Prénom Godard. Chi scriverà più le immagini ora che la "politica dell'autore" è morta? - Roberto Silvestri
Prima di lui si andava comodamente nel cinema sotto casa, soprattutto in famiglia. Da almeno tre decenni (1920-1950) la settima arte era regredita – più ancora in Europa che in America - a poco a poco a tempio del conformismo calligrafico, della narrazione compiaciuta di sé, della recitazione pompier e tossica, tra codici Hays e censure bigotte, in molti casi fasciste, terrorizzate dalle immagini. Ma dopo lo tsunami Godard, dopo la scomposizione che lui ha attuato, come un gioco contagiante, su tutti gli elementi del linguaggio visivo, sonoro, non verbale, gestuale, comportamentale, involontario, e della memoria combinatoria che attiva la ricezione (se era vietato fare un primo piano con un grandangolo ebbene lui lo faceva, se il montaggio deve essere invisibile ecco il jump cut continuo), andare al cinema è diventato certo un gran lavoro ma anche un vero piacere, un divertimento da parco giochi, un’avventura dell’occhio-mio-dio, un gesto chic e snob e sovversivo. Ti sentivi uscire dal tuo corpo, essere Belmondo e Karina allo stesso tempo. Solo contro il mondo. Estasi.
Avevi scoperto finalmente qualcosa che non avresti mai trovato nella letteratura, nella musica, nella pittura, nell’architettura. “La verità 24 fotogrammi al secondo”, parafrasando Cocteau (“il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo”) vuol dire poter cogliere le cose vere, cioè mutanti e conflittuali, che il visuale paralizza nell’ideologia, e “trasformare la notte in luce”, come scrive nel suo virtuale libretto rosso mai pubblicato, perché noi, fuori dalla sala buia, non vediamo di non vedere. Pochi registi erano riusciti prima di Godard a liberarsi dai lacci e legacci imposti dai produttori – e, ricordiamolo, un film è un rapporto a due: regista e produttore, e Godard preferiva Thalberg a von Stroheim - mandando segnali segreti a critici ribelli e spettatori perspicaci. Les années Cahiers lo vedono alla macchina da scrivere a liberare nelle sue recensioni le immagini vitali incastonate nei mélo di Sirk, nei thriller di Hitchcock, nelle tragedie femministe di Mizoguchi e nelle commedie di Tashlin e Blake Edwards.
Ecco perché Godard - e anche i suoi critofilm più incomprensibili, i suoi film-saggio più rivoluzionari e filosofici - piace nel subconscio a Hollywood. Ma quell’Oscar alla carriera lui l’ha rifiutato sdegnosamente, per non essere da meno di Marlon Brando (e per farsi premiare di più). Il suo decennale lavoro sulle unità spazio-temporali della sequenza ha vivisezionato funzioni e procedimenti di un film, e perennemente fatto rinascere il cinema, che se non sconvolge tutte le funzioni, logiche e emozionali, del nostro cervello, non c’è. Non esiste. E da neo-formalista (adorava Eisenstein e come era indignato con Kenneth Anger quando osò rimontare Que Viva Mexico) ha attivato in tutta la sua ultracentenaria opera sensazioni, intellezioni, immaginazioni e memoria, anche rianimando forme antiche e dimenticate: ecco “il bello”, che non è la copia di un modello, ma di un monello. Ecco la funzione estetica, attivare la costituzione d’oggetto e la formulazione di immagine. Abbassando il più possibile i costi di produzione. Lavorando sodo, come un falegname, un operaio. Senza guadagnare di più. Si tratta di psicosi egualitaria? No. Di come si intende democrazia. Lui la intende come Thoreau, Whitman e gli altri trascendentalisti americani dell’800 romantico e utopistico, pur con le sue origini calviniste, da dio cattivo che punisce, sono pochi i non peccatori. La intende come priorità delle persone e non dei proprietari. Prendiamo una sequenza western normale (non alla Monte Hellman, che adorava tanto quanto non sopportava Woody Allen). Arriva il cowboy a cavallo, attacca il cavallo alla sbarra entra nel saloon e la cinepresa lo segue. Ebbene Godard non lascia mai il cavallo. Resta con lui. Il cinema è atto, movimento, tragitto, mai personaggio….
Con Godard il cinema tornò quell’avventura sulfurea, delle origini, quel montaggio delle attrazioni da circo che trasforma le nostre parti basse in general intellect. Il teatro in documentario e viceversa. Strano che Guy Debord, criticandolo da sinistra lo definisse “il tipico cineasta borghese". Anche se si riferiva al Godard primo periodo, quello della modernità di fraseggio, della soggettività desiderante, dell’anarchia come programma minimo, quello che lo stesso Godard poi ha autocriticato reinventandosi – chi non ha vissuto quei momenti non riuscirà a comprendere l’ovvietà di quella decisione, tra stragi di stato e Vietnam, polizia assassina e mostri prepotenti al poyere ovunque - come militante rivoluzionario maoista, e assieme a Gorin fondando il gruppo Dziga Vertov per realizzare dal 1968 al 1974 non film politici ma film fatti politicamente, ovvero applicando correttamente la politica dell’autore (che non è come si crede erroneamente sovranità del regista, ma sovranità della politica, committente le masse). Godard "ha giusto delle idee di cinema, più che delle giuste", e senza indipendenza e piena libertà, dunque senza basso costo e senza il costante aggiornamento sulle tecnologie audio, suono, video e digitali da dominare teoricamente ("bisognerebbe pagare chi vede la tv, non chi la fa"; oppure "i telereporter sono criminali di guerra", infine "i bambini sono prigionieri politici") Godard non sarebbe un pedagogo, come Rossellini gli ha insegnato ad essere e Serge Daney (il critico francese "di fase" più stimolante alla fine del secolo scorso) ha confermato che fosse. Da Ici et Ailleurs, Numéro deux e Comment sa va in poi, insomma dal 1974, prima a Grenoble poi nel villaggio svizzero di Rolle, cantone di Vaud, Godard mette in scena solo "persone che si fanno la lezione". Il Godard di questa "parte seconda" è soprattutto quello elettronico, che lavora per le sue società "Sonimage" e poi "JLG Film", assieme alla fotografa, artista multimediale e cineasta e storica dell’arte Anne-Marie Miéville. Ha gelato l'amicizia con Francois Truffaut, ha avuto un orribile e traumatico incidente di moto (nel 1972, in piena militanza maoista, quando ha abbandonato la totalizzante "unità di produzione Dziga Vertov" e il suo alter ego Jean-Pierre Gorin, ma metterà alla prova il metodo marxista-leninista non solo rispetto alla lotta di classe in Occidente e nei paesi dell’Est Europa o alle insorgenze anticoloniali in Mozambico e in Palestina, ma alla costruzione di un’immagine, e alle questioni interiori e sotterranee del privato, alla crisi ambientale, all’uscita dall’antropocene. Insomma il suo è un surplus di cinema politico, mai riflusso. Solo Godard (e Straub e pochi altri) combatte, con raffinata tecnica pugilistica, contro la televisione e il visuale virale e brutto di certo cinema (a volte contro Spielberg e Bertolucci) e di certa televisione, ma sul loro stesso terreno, campo contro campo. Truffaut diceva che Godard "ha sempre pensato al di sopra dei propri mezzi", ma certo molta tv e molta Hollywood pensano ben "al di sotto dei loro mezzi"... Ponendosi, per esempio in Je vous salue, Marie, non problemi di verginità della Madonna, ma di purezza/sporcizia dell'immagine. Il critico Alberto Farassino, scomparso troppo presto, grande studioso di Godard a cui ha dedicato un fondamentale Castoro, ricorda nella versione ampliata del 1996 una sua frase bellissima: "Dato quel che è accaduto in Cile, il fascismo, Pinochet, la mia vita prende di conseguenza una direzione piuttosto che un'altra. Quando incontro qualcuno non mi interessa dirgli che il fascismo è buono o cattivo, o che Pinochet è un imbecille. Gli parlo di me e di lui".
“La macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente al confine tra il visibile della nostra vita quotidiana e l'invisibile di un aldilà inconoscibile”, insomma il cinema secondo Cocteau, diventa per Godard sempre qualcosa d’altro, di differente, di contraddittorio, il contrario di prima. E’ la sensibilità postmoderna, ovvero soggettività drastica coniugata a altissima etica politica che lo invita al nomadismo, alla deriva, al continuo cambio di set mentale. Ancora una volta. Il lago, le montagne, il cane, quei certi quadri adorati, quella letteratura amata (il buffone shakespeariano, l'idiota dostoievskiano...), diventeranno gli elementi visuali fissi e di suggestione da impasto, molto più importanti delle storie, sempre "da non raccontare", o della Storia, da non perdere mai di vista, o della storia del cinema, che andrebbe bruciata. Se i film sono merci bisognerebbe bruciarli. Ma con il "fuoco interiore". Perché l'arte nasce da ciò che brucia. Così Godard, l'artigiano, il grande parlatore seducente (assistere a una sua conferenza stampa era come entrare nello stand della donna barbuta) lavora molto negli anni 80 per la tv di stato, da cattivo allievo di Rossellini: ecco le videoconferenze, le lezioni sul centenario, gli spot, ma anche i remake, produttivi non iconografici, come Fino all'ultimo respiro. II Leone d'oro di Venezia con Passion (una magnifica giuria tutta nouvelle vague, scelta da Rondi, con Bertolucci e Oshima tra gli altri, non poteva non premiarlo) fece inorridire il critico del Corriere della sera che, coraggiosamente lo stroncò, a rischio di perdere la direzione del Centro Sperimentale di cinematografia che, lo dice la parola stessa, o è godardiano o non dovrebbe neppure esistere.
Negli ultimi anni ancora scandali, detour. Una torta in faccia a Cannes, l’invito recente a votare Le Pen, inorridito dalla fine del socialismo, capelli perennemente arruffati e Gitanes papier mais in bocca. Forse aveva ragione Debord. L’ultimo grande borghese è morto.
da qui
Adolescenza Godard - Giulia Cavaliere
Intorno ai 15 anni ebbi finalmente il diritto di tenere una piccola tv nella mia stanza, era senza antenna ma collegata a uno di quei dispositivi esterni che tenevo sul pavimento per riuscire a intercettare almeno un canale, Mtv, che guardavo soprattutto in tarda serata, alternandolo, se il marchingegno in questione me lo concedeva, a qualche assurda puntata del Maurizio Costanzo Show a cui mi ero appassionata senza troppi eccessi dopo aver scoperto per caso, una notte in cui avevo la febbre, che ci passava gente come un tizio di nome Carmelo Bene lasciandomi scossa e illuminata - come solo può illuminarsi un adolescente.
Non mi interessava la tv, fin da quando ero bambina mi annoiava molto e mi faceva sentire costretta, però mi interessava la musica e dunque la musica in tv, i videoclip, le classifiche; in ogni caso quella tv sarebbe servita principalmente per i film. Complici le vhs di casa, quelle della videoteca de l’Unità e quelle registrate da mio padre con etichette adesive e scritte a mano, nell’epoca della vita - appunto la pubertà - in cui la stanza singola diventa il mondo intero, io, in quella stanza, volevo portarmi il cinema.
Quella piccola tv che non aveva un’antenna era stata infatti acquistata per via del videoregistratore che aveva incorporato e così iniziai a vedere più film che potevo: uno al giorno, a volte due, persino tre, non vedevo l’ora di tornare da scuola e premere play, avevo cassettoni enormi sotto il letto pieni di videocassette di ogni sorta e nei pomeriggi non studiavo e non guardavo i Simpson alle 14: passavo le mie ore a leggere, ascoltare dischi e guardare film nel tentativo di recuperare lì dentro, tra le mie personali mura strette, tutto quello che fuori era accaduto in passato e che io, nata a metà degli anni ’80, non avevo potuto conoscere prima di quel momento.
Conoscere era la mia sfida quotidiana, scoprire: non i bei voti a scuola, non rigare dritto, non la pace familiare che queste due cose mi avrebbero garantito, ma semplicemente conoscere tutto quello verso cui mi sentivo trascinata irresistibilmente, assecondare, appagare e rigenerare il desiderio continuo - estenuante a pensarci ora per la sua voracità - di soddisfare le mie curiosità di scoperta.
Scoprii in quella stanza che le curiosità vivevano in una catena infinita, ne erano parte come accade ai frammenti del dna, nulla rimaneva fine a sé stesso, tutto sbocciava e finiva per confluire e darsi al frammento successivo, non esisteva curiosità che restasse sola e così, non so come, una di queste curiosità mi incuriosì a sua volta dell’opera di Jean Luc Godard. In quel mondo di cinepomeriggi abitava anche una grande consapevolezza che all’epoca possedevo solo nei sensi e che ora si è fatta dato: desideravo ciò che non comprendevo, meno comprendevo, meno era semplice da decifrare e più ero spinta a metterci gli occhi, le orecchie, la curiosità.
Era stato così da sempre: i pomeriggi delle scuole medie alla biblioteca comunale a leggere libri sui musicisti in un inglese troppo difficile per me (di italiani non ce n’erano), i tentativi di decifrare Marx dai volumi della libreria di casa dopo averlo scoperto dalle ben meno ardite lezioni di scuola, i dischi di musica elettronica d’avanguardie indecifrabili. Non c’era qualcosa di più appassionante, allora, di questa spinta verso l’ignoto, verso una complessa intelligibilità, verso il non immediato. In una contemporaneità dove l’immediatezza, l’orecchiabilità assoluta, la comprensibilità automatica sono ritenute doti che qualsiasi prodotto culturale deve avere non per essere di molti ma semplicemente per poter esistere, io oggi voglio ricordare l’eccitazione sconvolgente di guardare i film di Godard senza capirci quasi nulla, trascinati dal piacere di pensare già a metà film a quante volte ancora li avremmo visti esaltati da quell’incomprensibilità da trasformare in comprensione piano piano, una visione alla volta.
Non solo Godard ma tanti altri, come lui, occidentali e orientali, al primo film o già consacrati che fossero, ci spingevano nel viaggio della complessità, tuttavia lui ne era capofila: sedotti dalla bellezza assoluta dei suoi attori e dalle vite in sequenza di questi personaggi silenziosi che si muovono da un caffè a un letto, fumano sigarette, si interrogano leziosamente e pigramente su movimenti dell’esistenza che a 16 anni percepisci ma non puoi aver ancora sperimentato, scoprimmo all’improvviso una nuova vita fatta di vuoti temporali, sospensioni, di una terza possibilità esistente tra dovere e piacere, qualcosa che non è né l’una né l’altra cosa, ma semplicemente l’esistere nei giorni. Godard è poi l’ingresso in un cinema che porta ai nostri occhi film dall’estetica tanto precisa da strabordare, film di strazi e risatine, frangette da imitare, montature di occhiali che non avevamo mai visto prima ma avremmo cercato di indossare noi il prima possibile o ricercato nei volti delle persone che poi avremmo voluto baciare.
Non capivamo niente di cinema, in fondo eravamo solo ragazzini, non capivamo nulla di nulla degli estremismi intellettuali e degli esperimenti cinematografici come capivamo pochissimo, è chiaro, di Marx e tutto il resto, ma qualcosa restava, si andava a sedimentare e più che altro sapevamo segretamente e con i sensi che stavamo guardando un impossibile da decifrare che in quanto tale possedeva una grana di bellezza destinata a eternarsi. Uscendo dalla stanza, grazie a quello che dentro vi succedeva, imparavamo a stanare i nostri simili, quei pochi, che allora credevamo pochissimi, del grande mondo che potessero condividere con noi questa grande visione che ci aveva investiti grazie a tutte quelle visioni, e con loro facevamo gruppo, cercavamo di raccontare, sintetizzare, trametterci l’un l’altro trame e storie indecifrabili, a suon di cineforum dell’infinito, vhs registrate a nostra volta da Fuori Orario e tutto il cinema d’autore della nostra povera sede di provincia del Blockbuster noleggiata a ripetizione fino a conoscere le dissolvenze a memoria.
Molti anni dopo, grazie non al Liceo ma a quei pomeriggi, mi iscrissi alla facoltà di Lettere e scelsi un indirizzo che prevedeva un gran numero di esami di cinema. A quello di filmologia fui interrogata a lungo, neppure a farlo apposta, su A bout de souffle di Jean Luc Godard, il mio giovane e brillante professore, di cui conservo ancora i libri che mi consigliò e parte delle intuizioni che ci suggerì a lezione, sarebbe morto dopo poco tempo e dopo aver risposto alle sue domande non lo avrei mai più rivisto. Fu la prima volta in cui mi trovai a scoprire da vicinissimo che la ferocia delle passioni e l’adesione all’arte non ci avrebbero risparmiati dal dolore e dalla perdita, e neppure il contatto continuo con la bellezza sarebbe mai stato sufficiente.
Con la morte di Jean Luc Godard, in queste ore, guardo frammenti di film viste decine di volte, pellicole che sono diventate preghiere laiche nei pomeriggi d’inverno della mia adolescenza, sequenze che proprio con la bellezza sfidano la morte e quel giorno in cui lo schermo andrà spento, la vita farà il suo corso, si tornerà a oscillare tra dovere e piacere e non si potranno fare tutte quelle cose che ad altri che verranno continueranno ad apparire un po’ insensate e un po’ magiche come la corsa al Louvre e il balletto in "Bande à part”, cose che là fuori nessuno fa mai ma non per questo non andrebbero fatte.
Volevamo i capelli come Jean Seberg, camminare per Parigi urlando il nome di un giornale americano da vendere per strada accompagnate da qualcuno che non potevamo immaginare fino a poco prima, i film che tracciavano una delle più cruciali linee di demarcazione nella storia del cinema, tracciavano un solco fondamentale anche nelle nostre vite, e prima e dopo in chissà quante altre. I registi della Nouvelle Vague sono stati per un attimo degli eroi dell’impossibile da fare e da comprendere, qualcosa che oggi, dopo essere cresciuti e dopo aver studiato, e letto e forse aver capito qualcosa della loro straordinaria rivoluzione linguistica, lasciano viva, andandosene, prima di tutto, comunque, l’aura del sogno che fu sognato, il segno dell’utopia incomprensibile appassionatamente costeggiata che per me sono proprio le notti sveglia fino a tardi a cercare di guardare e capire La Chinoise o il tentativo fallito in partenza di somigliare ad Anna Karina.
Per una volta allora vale la pena di dire che anche senza capire, capimmo qualcosa, e che JLG nei nostri avatar, nei poster sulle nostre teste da studenti, stava lasciando un segno prima ancora di lasciarlo davvero con il suo cinema. Quello che potremmo pensare come semplice adesione a un’apparenza, quella scelta dell’incomprensibile e quell’ostinazione a comprenderlo, tornano a galla oggi come una precoce presa di posizione nelle cose del mondo, qualcosa che da lì in poi non ci avrebbe mai abbandonato, mostrandoci da che lato selvaggio della strada compiere il cammino, anche senza New York Herald Tribune.
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