opera prima di Marco Bechis, ambientata in Patagonia, una specie di nuovo mondo, terre di frontiera, per i coloni, immensi terreni da recintare, durante e dopo l'estinzione forzata dei nativi indigeni (un altro genocidio, da non dimenticare).
una famiglia sfigata, come sono quelle degli emigrati, padre, figlio e figlia, sono costretti a recintare il terreno che hanno usato, ma senza certificati di proprietà formalizzati, perché cominciano ad arrivare gli avvoltoi, nel loro caso inglesi, per accaparrarsi le terre (per esempio, anche i Benetton, maledetti!, hanno recintato territori grandi come una nazione europea, per esempio).
il padre Harvey Logan, di origine scozzese, lotta per la "sua" terra, e i figli Eva e Juan sopravvivono, come possono.
Eva vorrebbe fuggire, Juan segue il padre, è una vita sempre al limite, precaria e terribile.
Nel panorama asfittico del cinema italiano all'inizio degli
anni Novanta, un esordio quasi dirompente... forse anche perché Bechis è un "oriundo", di Santiago del
Cile. Alambrado è un film su persone indurite dal
persistente soffiare del vento, per le quali fuggire da quell'angolo del mondo
chiamato Patagonia è una necessità destinata a non realizzarsi mai. Un film
d'essai, da vedere, possibilmente in religioso silenzio.
In una regione semideserta della Patagonia, un colono di origini
scozzesi che vive in solitudine insieme ai due figli si oppone alla costruzione
di un aeroporto turistico reclamando il possesso dell'unico terreno idoneo
della zona... Bechis esordisce nel lungometraggio con un film duro e aspro come
il paesaggio di questa terra ai confini del mondo battuta da un vento
incessante che porta alla pazzia. Tra i pochi personaggi spicca quello
conturbante e sensuale di Eva, bloccata in una eterna adolescenza dalla
misantropia del padre e dall'amore incestuoso del fratello.
Scozzese residente in Patagonia, Logan reagisce alle manovre
speculative di una multinazionale proteggendo la sua proprietà in un recinto
(alambrado appunto). Intanto la famiglia delira. Primo film del regista senza
patria che si fa forte del vuoto del deserto e della condanna implacabile del
vento. Desolato e suggestivo riprende inesorabile e attonito lo svolgimento di
un delirio. Un film di gran forza che lavora sul vuoto e su un microcosmo
concentrazionario. Passato su Fuori orario in lingua originale.
visto in sala alla presenza dell'autore, che alla fine del film ha risposto alle curiosità del pubblico.
il film racconta di alcuni fatti relazionati alla materia oscura, quella parte della natura che non è decifrabile, come pure alcune parti oscure della mente umana.
ci sono varie citazioni, naturalmente, per esempio quel monolite sotto il Gran Sasso (che ricorda Kubrick).
la fotografia, per essere un film sulla materia oscura, è forse troppo luminosa, e la sceneggiatura lascia qualcosa di non detto, ma un po' di sforzo dello spettatore ci vuole, o no?
non male, merita (se lo trovate).
buona (oscura e angosciosa) visione - Ismaele
…Dark Matter è un film mistico e
inusuale, un thriller sospeso che chiama in causa i misteri dello Spazio per
affrontare quelli dell’essere umano, della forza inafferrabile e oscura che
regola i sentimenti, i legami di sangue e in generale la vita quotidiana nel
suo procedere (apparentemente) insensato.
In questa oscurità da (non) illuminare, a noi spettatori (e protagonisti) non
resta che abbandonarci alla visione e farci trasportare dalle leggi invisibili
che la (e ci) governano dall’alto.
…Efficaci i duetti tra Elena e il piccolo
Thomas, una boccata d'ossigeno in una girandola di personaggi con i quali
diventa difficile empatizzare. Ma Dark Matter è anche un
film di padri: ingombranti e violenti come il padre di Elena, discreto quasi
un'ombra come quello del protagonista, o assente e anaffettivo come Antonio.
Peccato per i molti (troppi) piani di significato da tenere insieme, per una
spinta esistenzialista che si consuma troppo velocemente e per quella intima
connessione tra l'umano e il sovrumano che finisce a dispetto delle premesse
per essere marginale.
Stefano Odoardi realizza un film che dà il meglio di sé
nei momenti in cui è capace di giocare con le sottrazioni, i silenzi e le
atmosfere sospese del thriller psicologico. Meno riuscito invece nella resa dei
personaggi con cui risulta difficile empatizzare, percepiti più come figure
distanti e prive di sfumature che non come esseri umani mossi da emozioni
qualsiasi esse siano.
…Dark Matterha
un'attenzione particolare allo spazio, sia pubblico che privato, sia reale che
immaginifico, sfruttando location come il Tecnopolo di Modena o il Laboratorio
Ciclope di Predappio. Com’è stato il lavoro sulla scenografia, come avete
costruito quegli ambienti fisici ma anche e sopratutto mentali?
Mi sono accorto che sempre di più nei miei film gli spazi sono fondamentali. È
quello che dicevamo prima sull’inquadratura, perché un attore non è solo quello
che interpreta ma anche un corpo che si muove in uno spazio. Ma se lo spazio
dove si muove non è esatto l’immagine non lo sarà a sua volta. Per questo la
mia ricerca degli spazi è maniacale. Vado in giro in auto e cerco dei luoghi
che già esistono, dove il mio intervento deve essere limitato.
La casa di Elena l’ho trovata lungo il fiume, e immediatamente è subentrata
l’immaginazione interrogandomi sul dove collocare l’orto, dove potevano esserci
i fasci di luce. C’è questo rapporto tra realtà e immaginazione che torna anche
sul posto di lavoro di Antonio, il padre, ad esempio nel suo laboratorio dove
c’è un tubo per gli esperimenti sul vento, tutte cose esistenti. Lì ho
collocato il cilindro per le rilevazioni sulla materia oscura, ma in realtà si
trattava di una piccola struttura che serviva agli attori per le distanze,
tutto il resto è stato ricostruito da una bravissima ragazza che lavora con gli
effetti speciali ad Amsterdam. È un po’ come il film, che ha una sua
collocazione reale con le sparizioni dei bambini, le famiglie tossiche,
l’incesto, la pedofilia, che però vengono attraversate da una dimensione
magica, misteriosa.
…malgrado il film di Odoardi inizi sviluppando l’interesse
dello spettatore, l’evoluzione della sceneggiatura e il finale non
riescono a convincere, anzi, deviano da ciò che sembrava un seme pronto a
germogliare.
Nonostante il buon lavoro fatto dalla fotografia di Adri Schrover e
le musiche originali di Carlo Crivelli, Dark Matter ha l’aria di
essere un film che ha puntato troppo in alto, forse andando troppo
fuori dalla comfort zone della cinematografia attuale del Bel Paese.
Nell’ultimo film di Odoardi, il comparto tecnico non
convince, al pari dell’interpretazione degli attori (nel cast anche Daniela
Poggi e Orso Maria Guerrini), spesso mancanti di autenticità e quasi ingessati,
né tantomeno la diegesi di una sceneggiatura che presenta non poche lacune.
Peccato, perché il soggetto era potenzialmente forte e
interessante e le premesse della prima parte di questa pellicola ben
poste: il tema della Materia Oscura è qualcosa di futuristico, ma quanto mai
attuale, un filone narrativo che si dimostra di grande appeal sia per le
vecchie che, soprattutto, per le nuove generazioni. D’altronde, la Materia
Oscura metaforicamente rappresenta l’Ignoto, l’immensità di un Universo di cui
l’uomo non è mai sazio, un universo ancora tutto da conoscere.
La fotografia e il montaggio puliti e il sonoro coinvolgente non bastano a fare di Dark
Matter un film che, una volta guardato, resterà nella memoria dello
spettatore come un buon prodotto di cinematografia.
una coproduzione spagnola, italiana e inglese, quando ancora c'era il franchismo.
un tutore della legge che non capisce niente e alla fine fa il giustiziere di una vittima non è che facesse godere il fascismo spagnolo, e infatti il film fu girato in Inghilterra.
il film dà molto di più di quanto ti aspetti, un po' zombie, un po' poliziesco, un po' la tecnologia assassina, non ti annoi un secondo.
Dietro a Non si deve profanare il sonno
dei morti c’è un produttore attento come lo scomparso Edmondo Amati,
responsabile di molto cinema di genere, da Lucio Fulci (All’onorevole
piacciono le donne(Nonostante le apparenze… e purché la nazione
non lo sappia), 1972, Una lucertola con la pelle di donna,
1971), all’apocalittico (Apocalypse domani, 1980, di Antonio
Margheriti) alla commedia erotica (Il letto in piazza, di Bruno
Gaburro, 1976, La moglie vergine, di Marino Girolami, 1975). Ma
c’è anche un regista spagnolo, Jorge Grau, autore l’anno precedente di Ceremonia
sangrienta (Le Vergini cavalcano la morte, 1973), successo
con Ewa Aulin e Lucia Bosè nel ruolo di una contessa che scopre il segreto
della giovinezza nel sangue di giovani donne. Non si deve profanare il sonno dei morti, scritto da Grau con Sandro Continenza come già il
precedente film, ha un inizio rassicurante: George parte da Londra alla volta
della campagna inglese, dove sta facendosi costruire una casa, lasciandosi alle
spalle inquinamento e stress. Lungo la strada, un’incidente con una giovane
ragazza, Edna, lo porta a proseguire il viaggio con lei, che si sta recando in
visita dalla sorella con problemi di tossicodipendenza…
…Si parla
fondamentalmente della natura, la natura è fatta in un certo modo, bisogna
rispettarla per quella meraviglia che è, non bisogna modificarla ne alterarla
con mezzi meccanici o artificiali. Lo Zombi è chiaramente una esagerazione del
problema o della critica fatta ma serve proprio per far capire a che tipi di
disastri si può andare incontro se continuiamo a fare tutto quello che ci passa
per la testa. E' così che questo film va visto e interpretato.
Il film è riuscito completamente, è girato alla stra-grande, le
riprese sono perfette, fotografato benissimo, gli attori sono bravi...gli
effetti speciali fatto a mano rendono tantissimo...ci sono almeno tre scene che
fanno veramente rabbrividire. La scena del cimitero è grandiosa!!!
Per gli amanti dello Zombi-Movie questo è un film assolutamente da
non perdere, sopratutto per chi ama e capisce il cinema di Romero potrà godersi
e apprezzare in pieno "Non si deve profanare il sonno dei morti".
Un film interessante in tutto e per tutto che tra l'altro mette un pò
in luce anche l'odio rivolto verso gli hippie e i rivoluzionari, il nostro
protagonista ha chiaramente molto dell'hippie e del rivoluzionario
anarchico...proprio per questo è odiato da un ispettore che o a prove o non le
ha si scaglia contro di lui. Ed è forse proprio l'odio dei perbenisti e dei
moralisti verso il movimento hippie che va a sovrastare ogni logica. Durante il
film infatti avremo la netta sensazione che i protagonisti vengono presa di
mira dalla polizia più per la loro "lunghezza di capelli" che per le
prove che in realtà ci sono contro di loro.
Vedete quindi quanti temi vengono sviluppati in questo film...un
motivo in più per vederlo, capirlo e interpretarlo nella giusta maniera.
Un gran bel film, assolutamente consigliato. Da vedere assolutamente.
…Se trata de una coproducción
entre Reino Unido, Italia y España. La mayoría del metraje está rodado en los estudios de Cinnecitta (Roma), los
exteriores iniciales pertenecen a la ciudad de Manchester, y el resto se rodó
en los estudios de Cine Arte (Madrid). Podemos decir que es un producto atípico
para la época por muchos motivos. Empezando una factura fuera de los estándares
españoles del momento, seguido por su estructura narrativa o por la
planificación muy al uso de los largometrajes norteamericanos de aquella época,
donde el uso del sonido y del fuera de campo juegan un papel importante, sobre
todo en la primera mitad del metraje…
…el film posee más carga
socio-política, porque se erige en todo un alegato contra
la dictadura, el poder y la autoridad. Estos valores están encarnados
en el personaje del inspector interpretado con eficacia por Arthur Kennedy.
Frente a él se erige la libertad de expresión y la democracia, que podemos ver
representados en el papel de George, que inclusive en la secuencia 1 se le
describe como un intelectual, que valora la historia, ya que es un anticuario.
Aquí hay que destacar la gran labor del departamento artístico, maquillaje y
vestuario, al presentarnos a ambos personajes. El inspector viste de manera
sobria, gabardina, y perfectamente peinado hacia atrás. Mientras que con el
personaje de George no hacen de él un hippy melenudo al uso. Todo lo contrario,
le dan un aire intelectual y racional, con esas camisas y chaqueta de cuero
negro. Ambos personajes estén en constante conflicto…
…No Profanar el Sueño de los
Muertos supera por mucho su esquema Clase B primigenio debido a que
construye con dedicación e inusitada vehemencia la destrucción paulatina de
Southgate -en un delicioso periplo del caos que comienza en el cementerio en
cuestión para a posteriori pasar a la morgue, las calles y el hospital- y
porque en simultáneo redondea un entramado discursivo que trabaja tópicos muy
raros para el terror de la época como por ejemplo la ecología (Meaning escapa
de la contaminación, el ruido y la sobrepoblación de Mánchester hacia la
aparente tranquilidad de la campiña británica, no obstante allí se topa con
esos necios del Ministerio de Agricultura haciendo de las suyas con una
tecnología siempre utilizada para el lucro sin conciencia alguna que destruye
lo natural y sus procesos básicos), el fuerte choque generacional del momento
(el payaso de extrema derecha del Inspector acosa, zarandea y hasta golpea a
George porque lo considera un “resumen con patas” de todo lo que odia, hablamos
por supuesto de la contracultura, la juventud en tanto estrato social autónomo
y los coletazos del hippismo del primer lustro de la década del 70), y la lucha
entre facciones dentro del marco institucional/ estatal (mientras que el
Inspector es un claro exponente de la “mano dura” en materia de combatir al
delito, el Juez Perkins de Francisco Sanz, en cambio, ofrece una opción más
blanda aunque con la paradoja de haberle metido en la cabeza al anterior que
Meaning es el líder de una banda de satanistas que se dedican a menesteres
varios del rubro como profanar tumbas, celebrar misas negras y mutilar y quemar
cuerpos sin vida en honor al eterno Mefistófeles, cuando en realidad el
muchacho descubrió que el fuego es la única forma de detener a unos zombies
lentos pero con una fuerza colosal que vuelcan no sólo a aplastar pechos,
arrancar partes de los vivos y masticar su tierna carne sino también a hacerse
de cruces y lápidas para arrojárselas en la espalda a sus víctimas de ocasión,
como le ocurre a ese Oficial Craig de Giorgio Trestini).
Más allá de ingredientes
paradigmáticos del cine de horror de su tiempo como las tomas objetivas que de
repente se transforman en subjetivas desde el punto de vista de un muerto que
camina, en línea con el recordado plano de presentación del Hospital de
Southgate, y delirios varios que obedecen a la dinámica adicional del
sexploitation, como esa chica que corre desnuda al principio del relato por las
calles de Mánchester sin explicación alguna o el berretín bien sádico/ morboso
de Martin de sacarle fotos sin ropa a su mujer en medio de su angustia a raíz
del síndrome de abstinencia, la realización de Grau, con guión de Sandro
Continenza, Juan Cobos, Marcello Coscia y Miguel Rubio, por un lado combina de
manera magistral el cine de zombies y la ciencia ficción apocalíptica, esta
última dándose cita tanto vía la mentada máquina de la tecnocracia estatal
eficientista que experimenta con la población de modo indirecto como a través
de esas bizarras cámaras frigoríficas grisáceas de la morgue de Southgate, y
por el otro lado se hace un festín con el carnaval gore de las masacres en
secuencia cual virus de impronta política implícita que no deja de expandirse
aprovechando la inefable estupidez de los seres humanos y toda su
autoconfianza/ soberbia; regalándonos de paso escenas estupendas de canibalismo
como la del cementerio, la del tanatorio y aquella legendaria del hospital, una
que anticipa el amor por las truculencias de Lucio Fulci de la mano del hachazo
de un muerto viviente contra el cráneo del Doctor Duffield y la arremetida de
los zombies contra una enfermera a la que le arrancan una teta y le meten la
mano en la entrepierna para también sacarle un lindo pedazo de carne de la zona
vaginal. Entre la histeria retórica más gloriosa, algo de sensualidad e ironías
macabras, una muy buena fotografía de Francisco Sempere y un genial desempeño
de Giuliano Sorgini y el propio Grau en materia de la música y el sonido
minimalista y muy tétrico de la máquina, aquí el director todo lo hace bien y a
pura vertiginosidad irrefrenable en función de una película que recorrería el
globo sin descanso recibiendo la friolera de un par de decenas de títulos
alternativos que van desde el muy aparatoso del mercado inglés, The
Living Dead at Manchester Morgue, hasta los dos del enclave
norteamericano, Don’t Open the Window y Let
Sleeping Corpses Lie…
una bellissima ragazza, Stella, che vive col padre cieco, è il sogno proibito di tutti gli uomini del villaggio (ed è odiata dalle donne del villaggio, bìva da sè).
poi arriva un riccone, che la corteggia e quando lei conosce il figlio di lui, solo allora cede e sposa il vecchietto.
ma Stella è il figlio che vuole, la gente mormora, arriva il dramma finale.
sembra un film un po' neorealista, un po' mitico, in realtà il cinema italiano e quello spagnolo erano molto vicini, in quegli anni.
un film che merita molto, abbiate fiducia.
buona (marina) visione - Ismaele
Trasposizione melodrammatica della tragedia
di Euripide: in un villaggio di pescatori la giovane e bellissima Stella fa
innamorare di sé un uomo ricco e molto più anziano di lei, Giovanni. Stella lo
respinge anche perché si è innamorata del figlio di Giovanni, Fernando. Quando
il giovane, in una lite con il padre, cade in mare e affoga, Stella raggiunge a
nuoto il suo corpo ormai sommerso dalle acque e si lascia morire.
La indefinicion de las normas que la censura cinematografica
franquista empleaba en la valoracion de las peliculas entorpecio gravemente la
labor de los profesionales del cine espanol. Sin embargo, tambien propicio que
ciertos titulos insolitos consiguieran incomprensiblemente ver la luz. Es el
caso de Fedra de Manuel Mur Oti (1956), pelicula en la que dos seres androginos
escenifican una pasion fisicamente imposible ilustrada por unas imagenes de
descarnado erotismo y sadismo. Las circunstancias historicas y la habilidad del
director Mur Oti y el productor Cesareo Gonzalez consiguieron, no obstante, que
la censura aprobara su exhibicion.
…En 1956, España
era un país todavía acorralado por las sotanas, los púlpitos y los fusiles.
Sobre una tierra hostil como era aquella, contar la verdad era una tarea que
solo podía llevarse a cabo de una forma: eludir una censura eficaz por
reaccionaria y embrutecida. Eludirla mediante la sutileza, la cultura y la
inteligencia.
Mur Oti
eludió la tumba recurriendo a la cuna, a los mitos griegos, a la fuerza y
sabiduría de los personajes femeninos. Fedra, el mito que sedujo desde Eurípides y Séneca,
hasta Racine y Unamuno, ocuparía su lugar inmortal
en el cine gracias a una película y dos tipos olvidados.
La visión de
Mur Oti del mito se basa -a modo de templo griego- en cuatro pilares clave: su
sensibilidad narrativa capaz de eludir la excesiva teatralidad propia de los
textos griegos, la composición y el juego de luces y sombras de Berenguer, un
guión incisivo y mordaz y la pasión personificada: Emma Penella.
Mur Oti y
Berenguer abren fuego sobre el mar mediterráneo con un ejercicio de composición
y narración que vuelan la cabeza del espectador desde el minuto uno. De la
estatua griega olvidada en la playa a la izquierda del cuadro mientras una voz
en off reclama a Homero y Ovidio -un
plano que llama a Fellini a gritos-, pasamos a la luz mediterránea retenida por las sombras de
la hilera de barcos que avanzan lentamente hacia tierra.
Una tierra
en la que el hombre -la representación de Hipólito y Teseo–
interpretados por Vicente Parra y Enrique Diosdado respectivamente,
es un mero instrumento, un canal por el que guiar al espectador hacia la fuerza
de la naturaleza que da razón de ser a la película: el mar, la fuerza en sí
misma, la pasión, el misterio y la sabiduría.
Es decir,
Fedra -Estrella en la película- el mito en manos de Emma Penella, aquella
hermana de Terele Pávez, con su mismo aspecto visceral, su físico
arrollador y su voz profunda como el abismo marítimo (aunque la estúpida
censura se ocupó de eliminar su voz mediante un ridículo y lamentable doblaje).
Así, aun con
la censura en contra, Mur Oti sitúa el mito, la película y al espectador en su
lugar: una mujer frente a la bajeza y la envidia de un pueblo que la teme, la
envidia y la odia, frente a los hombres que pretenden hacerla suya o huyen
ocultando una homosexualidad patente -el personaje de Vicente Parra y su
condición reclama al mejor Tennessee Williams en La
gata sobre el tejado de zinc-.
Estrella es
el mar que cubre la tierra, una tierra que no puede contener su movimiento, ni
flotar sobre sus olas, ni contener su fuerza.
Mur Oti
utiliza el aire y la luz mediterráneos filtrados por la óptica de Berenguer, y
reviste su película con el aspecto del neorrealismo onírico propio de
Fellini y la cruda realidad de Vittorio de Sica para conseguir contar la historia del mito como
él quería, con la fuerza salvaje e incontenible de Emma Penella arrastrando la
tierra, los caballos de Hipólito y la miserable condición de su pueblo a lo más
profundo de la tierra: el fondo del mar.
Fedra es una
película arrolladora, trágica, real, y como el mar y los mitos, olvidada e
inmortal.
Mi aspettavo un film di stampo melodrammatico, in realtà a
pesare di più è la componente mitologica e di tragedia antica all'origine della
storia. I personaggi sono mossi da violente e distruttive passioni, specie la
protagonista e il suo infelice e ingenuo marito (ma anche i pescatori sono
bruciati dal fuoco del desiderio per Estrella). E quando ci si dà a passioni
virulente il risultato e l'autodistruzione e la morte; in questo le tragedie
antiche erano molto morali e coerenti. Nessuno dei personaggi sembra
comprendere come l'amore sia un sentimento che si può realizzare solo nella
reciprocità. Il marito praticamente compra il corpo e il consenso di Etrella
(come tenta di fare anche il bottegaio), mentre lei si consuma di desiderio per
il figliastro, e si preoccupa assai poco se sia ricambiata o no, e se abbia
delle speranze di realizzare il suo amore. Le basterebbe che lui le si conceda. L'ho trovato meno forte e coinvolgente di
"Cielo negro", ma comunque un buon film drammatico, tutto sommato
diverso, per toni e atmosfere, dal coevo cinema italiano.
E' bella e selvaggia l'Estrella/Phaedra di
Manuel Mur Oti.
Talmente bella da sconvolgere un intero villaggio di pescatori,
desiderata dai suoi uomini tanto quanto detestata dalle sue donne.
Talmente selvaggia e forte da incutere avversione in Fernando/Ippolito che lei desidera al punto
di non considerare minimamente la di lui opinione avversa.
Sposare il padre di Fernando, Don Juan/Ippolito non
le servirà ne ad avvicinare e conquistarne il figlio ne ad evitare una fine
tragica.
La Phaedra di Seneca è trasportata sulle coste spagnole,
dove i veli neri e gli sguardi arcigni delle donne mediterranee segnano di
umore sanguigno il bellissimo bianco e nero di questo film.
Potentissime le scenografie in cui la Grecia è richiamata dalle
rovine in prossimità delle quali vive Estrella, lontana ed isolata dal
villaggio che lei infuoca con la sua smisurata sensualità.
Certo Estrella è
una è Phaedra che si spinge ben
oltre rispetto a quella della tragedia ellenica, ma l'atmosfera carica e
potente che proprio il suo personaggio fuori dalle righe scatena nel
villaggio non si dimentica facilmente.
L'ho pescato stanotte su Rai3 nella trasmissione di Ghezzi
(meno male che c'è lui). E' un film in spagnolo con sottotitoli e la
storia è ispirata alla tragedia greca. Il film mi è piaciuto sopratutto per la
fotografia, un magnifico b/n con tagli di inquadrature e paesaggi che fanno un
pò ricordare Orson Welles. La protagonista è molto brava e bella e di una
nativa bellezza e segue fino in fondo il suo destino d'amore. Il film mi
ricorda molto il neorealismo, girato sempre all'aperto senza nessuna
preparazione scenica, o almeno così sembra…
Per me la questione è talmente semplice da risultare lapalissiana: Netflix
è attualmente il principale costruttore e divulgatore del pensiero liberal
progressista moderno.
Quello intriso di un revisionismo storico-politico estremamente aggressivo (di
cui cancel culture e criminalizzazione delle ideologie anti-capitaliste sono le
massime e più violente espressioni) che propugna una società liquida e
pacificata - in cui il conflitto sociale non esiste più - apolide e
spersonalizzata, funzionale a trasformare il cittadino in un nomade senza
radici. Il perfetto abitante/consumatore di un mondo spoliticizzato e senza
confini (e pertanto a-democratico in senso stretto) e quindi dominato dal
grande capitale finanziario globale.
Il suo ruolo è quindi totalmente diverso da altri giganti multinazionali
come ad esempio Amazon. Perché Amazon vende, fa business su qualunque cosa. È
capitalismo in purezza. Netflix no. Netflix serve ad altro. Ebbene, se la più
sofisticata macchina di costruzione di pensiero del cittadino occidentale del
futuro offre spazio al lavoro intellettuale e artistico di qualcuno (e quindi
all’implicito messaggio politico che a questo sottostà) lo fa perché ritiene
quel messaggio compatibile con la propria visione del mondo. Diversamente
quello spazio sarebbe imperativamente e tassativamente negato. Perciò delle due
l’una.
O Netflix è magicamente diventata una piattaforma anti-sistema oppure ciò che
dice, scrive, pensa e divulga Zerocalcare è ritenuto assolutamente in linea con
l’orizzonte teorico-politico del potere. A meno che non si voglia sottovalutare
il potere stesso, ignorando la sua rodata e invidiabile capacità di camuffarsi
nei modi più disparati. Questo è. Non c’è una terza possibilità. Con buona pace
di chi crede ancora a Babbo Natale.
Arcibaldo ha avuto un trauma da bambino, gli sembra di avere il dono di far morire le persone (in realtà le donne).
e tutta la sua vita ruota intorno a questo destino/desiderio, facilitato da un carillon.
il film è cupo, anche se con momenti a volte divertenti, ma quella pulsione di morte domina la vita del protagonista e come in un imbuto sembra che si arriverà all'omicidio vero, non solo pensato.
e come in Mommy, di Xavier Dolan, la storia, verso la fine, ha una repentina giravolta, e finisce per diventare una cosa del tutto diversa dalle premesse e promesse seminate nel film minuto dopo minuto.
non perdetevi questo ennesimo gioiellino (messicano) di Luis Buñuel.
Arcibaldo (chiamato, per ragioni misteriose, Alessandro nella
versione italiana) rievoca attraverso numerosi flash-back gli episodi che nel
corso della vita lo avevano reso un potenziale assassino, cominciando dalla
vicenda che egli considera all’origine di tutte le altre: la grande
fascinazione che, da piccolo, esercitava su di lui il carillon della madre,
oggetto magico, secondo il racconto dell’odiata governante, che rendeva
possibile realizzare i desideri più segreti del cuore…
…Estasi di un delitto è una bellissima,
surreale, complessa commedia nera.
La descrizione della parte onirica necessaria per Bunuel fa nascere un senso di
inquietudine.
Si può dire che si resta “estasiati” dalle gesta mancate del protagonista,
soprattutto perchè non sono azioni d’amore ma di morte dichiarate. Estasi di un delitto riesce
nell’intento di far compiere alla realtà quel salto per superare un limite e
divenire surrealtà.
Tra le scene fumose e sfocate, con
sovrapposizione di pellicola per rendere al meglio l’impalpabile dei sogni, il
“sogno ad occhi aperti” è comunque una costante di tutto il film.
O della frustrazione. Bunuel disattende ogni aspettativa, carica
la tensione e la rilascia nel vuoto seguendo l’iperbole effimera di un grande
carillon. Il solco chirurgico scavato tra ironia e dramma, follia e norma, nega
ai due versanti qualsiasi statuto di interezza ponendo l’intenzionalità del
singolo quale complice e veicolo di ogni sensato accadimento. Sempre caustico,
non manca di servire il suo corollario di battute iconoclaste, mentre ottempera
ad un geniale e insolitamente lineare racconto di tormenta e fuggevole umanità.
Freudiano e arguto.
In un lungo flashback, il ricco e colto Archibaldo racconta ad
un suora la sua storia di serial killer pateticamente frustrato, i cui istinti
omicidi sono messi in moto dal suono di un carillon, legato ad un ricordo
d'infanzia. Morte e sesso annodati in modo indissolubile, impotenza
rappresentata dall'impossibilità di portare a termine l'omicidio. Gioiello del
periodo messicano del regista, la cui godibilità non risulta compromessa
neppure dal modesto cast (ma il protagonista risulta comunque simpatico). Un
paradosso beffardo concluso con un finale-marameo.
…Del mismo modo en que la frustración amorosa va de la mano del
fiasco criminal, una y otra vez nos topamos con un personaje adinerado que
quiere sangre y vísceras pero que debe resignarse a muertes a la distancia,
higiénicas y de segunda mano que responden a su cobardía e insatisfacción
crónica. Buñuel subraya que por más que se deleite en bellas fantasías
surrealistas en las que la sangre mancha la lente de la cámara y un humo
infernal lo cubre todo, De la Cruz queda preso del azar y esa típica impunidad
burguesa que en esta ocasión ni siquiera es buscada por el parásito social en
cuestión. Más allá de detalles maravillosos como el hecho de que Archibaldo
sólo toma leche, símbolo de su mega infantilismo, y es ceramista por hobby,
caricatura de alguien que trabaja con sus manos no obstante no puede usarlas
para matar como tanto desea, aquí sobresalen el maniquí idéntico a Lavinia que
“mata” De la Cruz como consuelo, algo así como un doppelgänger cosificado y
tieso de la mujer real y signo de la pusilanimidad y mala fortuna del hombre,
la conversación chauvinista/ fervorosa/ lírica entre un militar, un sacerdote y
un político, por demás onanista para con la patria y la pompa católica, y
finalmente la genial ironía del desenlace vía Archibaldo yéndose con Lavinia,
la única mujer que “sobrevivió” a su compañía y cuyo simulacro de muerte fue lo
más cercano al crimen que jamás estuvo en este limbo entre la praxis real y la
imaginación.
sembra una storia un po' squallida, ma le cose non sono come sembrano, forse peggio, di sicuro non mancano i misteri.
Ariane fa un lavoro un po' strano, e si innamora del ladro Olivier.
ed è amore vero, tra una terapeuta del sesso e dell'umiliazione (i clienti hanno sempre ragione) e un innamorato che crede di capire, ma è sempre un passo indietro.
due ottimi attori rendono il film davvero interessante.
buona visione - Ismaele
Non conosco il francese, ma, anche se il titolo del film
di Schroeder (lasciato ingannevolmente
inalterato nella versione circolata in Italia) rimanda alle tenutarie degli
esercizi chiusi dalla Legge Merlin, direi che bordelli e compagnia non
c'entrano niente. Qui Maitresse significa,
in senso proprio, padrona (Personne qui a un pouvoir de
domination sur les êtres ou les choses. − Personne qui a quelqu'un sous sa
dépendance, sous son autorité), qui specificamente in senso sessuale
sadomasochista. Niente di morboso, comunque: la protagonista (Ogier) si fa pagare, ma non è una prostituta;
piuttosto, la si potrebbe definire una terapeuta, molto professionale, per
clienti/pazienti masochisti, sui quali esercita le pratiche sadiche che essi
pretendono. Con esiti talvolta disturbanti e talaltra volta inevitabilmente
comici, come quando Olivier (Depardieu),
penetrato nel sancta sanctorum della compagna, picchia un cliente chiuso in una
gabbia e quello protesta "ahi! mi fai male!" (viene in mente quella
freddura secondo la quale «dopo una fase di studio, i due pugili sono venuti
alle mani»). Le parti migliori del film, in ogni caso, sono, secondo me,
l'inizio - durante il quale Olivier ed il suo amico Mario, sotto la copertura
della vendita di libri d'arte, studiano appartamenti da svaligiare - ed il
finale, quando Olivier vaga per Parigi, finendo al mattatoio, dove vengono
macellati i cavalli.
…l'histoire d'Olivier et Ariane est à la fois diversion
face à une déshumanisation possible de ces pratiques - ces fouets, ces trucs,
ces ordres - et compressée par le latex. L'humour est aussi là, discret – le
menottage d'Olivier et Mario, Ariane en ange sans miséricorde, la pâtée au
champagne pour chiens préparée par la bonne ou la visite chez Emile. La veine
documentaire de Schroeder est bien sûr saillante dans les scènes de domination,
jouées par de vrais pratiquants [Bulle Ogier, formidable de séduction opaque,
étant doublée pour les scènes les plus techniquement difficiles] : mais il n'y
a aucun voyeurisme, le réalisateur sait être clinique. Les lumières aident,
elles sont de Nestor Almendros [et les costumes de Karl Lagerfeld], qui peint
intelligemment l'appartement supérieur, spacieux et éclairé, et le boudoir
inférieur, noir de marbre et aux néons dépressifs. Schroeder s'arrête à temps
et Dieu sait que certaines scènes heurteront la sensibilité de certains
spectateurs [un monsieur cloué au pilori]. Mais on a saisi ce qu'il fallait, la
parole, les dos qui se courbent, le théâtre. En 1931, Walter Benjamin écrivait
ceci (3) :"Ce dont il s'agit dans le théâtre d'aujourd'hui se définit
plus exactement par rapport à la scène que par rapport au drame. Il s'agit en
effet du comblement de la fosse d'orchestre. L'abîme séparant les acteurs du
public comme les morts des vivants…" Le fait est qu'en regardant Ariane à l'œuvre, en
tant que spectateur, je me sens tour à tour mort et vivant. Les personnages
aussi, probablement…
…, Maîtresse (1976),
film sorprendente sobre un provinciano que llega a París para trabajar de
paisajista, Olivier (Gérard Depardieu), y termina enredado primero con un amigo
ladrón que utiliza de tapadera la venta de libros sobre arte, Mario (André
Rouyer), y después con una dominatrix profesional, Ariane (Bulle Ogier), que lo
descubre robando y le paga para que le orine y le eyacule en la cara a uno de
sus clientes travestidos, todos muy fanáticos del cuero brillante.
Mediante
el latiguillo narrativo -digno de la picardía del sexploitation de los 60 y 70,
uno que combinaba el nihilismo y la desfachatez crónica- del amor entre
Olivier, quien pronto abandona las correrías delictivas con Mario para mudarse
al departamento de la ninfa, y esa Ariane que trabaja en su hogar aunque
mantiene separada su vida privada de la existencia pública, en especial a
través de teléfonos diferentes y hasta una planta alta que hace las veces de
aposento tradicional y una baja símil calabozo para las distintas puestas en
escena de la humillación y el dolor placentero, la película indaga en las
muchas contradicciones de las relaciones humanas porque Olivier nada tiene que
ver con el universo de la fémina pero acepta dejar de lado su trasfondo
dominante para convivir de igual a igual con Ariane, la cual a su vez se
muestra como una fuerza ultra gélida de la libido -esa “ama” o “amante” o
“maestra” a la que se refiere el polisémico título original en francés- aunque
en realidad es también una mujer vulnerable ya que está a merced de un hombre
millonario y poderoso que tiene la custodia del hijo pequeño de ambos, un tal
Gautier (Holger Löwenadler) que la controla a su gusto imponiendo encuentros,
quitándole el dinero que gana y aparentemente extorsionándola con las visitas
al mocoso, un juego hegemónico por cierto refrendado sin resistencia alguna por
esta prostituta del jet set capitalista que en sí no tiene sexo con sus
clientes. El guión de Schroeder y Paul Voujargol apela a un naturalismo
bastante sutil que contrasta el romanticismo tradicional de la relación entre
los amantes y el ir y venir de una mucama avejentada, Lucienne (Nathalie
Keryan), con los pormenores más “coloridos” del oficio de ella, como tener a
varones en jaulas, montarlos, alimentarlos como perros, darles latigazos,
colgarlos, empalarles el pene, perforarles los pezones, someterlos a un potro
de tortura, apagarles cigarrillos en las manos y/ o participar en orgías
voyeuristas con detalles bondage y de flagelación. La crisis, por supuesto,
llega por la dependencia mutua creciente mediante los ataques de pánico de la
mujer y esos celos de Olivier en relación a Gautier…
Uno spiantato si fa coinvolgere in una relazione con una
dominatrice: fin dove si spingerà? Film in cui il rischio di cadere nel
ridicolo, specie per chi non è interessato al bdsm, è altissimo, ma Schroeder è
bravissimo nell'evitarlo. Così come meritoriamente evita qualsiasi tipo di
giudizio sui personaggi e su ciò che mostra, senza pruriginosi voyerismi, con
grande libertà. Certo, dopo un po' la storia mostra di non avere tante frecce
al suo arco e potrebbe annoiare nelle scene in cui mostra le pratiche bdsm, ma
va in porto senza problemi. Buono, il finale. Bravissima la Ogier.
…Sorti peu de temps après l'adaptation
cinématographique d'Histoire d'O de Just Jaeckin, Maîtresse,
on l'aura vite compris, s'éloigne de cet érotisme factice trahissant l'essence
même de son sujet, en se rapprochant davantage sur un ton plus léger des
sulfureux et contemporains de Salo de Pier Paolo
Pasolini ou de L'empire des sens de Nagisa Ôshima. De
ces scènes sadomasochistes, faisant office d'électrochocs [1] pour
le spectateur non coutumier du fait (soit le spectateur lambda au milieu des
années 70), filmées dans un style proche du documentaire, avec de
véritables pratiquants dans un appartement parisien transformé pour
l'occasion en donjon SM, Barbet Schroeder ancre son long métrage fictionnel
dans une réalité crue, sans artifice, alors que le cœur du film tourne autour
des fantasmes des protagonistes, des clients au couple formé par Ariane et
Olivier.
Couple ambigu et paradoxal, interprété par une surprenante Bulle Ogier (loin de
l'image qu'on pourrait se faire d'une dominatrice et de ses précédents rôles)
et un bouillant Gérard Depardieu à la fragilité trouble, les deux amants
renversent autant le schéma patriarcal établi, qu'ils sont à la recherche d'une
relation parfaite, au-delà de toute soumission et dominance. Réflexion sur le
pouvoir, ou plutôt sur les différentes formes que celui peut prendre, la
présence du dénommé monsieur Gauthier, protecteur et souteneur d'Ariane, venant
jouer les éléments perturbateurs, Maîtresse fait également
écho dans sa conclusion avec deux décennies d'avance à celle de Crash de
David Cronenberg, l'épilogue joyeux originel cédant cette fois-ci sa place à
une noirceur fataliste.
Non dénué d'humour, comédie étrange se piquant de jouer avec la morale
bourgeoise et les bonnes mœurs tel son illustre pair Luis Buñuel, ce
quatrième long métrage de Barbet Schroeder s'inscrit sans conteste comme l'une
des plus belles réussites du cinéaste suisse.
un road movie girato in Bretagna (protagonista anche lei), dove Paco si fa rubare la macchina da Nino, e poi i due diventano amici, riuscendo anche a sostenersi a vicenda, nelle loro avventure di (timidi) tombeurs de femmes, con Marinette e Nathalie.
non è un capolavoro, ma riesce a strappare simpatia, solidarietà e sorrisi.
buona (bretone) visione - Ismaele
Western está en las
antípodas de la ley no escrita que rige al Mainstream –conflictos fuertes,
ritmos histéricos, resolución previsible– a tal punto que su nombre, que remite
a uno de los más asentados géneros del cine norteamericano, puede tomarse como
una ironía del director Manuel Poirier. Aunque, si bien se mira, podrá verse a
un par de fantasmas del lejano Oeste sobrevolando a este film: Western es
una historia de fronteras, en la que el futuro no está asegurado para nadie.
Esto les cabe a Paco (Sergi López), vendedor de zapatos español, y a Nino
(Sacha Bourdo), inmigrante ruso, virtuales forasteros en
tierra bretona (campiña del West francés) llamados a cruzar
sus destinos, hacerse amigos e iniciar un largo viaje hacia ninguna parte…
…As this odd couple for the 1990s (men behaving Frenchly?)
travel the backroads of Brittany, it becomes apparent that Paco's uncanny
success with women is matched only by Nino's ability to self-destruct during
even the most casual human contact. But, as Paco learns from the wily Nino, you
can always learn something new. Western is the kind of movie
where adversity is dwarfed by cheerfulness, as well as a kind of cosmic decree
that all adventures turn out for the best. And no matter how selfish or
criminal their characters act, Lopez and Bourdo imbue their characters with
warmth and an increasingly tattered but intact dignity. With a heart as big as
its widescreen photography, Western seems destined for
American art house success; all it needs now is a distributor with Nino's wiles
and Paco's luck.
il film, in due parti (anni 2009 e 2011), di Massimiliano Mazzotta e un intervento di Antonio Caronia, con un’intervista al regista e un articolo sulla censura subita dal film; a seguire un bel corto d’animazioneDernière porte au sud, di Sacha Feiner, su Arte (sottotitolato in italiano)
QUI un’intervista del 2013 con Massimiliano Mazzotta
“Oil”, la Saras chiede il sequestro
Salta la proiezione del film sulla Saras di Sarroch girato da Mazzotta. Immediate le proteste. Antonio Caronia: «Sono sconcertato: è censura politica»
Volevano vedere il film sulla raffineria di Sarroch, sull’indotto economico che rappresenta e sull’impatto ambientale, gli studenti dell’associazione “Pesa” di Cagliari, per questo avevano organizzato la proiezione di “Oil, la forza devastante del petrolio, la dignità del popolo sardo”, realizzato e prodotto dal regista Massimiliano Mazzotta, il 15 maggio scorso nella sala Nanni Loy dell’Ersu.
Un sogno infranto dalla notizia di un ricorso per sequestro giudiziario in via d’urgenza dai legali della Saras che ha fatto inaspettatamente saltare la proiezione. In attesa che il giudice civile convochi le due parti, il film è stato proiettato, come da cartellone, a San Sperate dall’associazione “Gramsci” e a Cagliari al Teatro Civico di Castello. Un fulmine a ciel sereno, quindi, quello che si è abbattuto sull’evento organizzato dagli studenti dell’associazione “Pesa”, che, nonostante il bilancio esiguo, avevano pagato il viaggio ad Antonio Caronia, docente di comunicazione multimediale all’Accademia di Brera, moderatore del dibattito legato al film.
“Siamo rimasti stupiti col regista Mazzotta, con cui collaboro da anni, perché il documentario è equilibrato, infatti ci sono anche dei dirigenti Saras. Sono sconcertato, addolorato, imbarazzato perché, avendo dovuto moderare la serata, mi è stato impedito di dire la mia agli studenti. E’ stata una beffa a dei ragazzi, come quelli dell’associazione studentesca, che non hanno potuto svolgere la loro iniziativa”, ha commentato il docente. Immediata la protesta del presidente dell’associazione “Jan Palach”, Marco Pistis, che ha scritto una lettera indirizzata a Giancarlo Nonnoi, presidente dell’Ente regionale Diritto allo Studio della Sardegna. “L’Ersu – si legge nella lettera, a cui ha aderito anche Antonio Caronia- ha negato l’autorizzazione alla proiezione del documentario di Massimiliano Mazzotta in programmazione il 15 maggio, facendosi così complice di una vera censura che offende tutti gli studenti, gli organizzatori e l’immagine stessa dell’Ente. Tale censura era immotivata, mancando, allo stato un provvedimento dell’autorità giudiziaria che abbia vietato o limitato la possibilità di proiettare il documentario”.
Rincara la dose Antonio Caronia: “E’ grave perché un gruppo di studenti ti chiede la sala per la proiezione, la confermi e poi tre giorni prima non si ottiene l’autorizzazione, è chiaro che si tratta di censura politica ambientale, oltre alla chiara dimostrazione che l’Ersu abbia agito contro il suo mandato istituzionale. E’ chiaro che se dovessimo ricevere, come abbiamo chiesto, le scuse ufficiali da Nonnoi allora mi terrei soddisfatto”.