuole, riprogrammata per fare giustizia ma non per amare.
Douglas è un ragazzo cresciuto tra le botte senza motivo di un padre
violento e l’anaffettività di una madre troppo debole per difenderlo che
preferisce la fuga per una vita migliore. Costretto a vivere dentro una gabbia
in compagnia dei cani che il genitore allevava per i combattimenti clandestini,
oppresso da una religiosità invadente che tutto accetta “In the name of God”.
Un God che rovesciato diventa un Dog che indirizzerà per sempre la vita del
giovane Douglas.
Luc Besson decide di rappresentare questa vita dolorosa facendo un
mix di generi ma risultando un’opera comunque originale, con una sua
personalità che evidenzia la mano autoriale del regista.
Si inizia come un racconto Dickensiano dove i continui maltrattamenti
costringeranno il protagonista all’immobilismo e dove la sedia a rotelle è sia
salvezza che strumento di tortura visto che lui può stare in piedi e camminare
solo per qualche minuto altrimenti va incontro a morte certa. Si trasforma in
un’illusoria storia d’amore contrassegnata da tutta la poesia e la crudeltà di
William Shakespeare, fino ad arrivare al più classico degli action movie con
tanto sangue dove il protagonista si trasforma in un Villain/ Eroe accompagnato
dal suo esercito fedele composto da cani di tutte le razze disposti a tutto per
di difendere il loro capo branco.
Il grande merito di Besson è di aver scelto come protagonista un
Caleb Landry Jones, già vincitore come migliore attore un paio di anni fa a
Cannes, in stato di grazia che condensa sul suo corpo tutto lo strazio del
dolore subito trovando conforto e protezione nella trasformazione di genere
dentro un Queer Club.
E così tra un’intensa e disperata Edith Piaff e una seducente e
conturbante Marlene Dietrich, compie il suo percorso verso il suo destino.
Dogman è un bellissimo film che parla di salvezza e redenzione, di
diversità e dolore, di ricerca dell’amore totale che si trasforma nella
scoperta dell’amore non convenzionale.
Il tutto all’interno di una valle di lacrime che sia quella dove vive
il protagonista sia quella che sgorga dagli occhi dello spettatore al termine
delle 2 emozionanti ore.
dialoghi monchi, l'autorità, chi comanda, chi opprime non si vede, non ne ha bisogno, gli autori non ce li mostrano, gli oppressori, forse anche questa è una forma di (giusto) disprezzo.
i nove perseguitati, a vari livelli, umiliati e offesi, devono difendersi, giustificarsi, soffrire per (non) ottenere dei minimi diritti civili e umani.
se in qualche momento si sorride, passa subito, non preoccupatevi.
al cinema in pochissime sale.
buona (terribile) visione - Ismaele
…La potenza della parola diventa a tutti gli effetti
onnipresente grazie allo stile minimalscelto
dai due registi iraniani: la colonna sonora è quasi del tutto
assente, a nove episodi – escludendo l’epilogo catastrofico –
corrispondono nove long take a telecamera fissa, dove ad
essere inquadrati sono soltanto gli accusati, mentre gli inquisitori restano
sinistramente sullo sfondo. Lo spettatore, dunque, si ritrova catapultato su
scene spiazzanti e a tratti orrorifiche, i cui dialoghi presentano per
giunta chiare venature grottesche. Scene di vita quasi
kafkiane, dovela risata, se c’è, è amarissima e si
eclissa immediatamente nell’assurdità della vicenda narrata. Da qui si spiega
il titolo italiano Kafka a Teheran: meno impattante
dell’originale, ma tutto sommato valido.
Al terribile realismo dei nove episodi fa infine da
contrappunto un epilogo ricco di simbolismi, che sembra
richiamare certi film massimalisti di un certo cinema occidentale. Il terremoto
che scuote le fondamenta di un intero paese, la natura che si riprende i suoi
spazi a discapito dell’uomo piccolo e impotente. Necessità e oblio,
materialismo e distruzione raccontati in chiave magistrale prima da Robert
Altman in Short Cuts – America oggi in
Italia -, e poi dal suo allievo Paul
Thomas Anderson in Magnolia. L’umanità
annientata per la sua disumanità, e di conseguenza lo scotto pagato paradossalmente
da chi cerca di raccontare questa concreta possibilità, come testimonia il
fatto che a uno dei due registi di Kafka a Teheran, Ali
Asgari, è stato confiscato il passaporto e proibito di
realizzare un nuovo film.
…I due
registi hanno fatto un lavoro di resistenza civile che deve essere costato non
poca fatica, espedienti e rischi e che non avrà spazio di visione in Iran.
Perché questo è un cinema di denuncia sociale che, con grande semplicità di
mezzi e con un approccio estremamente diretto alla realtà, sa comunicare con
efficacia il proprio grido di ribellione molto più di altre opere formalmente
elaborate ma distanti anni luce da una fruizione non intellettualisticamente di
nicchia...
…Kafkiana, appunto. A raccontarcelo, con uno stile essenziale e sempre uguale
(macchina da presa immobile, un solo soggetto in campo a duellare a parole con
il vessatore di turno di cui udiamo soltanto la voce), sono due registi - Ali
Asgari e Alireza Khatami - che rinfoltiscono la schiera di una delle migliori
cinematografie al mondo, costretta quasi costantemente nella cattività di spazi
raccolti, inosservabili dall'esterno, che permettano di girare film
coraggiosissimi come questo. Ai capolavori di Farhadi, Majidi, Javidi e
Jalilvand si aggiunge questa opera insolita, aperta e chiusa dalla minaccia
sorda del terremoto, metafora di una nazione fatta di burocrazia ottusa,
maschilismo imperante, abusi di potere, fondamentalismo religioso: tutto quello
che, con altrettanta rapidità, potrebbe diventare l'Occidente in un futuro
distopico non così lontano.
…non c'è mai
un colpevole, poichè chi è nascosto dalla telecamera e guarda il giudicato
osserva regole indiscutibili poichè scritte nel libro sacro e quindi
insindacabili, anche nel momento in cui non si è liberi di togliersi il velo
nemmeno nella prorpia casa, se qualcuno dalla finestra può vedere.
e non è il vedere l'atto criminoso, se mai ci fosse del crimine nel
vedere; bensì l'essere guardato o peggio guardata.
poichè il vedere implica l'essere vista.
possedere tatuaggi di una nota poesia iraniana non è ritenuto
normale, ma sentirsi chiedere di spogliarsi integralmente di fronte ad un
funzionario statale per mostrarglieli, lo è.
è un crimine avere i capelli corti per non poter fissare il velo con
le forcine; è un crimine prendere un antiacido, possedere un cane(animale
considerato impuro), essere una bambina a cui piace ballare, capirai il non
conoscere versi del corano.
il potere vuole sapere il perchè di ogni cosa, il perchè di un anti
acido, il perchè di una maglietta con su topolino; il potere impone cosa è
normale e cosa non lo è.
il potere ti concede di fare domande, ma il fare domande potrebbe
essere considerato sconveniente; se non hai nulla da nascondere perchè
insistere a chiedere…
…A raccontarcelo, con uno stile
essenziale e sempre uguale (macchina da presa immobile, un solo soggetto in
campo a duellare a parole con il vessatore di turno di cui udiamo soltanto la
voce), sono due registi - Ali Asgari e Alireza Khatami - che rinfoltiscono la
schiera di una delle migliori cinematografie al mondo, costretta quasi
costantemente nella cattività di spazi raccolti, inosservabili dall'esterno,
che permettano di girare film coraggiosissimi come questo. Ai capolavori di
Farhadi, Majidi, Javidi e Jalilvand si aggiunge questa opera insolita, aperta e
chiusa dalla minaccia sorda del terremoto, metafora di una nazione fatta di
burocrazia ottusa, maschilismo imperante, abusi di potere, fondamentalismo
religioso: tutto quello che, con altrettanta rapidità, potrebbe diventare
l'Occidente in un futuro distopico non così lontano.
… Lo sfondo macroscopico è Teheran dove milioni di persone
vivono una guerra ininterrotta ai lati opposti di un fronte ipotetico, che la
divide: una moltitudine in cerca di normalità ed un’altra composta dai fanatici
del regime dietro cui nascondono i propri soprusi. Censura e ricatto, ed una
legge sacra da esibire come giustificazione contro il peccato di volere
un’esistenza ordinaria priva di stupidi divieti. La morale è abbastanza chiara,
il male non si nasconde nell’ombra, è radicato nel territorio e si alimenta
grazie alla corruzione e le delazioni. Il tono complessivo è in linea con la
premessa di normalità e di poco artefatto, e le drammatiche conseguenze nascono
da un clima dai tratti aberranti, provocando lo sdegno dopo aver soffocato una
risata amara.
Regrediti dopo la
rivoluzione Khomeinista, ormai passato remoto, i diritti civili in Iran hanno
subito una drastica battuta d’arresto, riservando alle donne la condanna più
pesante, quella di essere il bersaglio preferito dei fondamentalisti, come il
film non manca di rimarcare. La piccola durata, poco più di settanta minuti,
non intaccano l’enorme valore politico di denuncia e la potenza del messaggio,
una voce che con il suo disappunto intelligente, nei modi e nei tempi ordinati
spinge a lottare ogni giorno contro chi vorrebbe ridurti al silenzio.
un film che non lascia scampo, il povero maestro di città non risce a fuggire dall'outback australiano.e come ne "La leggenda del santo bevitore" una potente e implacabile calamita gli nega la salvezza.
i due protagonisti Gary Bond e Donald Pleasence sono eccezionali.
il film è un gioiellino da (ri)scoprire, promesso.
buona (prigioniera) visione - Ismaele
Ozploitation è una parola magica. Il cinema di genere australiano ha
sempre mantenuto delle caratteristiche ben precise, il più delle volte legate
ai netti contrasti del territorio: da un lato le città e le sviluppate zone
costiere del sud, dall’altro l’outback ovvero
le aree semidesertiche dell’interno, queste ultime viste come controparte
negativa, pericolosa e retrograda. Proprio “Outback” è il
titolo alternativo con il quale fu rilasciato “Wake In Fright”, pietra miliare
del cinema aussie e documento
imprescindibile per afferrare a pieno i concetti di cui sopra (civilizzazione
vs abbrutimento), una pellicola per anni scomparsa dalla circolazione e solo
nel 2009 restaurata per poi essere distribuita sia in dvd che in blu-ray. John Grant è un maestro che lavora nella remota
località di Tiboonda. Durante un viaggio verso Sydney (qui vive la sua
ragazza), è costretto a fermarsi in una piccola cittadina denominata dagli
abitanti Yabba, dove viene (suo malgrado) inoltrato nelle usanze tipiche degli
uomini di quel luogo: gioco d’azzardo, alcool a fiumi e caccia al canguro, una
vita primordiale nella quale non c’è posto per le donne, ma solo per una sporca
routine fatta di autodistruzione. Il protagonista è costretto ad adeguarsi alla
comunità trasformandosi in una bestia tra le bestie, in un paese nel quale
l’acqua serve solo per lavarsi e dove non ci si scandalizza per uno stupro, ma
solo per il rifiuto di un boccale di birra (“Have a drink, mate? Have a
fight, mate? Have a taste of dust and sweat, mate? There’s nothing else out
here”). Il film fu vietato ai minori di diciotto anni
per una scena controversa, quella della caccia al canguro: immagini vere,
catturate durante la notte e pescate da un filmato realizzato da bracconieri
professionisti. Ted Kotcheff (vegetariano dichiarato) ha sempre difeso questa
sequenza di hunting footage dagli
attacchi della censura, considerandola un atto di denuncia per la salvaguardia
di questi marsupiali nel continente. Ma nel 2009, quando il film fu proiettato
a Cannes, durante la scena incriminata dodici persone abbandonarono la sala. Il realismo che si respira in “Wake In Fright” è
impressionante, la fotografia è intrisa di una luce accecante, un giallo
sudicio che avvolge lo spettatore in un lurido abbraccio di polvere e sudore.
Però a funzionare è soprattutto il comparto attoriale, con Gary Bond e Donald
Pleasence veri mattatori di un’opera divenuta di culto non solo in terra
australiana (tra i suoi estimatori, ricordiamo Martin Scorsese e Nick Cave). Un
film crudele (basato su un libro di Kenneth Cook del 1961), in un luogo dove le
regole del quieto vivere borghese sono completamente ribaltate, un punto di
partenza cruciale per il cinema ozploitation e
per tutte quelle pellicole che seguiranno questi passi nella sabbia, in un
mondo violento e senza umanità. Ted Kotcheff, undici anni prima di dirigere
“Rambo”, è entrato nella storia dalla porta principale, ma alcuni non lo sanno.
Un ingresso trionfale che ha lasciato dei solchi profondi nel lungo cammino del
cinema di genere australiano.
…Fatta la necessaria tara a certe convenzioni estetiche e di
linguaggio da film con quarant'anni sulle spalle, Wake in Fright è
un pugno nello stomaco ancora oggi, per il modo in cui alza continuamente la
posta e per singole scene fortissime, tra le quali spicca quella già citata in
cui viene mostrata una brutale caccia al canguro, ripresa seguendo dei veri
cacciatori scatenati nella notte. C'è anche, va detto, una vena satirica che
scorre lungo tutto il film e strappa più di una risata, ma che non riesce mai a
levare di dosso una profonda sensazione di disagio. Non c'è da stupirsi se il
popolo ritratto dal film si è preso male, ma la verità è che, purtroppo, nulla
di quel che viene mostrato, al di là di alcuni atteggiamenti esasperati per
amor d'effetto inquietante, m'è parso poi così improbabile. Diretto e
interpretato benissimo, incredibilmente evocativo nell'utilizzo che fa dei suoi
paesaggi, Wake in Fright mi ha un po' ricordato The Wicker Man, per il modo in cui
racconta il viaggio all'inferno di un uomo assorbito dalle assurdità della
profonda provincia. La differenza sta nel fatto che nel film di Ted Kotcheff
non ci sono strane cospirazioni e culti pagani, c'è solo la brutale normalità
dell'essere umano abbandonato a se stesso. E forse per questo fa molta più
paura.