venerdì 30 settembre 2022

Qué Tan Lejos - Tania Hermida

Esperanza (spagnola) e Tristeza (di Quito) sono due compagne di viaggio, prima in pullman, poi in autostop, verso Cuenca, in Ecuador (450 chilometri).

il viaggio è un'avventura e un'occasione di conoscere altre persone.

Esperanza è una turista, Tristeza va a Cuenca perché il suo fidanzato è irraggiungibile, e scopre che si sposa, con un'altra.

alle due si aggiunge Jesus, che va a spargere le ceneri della nonna da qualche parte.

apparentemente non succede molto, ma il viaggio da Quito a Cuenca  è una scoperta, per tutti e tre.

buona (itinerante) visione - Ismaele


 

si può vedere qui o qui

 

  

Due donne come Thelma e Louise. Però appiedate e tranquille, in cammino lungo le strade dell’Ecuador. Esperanza da Barcellona e Tristeza da Quito. Entrambe in cerca di qualcosa che è impossibile da realizzare: impossessarsi di immagini da portare via con sé oppure riconquistare l’ex-fidanzato che sta per sposarsi. Due inutili tentativi di fermare il tempo, che corre via e cancella tutto in un secondo. Le due ragazze, una turista ed una studentessa, sono dirette a Cuenca, e sono dovute scendere dal pullman, perché la circolazione è stata bloccata, in tutto il Paese, da una protesta diretta contro un provvedimento del presidente. Davanti a loro, si estendono centinaia di chilometri da percorrere in mezzo al nulla. Un itinerario punteggiato da singoli incontri casuali, ma che, fondamentalmente, è il melanconico viaggio di due solitudini: quella dei sogni che non si riescono a mettere a fuoco e quella dell’amore che, per una volta, risulta sconfitto dalle banali logiche del mondo. Il paesaggio è una vastità pacifica ma vuota, attraversata da sporadiche incarnazioni della follia, in una parte del globo in cui nada tiene a que ver con nada (niente ha a che vedere con niente), ossia tutto si mescola a caso, e ogni aspetto della vita, dalle vicende politiche alla quotidianità della gente comune, è governato da un allegro senso dell’assurdo. La stessa identità nazionale è storicamente ed etnicamente indefinibile, per una popolazione che non si considera né nera né bianca, e conta, tra i suoi antenati, sia le vittime del genocidio coloniale, sia gli autori dello stesso. Quel luogo è la vera terra di mezzo, che l’interruzione del traffico in attesa delle decisioni governative rende realmente sospesa tra passato e futuro,  come un grande animale sornione che trattenga il respiro. Lo spazio deserto e misterioso che separa il posto di blocco dalla città di Cuenca, la destinazione delle due ragazze, è la metafora delle cose che potrebbero unirsi, ma che invece restano inspiegabilmente lontane e sfuggenti, per poi, magari, incrociarsi quando meno se l’aspettano. Un’incredibile coincidenza di questo tipo è quella che capita a Jesús, quello strano vagabondo che trasporta, in un’urna, le ceneri di  sua nonna Angelita, e che in mezzo a quella desolazione,  incontra suo cugino, il quale poi, per ironia della sorte, è anche invitato alle nozze che Tristeza vorrebbe impedire.  I crocevia dell’esistenza sono quelli che in cui si aggregano compagnie male assortite: e ciò accade proprio lungo quel parallelo zero che segna il confine tra due emisferi speculari, quello dei conquistadores assassini  e quello degli indios sfruttati, quello dei viaggi organizzati e quello delle emigrazioni per necessità, quello che cerca la bellezza nella superficie (ad esempio, scattando la fotografia di un paesaggio andino) e quello che scava in profondità (riflettendo, attraverso i libri, sulla propria storia), quello animato da una facile speranza nel progresso e quello pervaso dalla tristezza di una condizione di umiliante impotenza.  Tuttavia gli opposti non entrano in conflitto, perché sull’invisibile linea dell’equatore essi vengono serenamente a combaciare, come, ad esempio, in quella paradossale figura di Jesús, che contiene in sé la vita e la morte, la realtà e la finzione (visto che è un attore), il sacro e il profano (dato che porta il nome di Cristo, però non sembra credere in niente). Questo istrionismo del disorientamento è l’universalità dei semplici, dei poveri, di coloro che non hanno una bandiera o un emblema in cui riconoscersi, e  per questo si fregiano di quello che capita, a cominciare dai colori della squadra del cuore, per finire con nomi di fantasia che hanno un significato in codice (come Teresa, che sceglie di farsi chiamare Tristeza). Qué tan lejos significa quanto distante: ed è un’espressione di straniamento, di nostalgia per le proprie abitudini, che assale all’improvviso il viaggiatore quando è tanto lontano da casa. Ed è, in senso lato, un’esclamazione di sgomento di fronte all’abisso insondabile in cui si perdono, per  il popolo ecuadoregno, le radici della sua natura così indeterminata, che non si sa bene come sia, né, tantomeno, come si vorrebbe che fosse. 

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Qué tan lejos es una película recomendable para quienes buscan ver en el cine historias humanas. La guionista y directora Tania Hermida hilvana personajes muy diversos sobre la trama central del viaje de Esperanza Tristeza. A su vez va profundizando a lo largo de su viaje en el conocimiento mutuo de las dos jóvenes.

La española trabajadora en una agencia de viajes en Barcelona recorre Ecuador conociendo paisajes  e idiosincrasias de sus habitantes. La ecuatoriana se pone a prueba ella misma en el temido viaje al encuentro del novio.

Sus diferentes actitudes con ellas mismas hacen que vivan de manera muy diferente las incidencias del viaje.

Podemos sentirnos reflejados en alguno de los personajes en éste viaje que es la propia vida.

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De Quito à Cuenca, des liens vont se tisser et des a priori vont tomber. Le film se dévoile au départ à travers deux points de vue différents. Celui d’Esperanza représente la vision dépassée mais toujours présente en Equateur d’une Espagne arrogante et conquérante. Ce que lui reproche Tristeza, pourtant arrogante à son tour avec les «indigènes». L’histoire se répète et l’Equateur semble avoir du chemin à faire pour intégrer toutes ses populations, nous dit en substance Tania Hermida.

La jeune cinéaste dépasse cependant une mise en scène «carte postale» pour s’immiscer avec sincérité dans une partie de la vie du peuple équatorien. Son ton est plein d’humour, de légèreté et le film baigne d’une belle musique métissée. Au cœur du pays, à la croisée des routes, Si loin célèbre joliment la nature humaine.

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giovedì 29 settembre 2022

Maigret - Patrice Leconte

Gérard Depardieu aderisce perfettamente al personaggio, misurato, testardo, disilluso, ormai anziano e acciaccato, il cardiologo lo tiene sotto controllo, non può fumare la pipa.

Maigret lavora per risolvere casi, apparentemente, in realtà se non può ridare la vita (ad una ragazzina senza colpe), può però assicurare i colpevoli alla giustizia, ma più di ogni altra cosa riesce a salvare qualche vita, per esempio quella di un'altra ragazza, che potrebbe essere sua figlia.

si respira l'ambiente dei romanzi di Simenon, e non c'è bisogno di fare le gare con Jean Gabin e con Gino Cervi, ognuno è diverso, meno male. 

non tutto è detto e spiegato, ma questi sono misteri di Maigret.

buona (parigina) visione - Ismaele


 

 

 

 

Con addosso il suo pastrano grigio e un cappellaccio a larghe falde che non toglie quasi mai, neppure nelle scene in interni, il Maigret di Depardieu è una delle incarnazioni più potenti del commissario inventato da Georges Simenon e già portato sugli schermi, tra gli altri, da Jean Gabin e Bruno Cremer, Gino Cervi e Sergio Castellitto. Depardieu non ha né l’autorevolezza di Gabin né la bonomia di Gino Cervi. Fatica a muoversi. Fa muovere gli occhi. Osserva. Scruta. Annusa. Cerca di assorbire l’ambiente. Di immergersi nel teatro del crimine. Di penetrare i meandri e i labirinti della psiche umana. Ma vedendolo al lavoro, così crepuscolare, così contorto e dolente, noi riusciamo a intuire qualcosa anche dei suoi labirinti interiori. L’ossessione che ha per un certo tipo di giovane donna, per la vittima, ma anche per un’altra ragazza che le assomiglia, e che lui cerca di sottoporre a un trattamento da “donna che visse due volte” di hitchcockiana memoria, ci lascia intuire che dentro quel corpaccione apparentemente insensibile c’è un vuoto profondo, e che quelle “figure” di donna non sono che ombre con cui cerca invano di riempire un’assenza. Ma sono anche loro come la pipa: inutilizzabili. Magrittiane incarnazioni di un incolmabile vuoto maigretiano.
Depardieu è davvero – letteralmente – gigantesco. E trasmette come nessun altro la percezione di come tutti abbiamo a che fare con un vuoto, con una mancanza, e con i cadaveri – veri o metaforici – che ci portiamo dentro. Perché di fronte a ogni indagine – che ne siamo protagonisti, lettori o spettatori – è nei nostri abissi che andiamo a frugare.

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Patrice Leconte realizza un giallo classico che rispecchia molto della liturgia del genere, dove l'intuito poliziesco si mescola con il tormento e l’umanità del protagonista interpretato da Gérard Depardieu, la cui fisicità entra in collisione con la sua delicatezza e le cui espressioni ci restituiscono l'emotività e la drammaticità di Maigret e delle sue indagini.

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a una prima visione ci si sentirebbe orfani di quel Mario Maranzana (Lucas) così ammirato dal capo da volerlo quasi imitare fisicamente. E di quel Franco Volpi (il giudice Comelieau) sempre ottusamente spazientito dai metodi del Commissario, per lui incomprensibili. E dell’amorevole Andreina Pagnani (“La Signora Maigret”), pronta anche in piena notte a raccogliere sfoghi e preparare un caffè.

Ma ad una seconda visione non si può che apprezzare il cinema rigoroso e al tempo stesso affascinante del regista francese, privo di ghiribizzi autoriali e ciance engagés. E soprattutto lo si può comprendere nella sua scelta di concentrare il suo film sull’interpretazione di Gerard Depardieu.

L’attore 73enne conferisce al Commissario caratteristiche diverse rispetto ai suoi tanti predecessori (oltre a Cervi i principali furono Jean Gabin, Bruno Cremer, Jean Richard), ma induce lo spettatore a pensare che Maigret non possa essere che così. La sua aria statica e crepuscolare rende ancor più profonda l’anima di un personaggio che dapprima fatichiamo a riconoscere ma ben presto cominciamo a considerare impeccabile. Un Maigret stanco, disilluso, che pare pronto a ritirarsi in campagna.

Tutte le riserve espresse sopra scomparirebbero all’istante se solo il film si fosse intitolato “L’ultima inchiesta di Maigret”. Alle volte basta proprio una minima correzione per rendere perfetto quel che era difettoso.

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È la prima volta che Patrice Leconte e Gérard Depardieu collaborano insieme. L’attore, che ha preso il posto di Daniel Auteuil originariamente previsto per il ruolo di Maigret, offre una delle sue migliori interpretazioni recenti, facendo sentire il passo stanco del suo commissario, che non ha più l’autorevolezza di Jean Gabin, che fa sentire gli acciacchi fisici e la malattia; infatti non può più fumare e spesso non ha voglia di mangiare. Ci sono le sue abitudini nel presente (il modo in cui saluta la moglie prima di uscire di casa) ma soprattutto è un personggio risucchiato nel suo passato. Nel corso dell’inchiesta, è come se fosse avolto dalla nebbia. L’inquadratura finale, sotto questo aspetto, rivela proprio la sua natura e il suo rapporto con un mondo che non riconosce più e da cui non è più riconosciuto. Tranne nella scena del ricevimento del fidanzamento, Leconte gira un film crepuscolare, malinconico. Prima del colpevole, Maigret cerca il fantasma della giovane ragazza assassinata come se lo riguardasse direttamente…

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Questa condizione di immersività e completo disorientamento delle coordinate del tempo ordinario al di fuori di un mistero che tieni svegli la notte, ricorda inconsciamente qualcosa di profondo a chi legge le pagine di un giallo o, in modo ancor più sottile, a chi nel buio di una sala o della propria casa se ne sta sprofondato in un divano, gli occhi fissi allo schermo. Il detective piace allo spettatore perché ne traduce narrativamente l’arresto forzato di fronte all’evento, quello del caso da risolvere così come quello della pellicola che scorre in avanti distogliendo chiunque la guardi (se è un buono spettatore, certo) dal fuori campo della vita.

Qualsiasi commissario, in altre parole, si porta dentro alla storia come voyeur, elemento esterno al contesto, osservatore, e quindi in fondo intruso caparbiamente e provvisoriamente avvinghiato a qualcosa di non suo che prima o poi, risolto il caso, lascerà andare al proprio corso. Solo in apparenza allora il detective è l’eroe che punta il dito contro l’omicida. Se guardiamo più in trasparenza il suo ruolo, costui rappresenta il dispositivo narrativo attraverso il quale allo spettatore viene data la possibilità di affacciarsi sulla realtà privata di un personaggio e sull’intrigo in cui quest’ultimo è coinvolto. I Maigret e i Poirot del caso perdono ogni spessore fisico o narrativo e diventano per noi una pura possibilità di sguardo, che svanisce quando la storia arriva al suo termine. La loro vita è al servizio del punto di vista che permettono a noi spettatori di perimetrare sulla realtà raccontata. In definitiva non esistono, se non per avverare il miracolo, nel tempo circoscritto di una storia, di vedere una nostra proiezione muoversi in un terreno immaginario.

Tutto questo è decisamente evidente nel Maigret di Leconte. Per quanto il suo investigatore abbia la corporeità robusta di Gérard Depardieu, per tutto il film si muove nella storia come un’ombra, spesso silenziosa o che parla a mezza bocca. Nell’indagine è solo, e anche nei pochi momenti in cui si rivolge al suo secondo o alla moglie (la sera, quando torna a casa) il suo sguardo è assente e il fuori della vita gli scivola addosso come se non esistesse. Leconte ci mostra in modo radicale che Maigret non è una persona, è la chiave di volta di una narrazione che ne compromette qualsiasi umana individuazione.

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La soluzione del mistero viene rivelata quasi subito e non ci sono sorprese. Ciò porterebbe a considerare Maigret più come un film psicologico e drammatico piuttosto che un giallo. Infatti, basandosi semplicemente sulla costruzione della scena del crimine, Maigret apparirebbe un film piuttosto debole che fallirebbe nel riuscire a intrattenere chiunque abbia fame di un thriller elaborato. Ma Maigret è molto più di questo. Nel corso delle sue indagine, Maigret incontra una ragazza giovane e amareggiata dalla vita, amica della defunta che riesce a far breccia nella sua corazza emotiva ricordandole la figlia morta che ha segnato indelebilmente la sua vita. Ed è così che grazie al suo incontro trova una rinnovata forza per addentrarsi in una Parigi che assume quasi il significato di purgatorio, cercando di muoversi con cautela senza causare dolore che non sia necessario poiché anche lui stesso è stato toccato dalle ingiustizie della vita. Il finale, esattamente come tutta la struttura del film, è classico e perfettamente in linea con la storia derivante dalla fonte letteraria originale.

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Il corpo di Maigret è già parte integrante del suo senso, della sua visione del mondo, del pensiero che ogni tanto fugge verso memorie poco piacevoli, perfino tragiche. Di nuovo con grande intelligenza Leconte e Tonnerre evitano di entrare con troppa malagrazia nel dettaglio di ciò che davvero agita gli incubi di questo ufficiale di polizia, lasciando allo spettatore il dovere di porsi le domande e darsi le giuste risposte. Il cinema può e forse in determinati casi deve preferire la dissolvenza, il non detto e il non visto, il fantasma che resta nell’inquadratura e la agita, suo malgrado, senza divenire materia. Come Maigret cerca, suo malgrado e con tutti i limiti della logica, di trovare la “verità”, allo stesso tempo Leconte sembra compiere lo stesso percorso con il cinema, rifuggendo il colpo di scena, il cliché narrativo, la prassi del poliziesco e preferendo un sorso di calvados, di birra, o di vino bianco, quel vino con cui il commissario ha iniziato l’indagine e intende portarla a termine. Così Maigret – preciso il titolo generico, quasi si trattasse di una speculazione filosofica sul personaggio, di una ripresa saggistica – non diviene il racconto di un’indagine della polizia, tesa a scoprire chi abbia potuto uccidere così brutalmente una ragazza sperduta, sola, triste e disincantata, ma si tramuta in un viaggio per lo più oscuro nella Parigi che non c’è più eppur c’è sempre, la Parigi dei bistrot, degli abiti presi a nolo, dell’aspirazione di una provincia che vorrebbe ambire al palcoscenico della capitale. Ecco perché il pubblico in parte ha scelto di voltare le spalle a Maigret, preferendogli probabilmente qualche thriller ansiogeno, girato e montato a rotta di collo, a perdifiato. L’unico a perdere il fiato qui è Maigret, per colpa di quei sei piani di scale da superare per scoprire un dettaglio in più di una ragazza morta, un dettaglio in più per comprenderne la vita, i sogni, le illusioni. A Leconte e a Maigret non pare interessare davvero chi l’abbia uccisa (“non sono io a giudicare”, sentenzia il commissario), ma solo che sia morta, che così giovane non abbia più vita in corpo. Tutto muore, e nessuno sembra rendersene conto, sottolinea il film, ribadendolo nella scelta di un’inquadratura finale – e di un montaggio interno – che lascia a suo modo senza fiato.

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Depardieu che, pur incarnando un essere estremamente fisico, pare già (pre)destinato alla dissolvenza, affaticato più che dalla vita quotidiana dalla consapevolezza della vita mortificata dagli (in)umani.

Un essere che portandosi dietro l’antico spettro di un lancinante dolore personale, deambula come un fantasma all’interno di questo limbo immerso perennemente nel grigio-azzurrino. La trama è importante, avvincente, ma Leconte la trascende lavorando su una forma filmica manierata talmente all’estremo da creare un mondo “altro”, statico, dove accademia e sperimentazione diventano quasi indistinguibili. Un mondo dominato comunque da ambienti e personaggi intensi, e per certi versi, in questo, speculare a uno scrittore di genere come Simenon che fu rivalutato – anche da personalità come André Gide – proprio perché trascendeva i codici del genere e lavorava magistralmente su ambienti e personaggi forti.

Il dolore di Maigret è sommesso quanto è grande il suo pudore. E nel restituire futuro a una giovane che tenta senza successo di sedurlo ma che al contempo si aggrappa a lui come a un padre, egli diventa finalmente padre, magari per poco, magari già in dissolvenza proprio come lo è l’effimera esistenza umana. In questo film di fantasmi alla ricerca della vita, se questa risorge è forse perché tutto è invertito ma nel modo giusto, perché una volta tanto – al contrario di Hire – alla fine tutto si fa diritto, il rovescio dello storto. E senza retorica. Come Maigret.

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La Parigi rappresentata è grigia, con qualche luce solare che illumina lo schermo. Ma il più delle volte, questa atmosfera degli anni '50 appare abbastanza malevola, dove la morte di questa ragazza non sembra essere una coincidenza. 

Maigret vaga in questo triste universo di giovani donne che dalla provincia cercano fortuna nella grande città, ma molto spesso devono pagare qualcosa,  specie nell'ambiente del cinema.  

Invaso da una malinconia che pare affaticarlo, il medico teme abbia qualcosa ai polmoni quindi gli farà fare una radiografia che ritrae gli ultimi istanti di un uomo che ha abusato della sua pipa e dell'alcool.  Ma lui resiste e il ritrovamento della giovane morta, porta una speranza nella sua vita come per confrontarsi meglio con i suoi stessi demoni. 

A prima vista la ragazza, chiamata Louise, che indossa un abito da sera, sembra essere come una qualsiasi delle intrattenitrici dei locali notturni, ma c'è qualcosa in lei che fa intuire a Maigret di non essere tale.

Non pare neanche un'aggressione di routine per una rapina. Una teoria successivamente confermata da esami forensi proverà che non è morta a causa della ferite, ma ha il collo spezzato come da una caduta. 

Louise la vediamo all'inizio timida e impacciata mentre si trova in un atelier a provarsi un abito di lusso, ma in affitto, deve recarsi a una festa in un ricco palazzo borghese, sapremo che non ne uscirà viva.   

Al regista Patrick Leconte importa poco della trama e del movente quasi assurdo. Tutta la sua attenzione è concentrata sull' imponente figura di Maigret. La camera lo inquadra spesso da dietro o dall'alto, come una figura mitica. In realtà il film pare messo insieme apposta per Depardieu.

L'attore di fatto regna sul suo personaggio in una complessa miscela di delicatezza, malinconia e durezza. 

È un uomo che ascolta e scruta gli altri, senza considerare se stesso, si interessa alla figura di queste giovani ragazze sbandate dando a una di loro un tetto, e il motivo pare molto personale custodito nel suo tragico passato. 

In questo caso si premura di piazzare un'altra giovane nell'appartamento della defunta rimasto vuoto, senza avvisarla però che apparteneva a una persona assassinata da poco, e per certi versi usandola come esca verso il presunto assassino.   

Il cast eccelle su tutta la linea con Gerard Depardieu al centro, metodico e sempre attento in un caso articolato che sembra significare molto per lui. In un breve colloquio con la moglie al cimitero mentre seppelliscono la povera Louise (Clara Antoons) ricorda la figlia scomparsa prematuramente: ora avrebbe l'età della defunta.

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Lástima que en otros momentos el director se convierta en su peor enemigo y en un intento por darle una aire más “moderno” o de exploración de posibilidades a algunas secuencias caiga en trampas. Ejemplo de ello el abordaje visual del interrogatorio de la farmacéutica, donde sustituye el recurso del montaje en plano contra plano por un ejercicio forzado de plano secuencia con molesto movimiento de cámara, que no encaja ni con el momento ni con el contenido o la intensidad que requiere la conversación.

         Otro tanto podría decirse de la entrada de Maigret en el estudio de cine para interrogar a la actriz, abriendo falsas puertas de decorado que no llevan a ninguna parte, una buena metáfora de su recorrido por el laberinto del crimen que investiga pobremente presentado en lo visual y por tanto desperdiciado, como el cambio del plano general en el interrogatorio de la portera del edificio donde vivía la víctima para pasar a un plano picado sobre los personajes que podría ser interesante si aludiera a la idea de que la investigación de Maigret está siendo contemplada por los ojos de la propia víctima en todo momento, como se insinúa por esa vinculación inicial de ambos, o por los planos de punto de vista subjetivo de Maigret que casi se confunden con los de la muchacha en la escalera del local donde se celebró la fiesta, pero que luchan contra el lastre de una pobre resolución visual y no llegan a materializar esa línea de propuesta de punto de vista compartido en la trama.

         Hay una tendencia del director a dejarse llevar por un efectismo prescindible que es puro efectismo, como la resolución visual final que elige para cerrar visualmente el personaje de Maigret mientras doblan las campanas.

         El resultado de todo ello es una película fallida, fría en muchos momentos, que no acaba de engancharnos, aunque tenga algunos momentos interesantes.

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Lo spleen baudelairiano che caratterizza questo Maigret si riflette nel proscenio del film, nella luce livida che a stento illumina cose e persone spesso isolate, come in un dipinto del realismo americano più che nei ritratti sordidi ma vitali della vita francese tipica di Simenon. Ed è questa la scelta più azzardata e straniante attuata da Leconte. Eliminare quasi interamente la descrizione della Francia del dopoguerra, fatta di bistrot affollati, tavole calde, uffici, vita in strada e la realtà proletaria o piccolo borghese che sono il vero soggetto di questi romanzi – in cui l’indagine è un pretesto per raccontare il cambiamento sociale e culturale di un Paese in evoluzione – viene quasi a snaturare il soggetto stesso da cui il regista attinge.

In pratica Leconte parte da Maigret per rileggerlo, riscriverlo, reinterpretarlo allontanandosi dall’adattamento fedele e forse fuori tempo commerciale per darne una sua personale versione che esula dal personaggio stesso e dal suo contesto a partire dal titolo, che rimanda più all’idea del noto personaggio che al romanzo in oggetto. Come lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie, Maigret è altro: riprende la figura principale ma lo rielabora liberamente in un efficace racconto di genere che rimanda all’universo specifico di riferimento pur non venendone a farsi parte integrante. Ecco che la frase “questa non è una pipa”, pronunciata dal protagonista rifacendosi al surreale umorismo del noto dipinto omonimo di René Magritte, racchiude la sostanza dell’operazione di Leconte. Il suo Maigret non è Maigret, è una rappresentazione e come tale non reale: in definitiva una riuscita pur se evidente imitazione.

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Maigret termina mejor que empieza. Sin embargo, eso nada tiene que ver con la investigación criminal en la que se apoya la trama ni con la resolución del crimen, sino con las actuaciones de Gérard Depardieu y Jade Labeste, que convierten el vínculo entre sus personajes en el elemento más humano e interesante de la cinta.

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mercoledì 28 settembre 2022

Nacido y criado – Pablo Trapero

una famiglia felice, nella capitale, e poi dopo un terribile incidente vediamo solo Santiago, in Patagonia, rifugio dei disadattati, a fare diversi lavori per andare avanti.

Santiago ha dei compagni di lavoro amici per la pelle, ma ha anche dei fantasmi che non lo lasciano in pace.

e poi c'è il telefono, che a volte suona a vuoto, a volte non si riesce a parlare.

e poi Santiago trova il coraggio e parte...

un bel film (come li fa sempre Pablo Trapero), non perdetevelo.

buona (patagonica) visione - Ismaele

 

 

 

Improvvisamente, Nacido y Criado, quarto lungometraggio di Pablo Trapero, cambia spazi e colori: dagli interni caldi e protettivi della vita di famiglia agli esterni freddi ed esposti del profondo sud dell'Argentina, dove ritroviamo Santiago da solo, barbuto e trasandato, operaio sperduto di una sperduta pista d'atterraggio fra le montagne. Un paesaggio dell'anima, deserto e inospitale, battuto dal vento o sepolto dalla neve. La sua unica compagnia sono il collega Robert e l'indiano Cacique, responsabile della torre di controllo. Le donne qui non esistono o quasi.
Santiago lavora e la regia di Pablo Trapero accorda grande attenzione al gesto, spia che il corpo vive anche quando dentro ci sembra d'esser morti. Santiago non parla, e Trapero costruisce per lui un cinema del silenzio eloquente. Spara per cacciare e guadagnare con le pelli, ma anche perché si crede un assassino, responsabile della fine della sua famiglia. Più avanti spara per uccidere i fantasmi che non gli danno tregua…

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El personaje de “Nacido y Criado” pasa de una vida suntuosa y tranquila en Buenos Aires al paisaje árido y reiterativo de la Patagonia. Este primer contraste está ahí ante la vista de todos. La cinta comienza con ese preámbulo porteño donde la felicidad de los protagonistas parece estar consumada. En Cineismo.com Marcos Vieytes sostiene que la película podría verse tranquilamente a partir del accidente: “entrar a verla por segunda vez veinte minutos más tarde, justo en el momento del accidente, para comprobar que la trama que va desde ese punto hasta el final no nos deja extrañar en lo más mínimo el
prólogo urbano”. Comparto esa posibilidad, sobre todo porque las escenas iniciales tienen algo de comercial de Ace, con mucho blanco (hasta las ideas de diseño- Santiago y Milli son diseñadores- claman por el blanco); pero también está claro que debemos relacionarnos de alguna manera con el pasado de “Santiago” para entender su silencio y su dolor. Creo que el director Pablo Trapero busca inmiscuirnos en la trama mucho más de lo que nosotros pudiéremos llegar a suponer.
Algunos aspectos del guión parecen un tanto ilógicos o apresurados, pero el cine no tiene porque ser siempre demostrable científicamente, o en todo caso, se atiene a su propia lógica, a sus propios parámetros; no habría modo de explicar a Fellini o a Bergman, o entender a Superman si antes de entrar a una sala no cediéramos un poco en la lógica. Nuestra mente terriblemente humana reacciona y toma en ocasiones el camino menos concurrido, el que nadie sugirió, en lugar de aquel que el común de los mortales hubiese sentido como la vía más cercana a lo previsible, a lo seguro. La decisión de Santiago de “rajar” para el invierno sureño es una metáfora del pretexto, un ardid para no verle la cara al sufrimiento y no aceptar su situación…

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martedì 27 settembre 2022

Stray Dogs – Tsai Ming Liang

un film nel quale un padre cerca di tirare su, da solo, due bambini, facendo lavoretti di merda, e vivendo da homeless negli anfratti bui e abbandonati della metropoli.

appaiono la mamma dei bambini, che non sta con loro, e un'impiegata di un grande supermercato che si affeziona a quei miserrimi bambini.

un film, lento, disperato, dentro l'abisso.

un film estremo e ottimo.

buona (lentissima) visione - Ismaele


 

 

il film completo, con sottotitoli in portoghese, si può vedere qui:

qui la prima parte

qui la seconda parte


 

…Tsai, più moderno di ogni moderno,  è una forza del Passato. Solo nella tradizione è il suo amore. Studio esatto del quadro, della durata e dell’attesa, l’immagine precipita in una tensione statica che misura la disperante forza di grevità di un corpo solo, in costante caduta. Una composizione visiva di coerenza perfetta che controbilancia, nella sua armonia, la disperata eccentricità delle situazioni. L’ossessione liquida domina, come sempre, una quotidianità vera, fatta di gesti il cui significato è da rintracciare al di là dello scheletro tramico. L’immagine acquista durata, fin quasi a immobilizzarsi, per dare allo sguardo il tempo necessario a decodificare più elementi possibili, per raccogliere segni, tracce, e per immaginare altre visioni, per dialogare attraverso gli occhi. Il soggetto vedente si rispecchia nell’oggetto visto; accade ad esempio che i frantumi dei laterizi di un palazzo in costruzione abbandonato sfumino fino a diventare parte di un disegno su un muro, pietraglia di un paesaggio campestre, con tanto di fiume ed alberi: accade che la donna, allora, rapita dalla visione, si accovacci per terra e inizi ad urinare, come se fosse arrivata in riva, a tentare una sorta di vicinanza liquida con lo scorrere dell’immagine.

 

A mancare è l’incontro fra soggetti, il dialogo sembra impossibile, se non attraverso la mediazione dell’immagine. A mancare è l’altro, del quale resta un feticcio, una testa di cavolo dipinta come il pallone di Cast Away: se nel film di Zemeckis Tom Hanks, esasperato dalla negazione di ogni possibilità di comunicazione che non fosse un monologo, non poteva che calciare il feticcio, restituendolo alla sua funzione primigenia (ed entrando così realmente in rapporto con esso), allo stesso modo in Stray Dogs Lee Kang-Sheng mangia disperato il cavolo, fino a provarne nausea, per stabilire una relazione con l’oggetto, intuendo l’impossibilità di raggiungere il soggetto rappresentato.

 

Stray Dogs è un film sull’incanto della visione. L’operazione anticommerciale di Tsai Ming Liang (o se si preferisce senza retorica politica: il suo grido disperato e inascoltato – sebbene il grande magazzino sia subito riconosciuto come territorio nemico, mentre il corpo viene ridotto a palo che sostiene l’insegna pubblicitaria) cerca di ricondurre l’immagine alla sua temporalità premoderna, quando un’opera d’arte figurativa veniva contemplata per ore e per quello che era, ovvero l’epifania del trascendente e non, come nel contemporaneo, assimilata a prodotto di consumo, preferibilmente vorace, in modo tale da poter divorare altre figure, altre percezioni. I soggetti vengono ammaliati dalla visione, come gli spettatori di un film, che guardano i personaggi guardare qualcosa fuori campo, ma legati dallo stesso incanto.
In Goodbye Dragon Inn era la sala vuota a fissare quella piena; ora non resta che la visione della visione, in un rimando infinito, un accumunarsi nella stessa aura visuale, negazione e attestazione dell’unico abbraccio possibile che si vorrebbe non finisse mai.

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I corpi tra le rovine di una società già post-globale sono presenti anche in Stray Dogs ma in una forma se si vuole ancora più radicale e radicata, come se facessero parte di un flusso del tutto interiore, che scardina anche in questo caso la retorica del racconto temporale: quel vicolo cieco dentro il cantiere che finisce sulla visione scopica di un orizzonte disegnato, tanto da far pensare ad una finestra finta, un paesaggio iper-reale che si apre dall’angustia di molte camere, sembra il simulacro di una sala Cinematografica, un’immagine del commiato scagliata contro di noi, uno schermo che riceve immagini da un non tempo, direttamente nella caverna, semplici riflessi la cui origine risiede oltre il tempo presente di una metropoli in rovina. Kang-sheng Lee si guadagna da vivere con una serie di espedienti e passa le giornate a reggere cartelloni pubblicitari in mezzo alla velocità urbana per due spiccioli e ad accudire i figli nel modo migliore che può. Taipei è tutt’intorno, città incongrua, città discarica con i cani randagi che non fanno una vita così diversa da quella di Kang-sheng Lee. Tre donne forse, la madre, la figura che compare nel giorno del compleanno e la donna del supermercato che si affeziona ai due bimbi; la più piccola comprerà una grande verza e truccata come una bambola, la terrà come compagnia immaginaria per il sonno, “Miss Tette”, la ribattezzerà il fratello. Proprio “Miss Tette” sarà dilaniata da Kang-sheng Lee completamente ubriaco; prima soffocata con un cuscino, poi mangiata, con un senso estremo della persistenza che nel primo cinema del regista Taiwanese apriva molte porte, conteneva più registri, dal sublime al grottesco, dal tragico allo slapstick, ma che in Stray Dogs ha una consistenza più feroce, ancora meno mediata se possibile, con gli occhi di uno straordinario Kang-sheng Lee che si gonfiano nel tempo “presente” del pianto, oppure il naso, che cola lentamente muco mentre l’uomo è esposto alle intemperie, durante il suo lavoro quotidiano. In un universo senza dimensione e senza alcun limite di tempo, il cinema di Tsai Ming Liang, colloca nel presente della città martoriata, l’aberrazione della sofferenza che si nasconde sotto i grandi insediamenti urbani, come “grandi cimiteri sotto la luna”; oltre questo spazio, non era proprio possibile spingersi.

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lunedì 26 settembre 2022

Criminali Come Noi (La Odisea De Los Giles) - Sebastián Borensztein

un film argentino che racconta una storia simile a quella che potrebbe essere la nostra in un futuro prossimo.

ottimi attori, con una storia che ricorda un po' Nueve Reinas e El ultimo tren, un gruppo di disperati e illusi cerca di riprendersi quello che gli è stato rubato.

buona (disperata) visione - Ismaele

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay



 

Tra gli attori emergono per la loro simpatia e bravura nella recitazione Carlos Belloso che interpreta Medina e Luis Brandoni che interpreta Fontana; anche gli altri, comunque, fanno tutti quanti una buona figura nel complesso. La nota dolente, invece, riguarda principalmente la lentezza eccessiva nello svolgimento della trama, che rende il prodotto in certi momenti un po` stucchevole. A questa fa seguito un finale telefonato e di cui ci si rende conto molto presto nel corso dello svolgimento della storia. Nel complesso, quindi, un film piacevole anche se non eccelso, che piacerà a tutti coloro che amano il divertimento senza pensieri e anche a quelli che vogliono saperne di più su che cosa effettivamente successe nella Nazione Sudamericana in uno dei momenti più difficili e tristi della sua ancora giovane storia. Buono.

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Tutta la credibilità della sceneggiatura si gioca sulla collocazione degli avvenimenti all’indomani del Corralito argentino (3 Dicembre 2001): il provvedimento del governo che restrinse l’accesso ai conti correnti di tutti i cittadini, gettandoli ulteriormente nella disperazione. Nulla di ciò che accadrà poi, dopo la notizia del Corralito, potrà apparire allo spettatore più incredibile e inverosimile del provvedimento stesso: un fatto storicamente accaduto viene posto a immagine dell’assurdità e del non senso della vita; e – in questo caos – i protagonisti del film non saranno soltanto chiamati a trovare un modo per sopravvivere (dal punto di vista economico), ma, ancor più, a ritrovare e creare un nuovo senso, dopo lo sconvolgimento iniziale…

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… El humor del film es estándar, directo, por momentos demagógico, pero al mismo tiempo amable. Los perdedores son, antes que cualquier otra cosa, perdedores y eso los une más allá de cualquier otra posible diferencia. Imposible no identificarse en esta lucha entre David y Goliath. Y es esa conexión la que lleva a los momentos más emocionantes, que los hay varios, de la historia. Hay una gran inteligencia en lograr transmitir que detrás de los eventos históricos de un país, está la vida de la gente, sus sueños, su fragilidad, su fortaleza y sus tristezas. Qué lo que se ve como un gran golpe para una sociedad que logra superarlo, puede ser demasiado para alguien y simplemente darle un golpe final.

Algunas risas y muchas emociones conviven con detalles menos prolijos, como el interés entre el hijo de Perlassi (Chino Darín) y la secretaria de Manzi. Y aunque el tono de Frank Capra a la argentina que puede adivinársele al film lo libera de cualquier realismo, hay en el desenlace algo de exceso que no terminar de cerrar. Pero en el total la película es divertida y movilizadora, con un elenco verdaderamente inspirado y con un narrativa impecable. A pesar de que en Argentina la sensación de derrota es parte del ADN, la película lejos de amargar es una experiencia emocionante y luminosa. Un pequeño tiro para el lado de la justicia, como dice uno de los personajes.

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domenica 25 settembre 2022

ricordo di Irene Papas

scrive Irene Papas:

  • Dopo, quando sarò sottoterra, gli occhi li riaprirò. Te lo giuro. Voglio vedere se i vermi che mi mangeranno parleranno in greco oppure in italiano. Credimi, alla morte non penso mai. Ricordo che lo facevo a vent’anni e il suo pensiero mi terrorizzava. Piangevo, non potevo accettare l’idea che la morte mi portasse via l’anima. Ora so di camminare su un filo, sento le campane suonare in lontananza, ma sono una buona equilibrista. Conosco il filo. Sono una vecchia signora per fortuna ancora sana che dentro si sente o tenta di sentirsi una bambina perché assolutamente priva della saggezza degli anziani. Io non sono una anziana… sono una vecchia bambina. [1]
  • La superbia è l’unica dote apocalittica che forse giova.[2]
  • Per sfortuna o per fortuna io non ho amato mai la scuola. I maestri forniscono un modello che uno imita. Io ho imparato sempre guardando le persone che dicono la verità. Loro possono aiutarmi. Questa è la mia idea di teatro: non si deve recitare, si deve essere. Si deve fare un lavoro, delle ricerche. Allora un attore può creare un personaggio, non recitarlo. C’è molta differenza fra una persona che recita e una persona che non recita ma parla semplicemente. Quando una persona in teatro dice la verità, il popolo – il pubblico – la segue. E questo facevano anche gli antichi greci, assistevano allo spettacolo e la gente percepiva il messaggio del testo. I maestri, i maestri… i maestri possono fare solo del male non del bene perché hanno una opinione già precisa, hanno una maniera già precisa. Io credo che una scuola – alle persone che vogliono conoscere la verità – dovrebbe mettere in mano le chiavi per schiuderne la porta e non spiegare come è secondo loro. A me, se mi dicono come devo parlare, è finita. Molti registi dicono: «tu devi dire una battuta come la dico io». Non posso: l’attrice sono io, non sono loro.[3]

https://it.wikiquote.org/wiki/Irene_Papas






Antigone - Yorgos Tzavellas

Antigone è Irene Papas, in modo perfetto, Sofocle sarebbe stato contento.
un gran film, un bianco e nero che non poteva essere altro che così.
guardatelo e godetene tutti
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due ricordi di Godard

Prénom Godard. Chi scriverà più le immagini ora che la "politica dell'autore" è morta? - Roberto Silvestri

Prima di lui si andava comodamente nel cinema sotto casa, soprattutto in famiglia. Da almeno tre decenni (1920-1950) la settima arte era regredita – più ancora in Europa che in America - a poco a poco a tempio del conformismo calligrafico, della narrazione compiaciuta di sé, della recitazione pompier e tossica, tra codici Hays e censure bigotte, in molti casi fasciste, terrorizzate dalle immagini. Ma dopo lo tsunami Godard, dopo la scomposizione che lui ha attuato, come un gioco contagiante, su tutti gli elementi del linguaggio visivo, sonoro, non verbale, gestuale, comportamentale, involontario, e della memoria combinatoria che attiva la ricezione (se era vietato fare un primo piano con un grandangolo ebbene lui lo faceva, se il montaggio deve essere invisibile ecco il jump cut continuo), andare al cinema è diventato certo un gran lavoro ma anche un vero piacere, un divertimento da parco giochi, un’avventura dell’occhio-mio-dio, un gesto chic e snob e sovversivo. Ti sentivi uscire dal tuo corpo, essere Belmondo e Karina allo stesso tempo. Solo contro il mondo. Estasi.

Avevi scoperto finalmente qualcosa che non avresti mai trovato nella letteratura, nella musica, nella pittura, nell’architettura. “La verità 24 fotogrammi al secondo”, parafrasando Cocteau (“il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo”) vuol dire poter cogliere le cose vere, cioè mutanti e conflittuali, che il visuale paralizza nell’ideologia, e “trasformare la notte in luce”, come scrive nel suo virtuale libretto rosso mai pubblicato, perché noi, fuori dalla sala buia, non vediamo di non vedere. Pochi registi erano riusciti prima di Godard a liberarsi dai lacci e legacci imposti dai produttori – e, ricordiamolo, un film è un rapporto a due: regista e produttore, e Godard preferiva Thalberg a von Stroheim - mandando segnali segreti a critici ribelli e spettatori perspicaci. Les années Cahiers lo vedono alla macchina da scrivere a liberare nelle sue recensioni le immagini vitali incastonate nei mélo di Sirk, nei thriller di Hitchcock, nelle tragedie femministe di Mizoguchi e nelle commedie di Tashlin e Blake Edwards.

Ecco perché Godard - e anche i suoi critofilm più incomprensibili, i suoi film-saggio più rivoluzionari e filosofici - piace nel subconscio a Hollywood. Ma quell’Oscar alla carriera lui l’ha rifiutato sdegnosamente, per non essere da meno di Marlon Brando (e per farsi premiare di più). Il suo decennale lavoro sulle unità spazio-temporali della sequenza ha vivisezionato funzioni e procedimenti di un film, e perennemente fatto rinascere il cinema, che se non sconvolge tutte le funzioni, logiche e emozionali, del nostro cervello, non c’è. Non esiste. E da neo-formalista (adorava Eisenstein e come era indignato con Kenneth Anger quando osò rimontare Que Viva Mexico) ha attivato in tutta la sua ultracentenaria opera sensazioni, intellezioni, immaginazioni e memoria, anche rianimando forme antiche e dimenticate: ecco “il bello”, che non è la copia di un modello, ma di un monello. Ecco la funzione estetica, attivare la costituzione d’oggetto e la formulazione di immagine. Abbassando il più possibile i costi di produzione. Lavorando sodo, come un falegname, un operaio. Senza guadagnare di più. Si tratta di psicosi egualitaria? No. Di come si intende democrazia. Lui la intende come Thoreau, Whitman e gli altri trascendentalisti americani dell’800 romantico e utopistico, pur con le sue origini calviniste, da dio cattivo che punisce, sono pochi i non peccatori. La intende come priorità delle persone e non dei proprietari. Prendiamo una sequenza western normale (non alla Monte Hellman, che adorava tanto quanto non sopportava Woody Allen). Arriva il cowboy a cavallo, attacca il cavallo alla sbarra entra nel saloon e la cinepresa lo segue. Ebbene Godard non lascia mai il cavallo. Resta con lui. Il cinema è atto, movimento, tragitto, mai personaggio….

Con Godard il cinema tornò quell’avventura sulfurea, delle origini, quel montaggio delle attrazioni da circo che trasforma le nostre parti basse in general intellect. Il teatro in documentario e viceversa. Strano che Guy Debord, criticandolo da sinistra lo definisse “il tipico cineasta borghese". Anche se si riferiva al Godard primo periodo, quello della modernità di fraseggio, della soggettività desiderante, dell’anarchia come programma minimo, quello che lo stesso Godard poi ha autocriticato reinventandosi – chi non ha vissuto quei momenti non riuscirà a comprendere l’ovvietà di quella decisione, tra stragi di stato e Vietnam, polizia assassina e mostri prepotenti al poyere ovunque - come militante rivoluzionario maoista, e assieme a Gorin fondando il gruppo Dziga Vertov per realizzare dal 1968 al 1974 non film politici ma film fatti politicamente, ovvero applicando correttamente la politica dell’autore (che non è come si crede erroneamente sovranità del regista, ma sovranità della politica, committente le masse). Godard "ha giusto delle idee di cinema, più che delle giuste", e senza indipendenza e piena libertà, dunque senza basso costo e senza il costante aggiornamento sulle tecnologie audio, suono, video e digitali da dominare teoricamente ("bisognerebbe pagare chi vede la tv, non chi la fa"; oppure "i telereporter sono criminali di guerra", infine "i bambini sono prigionieri politici") Godard non sarebbe un pedagogo, come Rossellini gli ha insegnato ad essere e Serge Daney (il critico francese "di fase" più stimolante alla fine del secolo scorso) ha confermato che fosse. Da Ici et Ailleurs, Numéro deux e Comment sa va in poi, insomma dal 1974, prima a Grenoble poi nel villaggio svizzero di Rolle, cantone di Vaud, Godard mette in scena solo "persone che si fanno la lezione". Il Godard di questa "parte seconda" è soprattutto quello elettronico, che lavora per le sue società "Sonimage" e poi "JLG Film", assieme alla fotografa, artista multimediale e cineasta e storica dell’arte Anne-Marie Miéville. Ha gelato l'amicizia con Francois Truffaut, ha avuto un orribile e traumatico incidente di moto (nel 1972, in piena militanza maoista, quando ha abbandonato la totalizzante "unità di produzione Dziga Vertov" e il suo alter ego Jean-Pierre Gorin, ma metterà alla prova il metodo marxista-leninista non solo rispetto alla lotta di classe in Occidente e nei paesi dell’Est Europa o alle insorgenze anticoloniali in Mozambico e in Palestina, ma alla costruzione di un’immagine, e alle questioni interiori e sotterranee del privato, alla crisi ambientale, all’uscita dall’antropocene. Insomma il suo è un surplus di cinema politico, mai riflusso. Solo Godard (e Straub e pochi altri) combatte, con raffinata tecnica pugilistica, contro la televisione e il visuale virale e brutto di certo cinema (a volte contro Spielberg e Bertolucci) e di certa televisione, ma sul loro stesso terreno, campo contro campo. Truffaut diceva che Godard "ha sempre pensato al di sopra dei propri mezzi", ma certo molta tv e molta Hollywood pensano ben "al di sotto dei loro mezzi"... Ponendosi, per esempio in Je vous salue, Marie, non problemi di verginità della Madonna, ma di purezza/sporcizia dell'immagine. Il critico Alberto Farassino, scomparso troppo presto, grande studioso di Godard a cui ha dedicato un fondamentale Castoro, ricorda nella versione ampliata del 1996 una sua frase bellissima: "Dato quel che è accaduto in Cile, il fascismo, Pinochet, la mia vita prende di conseguenza una direzione piuttosto che un'altra. Quando incontro qualcuno non mi interessa dirgli che il fascismo è buono o cattivo, o che Pinochet è un imbecille. Gli parlo di me e di lui".

“La macchina infernale capace di generare fantasmi e di infondervi vita e anima, di giocare pericolosamente al confine tra il visibile della nostra vita quotidiana e l'invisibile di un aldilà inconoscibile”, insomma il cinema secondo Cocteau, diventa per Godard sempre qualcosa d’altro, di differente, di contraddittorio, il contrario di prima. E’ la sensibilità postmoderna, ovvero soggettività drastica coniugata a altissima etica politica che lo invita al nomadismo, alla deriva, al continuo cambio di set mentale. Ancora una volta. Il lago, le montagne, il cane, quei certi quadri adorati, quella letteratura amata (il buffone shakespeariano, l'idiota dostoievskiano...), diventeranno gli elementi visuali fissi e di suggestione da impasto, molto più importanti delle storie, sempre "da non raccontare", o della Storia, da non perdere mai di vista, o della storia del cinema, che andrebbe bruciata. Se i film sono merci bisognerebbe bruciarli. Ma con il "fuoco interiore". Perché l'arte nasce da ciò che brucia. Così Godard, l'artigiano, il grande parlatore seducente (assistere a una sua conferenza stampa era come entrare nello stand della donna barbuta) lavora molto negli anni 80 per la tv di stato, da cattivo allievo di Rossellini: ecco le videoconferenze, le lezioni sul centenario, gli spot, ma anche i remake, produttivi non iconografici, come Fino all'ultimo respiro. II Leone d'oro di Venezia con Passion (una magnifica giuria tutta nouvelle vague, scelta da Rondi, con Bertolucci e Oshima tra gli altri, non poteva non premiarlo) fece inorridire il critico del Corriere della sera che, coraggiosamente lo stroncò, a rischio di perdere la direzione del Centro Sperimentale di cinematografia che, lo dice la parola stessa, o è godardiano o non dovrebbe neppure esistere.

Negli ultimi anni ancora scandali, detour. Una torta in faccia a Cannes, l’invito recente a votare Le Pen, inorridito dalla fine del socialismo, capelli perennemente arruffati e Gitanes papier mais in bocca. Forse aveva ragione Debord. L’ultimo grande borghese è morto.

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Adolescenza Godard - Giulia Cavaliere

Intorno ai 15 anni ebbi finalmente il diritto di tenere una piccola tv nella mia stanza, era senza antenna ma collegata a uno di quei dispositivi esterni che tenevo sul pavimento per riuscire a intercettare almeno un canale, Mtv, che guardavo soprattutto in tarda serata, alternandolo, se il marchingegno in questione me lo concedeva, a qualche assurda puntata del Maurizio Costanzo Show a cui mi ero appassionata senza troppi eccessi dopo aver scoperto per caso, una notte in cui avevo la febbre, che ci passava gente come un tizio di nome Carmelo Bene lasciandomi scossa e illuminata - come solo può illuminarsi un adolescente.

Non mi interessava la tv, fin da quando ero bambina mi annoiava molto e mi faceva sentire costretta, però mi interessava la musica e dunque la musica in tv, i videoclip, le classifiche; in ogni caso quella tv sarebbe servita principalmente per i film. Complici le vhs di casa, quelle della videoteca de l’Unità e quelle registrate da mio padre con etichette adesive e scritte a mano, nell’epoca della vita - appunto la pubertà - in cui la stanza singola diventa il mondo intero, io, in quella stanza, volevo portarmi il cinema.

Quella piccola tv che non aveva un’antenna era stata infatti acquistata per via del videoregistratore che aveva incorporato e così iniziai a vedere più film che potevo: uno al giorno, a volte due, persino tre, non vedevo l’ora di tornare da scuola e premere play, avevo cassettoni enormi sotto il letto pieni di videocassette di ogni sorta e nei pomeriggi non studiavo e non guardavo i Simpson alle 14: passavo le mie ore a leggere, ascoltare dischi e guardare film nel tentativo di recuperare lì dentro, tra le mie personali mura strette, tutto quello che fuori era accaduto in passato e che io, nata a metà degli anni ’80, non avevo potuto conoscere prima di quel momento.

Conoscere era la mia sfida quotidiana, scoprire: non i bei voti a scuola, non rigare dritto, non la pace familiare che queste due cose mi avrebbero garantito, ma semplicemente conoscere tutto quello verso cui mi sentivo trascinata irresistibilmente, assecondare, appagare e rigenerare il desiderio continuo - estenuante a pensarci ora per la sua voracità - di soddisfare le mie curiosità di scoperta.

Scoprii in quella stanza che le curiosità vivevano in una catena infinita, ne erano parte come accade ai frammenti del dna, nulla rimaneva fine a sé stesso, tutto sbocciava e finiva per confluire e darsi al frammento successivo, non esisteva curiosità che restasse sola e così, non so come, una di queste curiosità mi incuriosì a sua volta dell’opera di Jean Luc Godard. In quel mondo di cinepomeriggi abitava anche una grande consapevolezza che all’epoca possedevo solo nei sensi e che ora si è fatta dato: desideravo ciò che non comprendevo, meno comprendevo, meno era semplice da decifrare e più ero spinta a metterci gli occhi, le orecchie, la curiosità.

Era stato così da sempre: i pomeriggi delle scuole medie alla biblioteca comunale a leggere libri sui musicisti in un inglese troppo difficile per me (di italiani non ce n’erano), i tentativi di decifrare Marx dai volumi della libreria di casa dopo averlo scoperto dalle ben meno ardite lezioni di scuola, i dischi di musica elettronica d’avanguardie indecifrabili. Non c’era qualcosa di più appassionante, allora, di questa spinta verso l’ignoto, verso una complessa intelligibilità, verso il non immediato. In una contemporaneità dove l’immediatezza, l’orecchiabilità assoluta, la comprensibilità automatica sono ritenute doti che qualsiasi prodotto culturale deve avere non per essere di molti ma semplicemente per poter esistere, io oggi voglio ricordare l’eccitazione sconvolgente di guardare i film di Godard senza capirci quasi nulla, trascinati dal piacere di pensare già a metà film a quante volte ancora li avremmo visti esaltati da quell’incomprensibilità da trasformare in comprensione piano piano, una visione alla volta.

Non solo Godard ma tanti altri, come lui, occidentali e orientali, al primo film o già consacrati che fossero, ci spingevano nel viaggio della complessità, tuttavia lui ne era capofila: sedotti dalla bellezza assoluta dei suoi attori e dalle vite in sequenza di questi personaggi silenziosi che si muovono da un caffè a un letto, fumano sigarette, si interrogano leziosamente e pigramente su movimenti dell’esistenza che a 16 anni percepisci ma non puoi aver ancora sperimentato, scoprimmo all’improvviso una nuova vita fatta di vuoti temporali, sospensioni, di una terza possibilità esistente tra dovere e piacere, qualcosa che non è né l’una né l’altra cosa, ma semplicemente l’esistere nei giorni. Godard è poi l’ingresso in un cinema che porta ai nostri occhi film dall’estetica tanto precisa da strabordare, film di strazi e risatine, frangette da imitare, montature di occhiali che non avevamo mai visto prima ma avremmo cercato di indossare noi il prima possibile o ricercato nei volti delle persone che poi avremmo voluto baciare.

Non capivamo niente di cinema, in fondo eravamo solo ragazzini, non capivamo nulla di nulla degli estremismi intellettuali e degli esperimenti cinematografici come capivamo pochissimo, è chiaro, di Marx e tutto il resto, ma qualcosa restava, si andava a sedimentare e più che altro sapevamo segretamente e con i sensi che stavamo guardando un impossibile da decifrare che in quanto tale possedeva una grana di bellezza destinata a eternarsi. Uscendo dalla stanza, grazie a quello che dentro vi succedeva, imparavamo a stanare i nostri simili, quei pochi, che allora credevamo pochissimi, del grande mondo che potessero condividere con noi questa grande visione che ci aveva investiti grazie a tutte quelle visioni, e con loro facevamo gruppo, cercavamo di raccontare, sintetizzare, trametterci l’un l’altro trame e storie indecifrabili, a suon di cineforum dell’infinito, vhs registrate a nostra volta da Fuori Orario e tutto il cinema d’autore della nostra povera sede di provincia del Blockbuster noleggiata a ripetizione fino a conoscere le dissolvenze a memoria.

Molti anni dopo, grazie non al Liceo ma a quei pomeriggi, mi iscrissi alla facoltà di Lettere e scelsi un indirizzo che prevedeva un gran numero di esami di cinema. A quello di filmologia fui interrogata a lungo, neppure a farlo apposta, su A bout de souffle di Jean Luc Godard, il mio giovane e brillante professore, di cui conservo ancora i libri che mi consigliò e parte delle intuizioni che ci suggerì a lezione, sarebbe morto dopo poco tempo e dopo aver risposto alle sue domande non lo avrei mai più rivisto. Fu la prima volta in cui mi trovai a scoprire da vicinissimo che la ferocia delle passioni e l’adesione all’arte non ci avrebbero risparmiati dal dolore e dalla perdita, e neppure il contatto continuo con la bellezza sarebbe mai stato sufficiente.

Con la morte di Jean Luc Godard, in queste ore, guardo frammenti di film viste decine di volte, pellicole che sono diventate preghiere laiche nei pomeriggi d’inverno della mia adolescenza, sequenze che proprio con la bellezza sfidano la morte e quel giorno in cui lo schermo andrà spento, la vita farà il suo corso, si tornerà a oscillare tra dovere e piacere e non si potranno fare tutte quelle cose che ad altri che verranno continueranno ad apparire un po’ insensate e un po’ magiche come la corsa al Louvre e il balletto in "Bande à part”, cose che là fuori nessuno fa mai ma non per questo non andrebbero fatte.

Volevamo i capelli come Jean Seberg, camminare per Parigi urlando il nome di un giornale americano da vendere per strada accompagnate da qualcuno che non potevamo immaginare fino a poco prima, i film che tracciavano una delle più cruciali linee di demarcazione nella storia del cinema, tracciavano un solco fondamentale anche nelle nostre vite, e prima e dopo in chissà quante altre. I registi della Nouvelle Vague sono stati per un attimo degli eroi dell’impossibile da fare e da comprendere, qualcosa che oggi, dopo essere cresciuti e dopo aver studiato, e letto e forse aver capito qualcosa della loro straordinaria rivoluzione linguistica, lasciano viva, andandosene, prima di tutto, comunque, l’aura del sogno che fu sognato, il segno dell’utopia incomprensibile appassionatamente costeggiata che per me sono proprio le notti sveglia fino a tardi a cercare di guardare e capire La Chinoise o il tentativo fallito in partenza di somigliare ad Anna Karina.

Per una volta allora vale la pena di dire che anche senza capire, capimmo qualcosa, e che JLG nei nostri avatar, nei poster sulle nostre teste da studenti, stava lasciando un segno prima ancora di lasciarlo davvero con il suo cinema. Quello che potremmo pensare come semplice adesione a un’apparenza, quella scelta dell’incomprensibile e quell’ostinazione a comprenderlo, tornano a galla oggi come una precoce presa di posizione nelle cose del mondo, qualcosa che da lì in poi non ci avrebbe mai abbandonato, mostrandoci da che lato selvaggio della strada compiere il cammino, anche senza New York Herald Tribune.

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