mercoledì 24 febbraio 2021

L’eredità working class del cinema noir - Leonard Pierce

Attualità e fascino del genere cinematografico con più coscienza di classe che sia stato mai prodotto negli Stati uniti

 

Se volete aprire una querelle tra critici cinematografici chiedete a tre di loro di definire il cinema noir. Non avrete tre risposte: ne riceverete una decina, con un gran bagaglio di puntualizzazioni e di sguardi interrogativi. L’etichetta di cinema noir è controversa. Chi faceva quel tipo di film non usava l’espressione «noir», preferendo l’etichetta descrittiva più prosaica di «crime drama». «Cinema noir» è una formula coniata alcuni decenni dopo, quando già si era smesso di girare quel tipo di pellicole, da brillanti critici francesi che pretendevano di capire la cultura americana più dei loro omologhi statunitensi. Quando il termine divenne d’uso comune, scoppiarono subito a gran voce dibattiti sulle caratteristiche dei film che rientravano in quella categoria. Addirittura, per molti il noir non era tanto uno stile quanto un periodo.

Ma una cosa è certa: a rendere questo genere, ormai vecchio di sessant’anni, tanto importante e attraente ai nostri giorni è il fatto che è il genere cinematografico con più coscienza di classe che sia stato mai prodotto in America.

Il Noir si è sviluppato nel periodo postbellico e viene in genere collocato in un arco temporale che va dal 1945 al 1960. Ai nostri giorni, nel XXI secolo, pensiamo a quegli anni come all’età d’oro dell’impero, con le sue tinte di luci al neon di nostalgia suburbana, di conformismo e isteria anticomunista, con l’ascesa del sogno americano. È l’immagine del paese che si è fissata anche nei prodotti culturali che raccontano quegli anni, da Happy Days a Mad Men

Ma la realtà è molto più complessa e oscura. Molti rimanevano esclusi da quella narrativa postbellica di un’America come regno di infinite possibilità. Certo, le realtà delle vite delle persone queer, delle donne e delle persone di colore di solito non compaiono nel cinema di quell’epoca e il noir dovette fare i conti con la censura del codice Hays, il codice di produzione cinematografica che impediva di discutere questi aspetti. Ma il cinema poteva portare in scena la classe, il fondamento dell’analisi materialista del socialismo, l’elemento di base del capitalismo.

Tuttavia lo faceva di rado, con l’eccezione del noir, in cui la classe non era solo una caratteristica essenziale della narrazione ma anche un elemento cruciale per la comprensione dell’opera: la classe plasmava il lavoro di registi e sceneggiatori, dava senso all’origine dell’opera, spiegava la disperazione fatalista e la violenza con cui i personaggi e la trama componevano l’azione. 

Consapevoli di quel che siamo

I più grandi registi del noir spesso si sono trovati a lavorare ai margini, esposti a difficoltà economiche e finanziarie e alla reazione politica. Fritz Lang dovette abbandonare la Germania quando i nazisti si impossessarono dell’industria cinematografica del paese; Orson Welles si ritrovò in balia dei boss dei grandi studios che lo consideravano troppo estremo e stravagante; Jules Dassin andò in esilio in direzione opposta a quella di Lang e lasciò l’America per la Francia dopo esser stato perseguitato per aver fatto parte del Partito comunista. 

Le origini letterarie del noir risalgono ai pulp magazine dell’era prebellica: erano giornaletti a buon mercato, messi assieme frettolosamente per un consumo di massa, stampati su carta di bassa qualità ottenuta dalla «polpa» (pulp) degli alberi – da qui l’origine del nome – scritti da autori sottopagati e di bassa reputazione che a volte avrebbero anche adattato la loro opera al grande schermo. Anche le stelle del cinema noir erano attori spesso al centro di scandali, noti per essere troppo indipendenti o poco collaborativi, oppure considerati privi della celebrità necessaria a sostenere una produzione di grosso calibro. Erano uomini e donne molto ben consapevoli della loro posizione di classe, perimetrata con recinti d’acciaio, all’interno dell’industria cinematografica. E loro stavano dal lato sbagliato. 

Non che tutte le star del cinema noir fossero desperados. Il genere noir, alla pari degli altri generi, era sottoposto ai vincoli del Codice Hays che, sulla base di un moralismo religioso e di una scarsa fiducia nelle menti impressionabili della working class, proibiva la rappresentazione dei criminali come personaggi verso i quali provare empatia e comprensione. E ovviamente i «cattivi» non dovevano sfuggire al giusto castigo. Ma lo status dei film noir, in quanto B-movie girati in studios da quattro soldi, alle spalle di film mainstream considerati più rispettabili, spesso permetteva loro di sfuggire allo sguardo del censore. Così i criminali divennero i personaggi principali e quello che li motivava era sempre la stessa ragione: erano poveri. Erano i perdenti della società, quelli spinti ai margini, gli sfortunati che dovevano fare il colpo che avrebbe permesso loro di farla finalmente finita con la miseria delle proprie vite.

Ma sarebbe un errore credere che questi film facessero passare il messaggio che i soldi sono la salvezza. Nel mondo tragico del noir, non si è mai fortunati e i soldi sono un sogno evanescente. Chi ce li ha è corrotto, compromesso col potere o schiavo della ricchezza. E chi non ce li ha non riuscirà mai a farli. 

Soldi sporchi

Nella spietata lotta di classe del cinema crime, delinquenti, criminali e rapinatori possono anche essere i «cattivi», ma le figure davvero spregevoli sono i ricchi e i banchieri. Perché i personaggi che compiono un furto sono ancora comprensibili, possiamo paragonarci a loro. Ma i ricchi, che siano quelli del mondo che si pretende onesto oppure siano dei furfanti, sono mostri, creature prive di sentimento, icone di crudeltà che per proteggere la ricchezza di cui già dispongono in abbondanza sarebbero disposte al doppiogioco e al patto col diavolo. Si rifiutano di seguire le regole anche quando hanno già truccato il gioco.

Questa dinamica si svolge in maniera eccellente in Giungla d’asfalto, il noir del 1950 di John Huston, in cui l’avvocato Alonzo Emmerich (interpretato da Louis Calhern) ha imbrogliato un gruppo di ladri ed è costretto ad ammettere di non avere il denaro promesso in cambio di un furto di gioielli. Il killer Dix Handley (Sterling Hayden) sogghigna con disprezzo: «Cos’hai dentro? Cosa ti tiene vivo?». Dix è un delinquente brutale, ma riconosce subito in Emmerich qualcosa che è comprensibile a ogni lavoratore: Emmerich è il padrone che ha due facce, quello che vuole prendersi il grosso della fetta senza assumersi i rischi e che li scarica sulle persone che ha contrattato.

Uno dei villain più minacciosi del cinema noir è Mister Brown (Richard Conte) in La polizia bussa alla porta di Joseph H. Lewis (1955). Non si tratta di un killer psicotico, di un enorme bruto o di uno spietato assassino. Brown è il contabile di una organizzazione criminale. Il denaro è sempre avvelenato e i profitti non sono mai puliti. 

La polizia e le donne nel cinema noir

Nel noir la presenza della polizia è controversa. In virtù dei vincoli del codice Hays di rado gli sbirri sono dipinti in maniera deliberata come «cattivi», nonostante fossero anni di forte razzismo e brutalità poliziesca. Molti noir rappresentano gli sbirri come eroi e solo alcuni puristi estremamente rigidi escluderebbero dal canone del noir certi film in cui il protagonista è in qualche modo collegato alle forze dell’ordine. Ma il noir non si è mai trovato a suo agio con i poliziotti e i suoi creatori avevano fin troppa familiarità, anche su un piano personale, con la faccia oscura della legge. 

Alcuni noir, come ad esempio Rapina a mano armata, il capolavoro di Kubrick, usano la figura del poliziotto corrotto; altri film mettono i poliziotti sullo sfondo, come presenze silenziose di un fallimento finale che arriva prima dei titoli di coda per rendere esplicito il destino dell’eroe destinato al castigo. Altri ancora, come Sciacalli nell’ombra (1951) di Joseph Losey (scritto da Dalton Trumbo, uno sceneggiatore nella lista nera del maccartismo) rappresentano i poliziotti come viscidi e prepotenti. 

Ma la maniera più comune di rapportarsi con la polizia è quella di metterla da parte prendendo come eroe un detective privato che agisce in maniera indipendente, di solito un «cockroach capitalist», un aspirante capitalista con le pezze al culo, che sta dal lato delle forze dell’ordine ma non è nelle forze dell’ordine. Il tipo ideale di questo modello è Philip Marlowe, il personaggio ricorrente della narrativa di Raymond Chandler, che disprezza la polizia. Marlowe, interpretato nelle pellicole noir da Dick Powell, Humphrey Bogart, Robert Montgomery e da altri attori dell’epoca classica, non ama gli sbirri e non si fida di loro, nel migliore dei casi li vede come un male necessario, più spesso come piccoli tiranni. Come ha evidenziato il critico marxista Fredric Jameson nel suo libro del 2016 su Chandler, la figura dell’ispettore permette di rifondare il romanzo picaresco, da tempo ormai sbiadito: a causa della sua posizione nella società, l’investigatore privato da solo può formare un ponte tra le fila più basse della working class e i piani alti dei super-ricchi, permettendo al lettore di cogliere le differenze con la propria vita, senza illusioni. Nonostante il noir sia spesso ambiguo nella maniera in cui rappresenta la polizia, non viene mai messo in discussione per chi lavorano davvero i poliziotti.  

Anche la posizione delle donne nel cinema noir è controversa. Ovviamente i film del genere crime erano il prodotto dei loro tempi e pertanto le donne avevano ruoli subordinati come mogli, madri o amanti e non erano mai i personaggi principali del cinema noir (nemmeno dall’altro lato della macchina da presa). L’attrice britannica Ida Lupino in tal senso rappresenta un’eccezione di rilievo e usò i suoi contatti negli studios per diventare una delle prime registe importanti di Hollywood e l’unica ad aver diretto un noir, ma molti film noir adattavano al grande schermo romanzi scritti da donne. Tra le ragioni per cui il cinema noir ha cominciato a perdere il favore del pubblico c’è anche l’ascesa della critica cinematografica femminista della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta, che vedeva la figura della femme fatale – la donna villain, assassina e col cuore di pietra – come uno stereotipo, l’archetipo offensivo della donna come tentatrice che porta sulla cattiva strada, col potere della sensualità, l’uomo innocente dal cuore d’oro. 

Ma questo è solo un lato della medaglia di quel tropo. Forse è altrettanto valido, se non più accurato, vedere nella femme fatale una donna che ha raggiunto lo stesso livello di consapevolezza di classe dei suoi omologhi maschili, nonostante la misoginia montante e le scarse opportunità riservate alle donne dell’epoca. Se la femme fatale usa la propria sessualità come un’arma, è solo perché è l’unica arma che ha a disposizione. 

Per ogni femme fatale rappresentata come poco più di un serpente tentatore in forma umana, ci sono poi personaggi più complessi, psicologicamente più profondi, come la sfortunata Agnes Lowzier (Sonia Darrin) ne Il grande sonno, costretta a scegliere tra half-smart guys, o come Annie Laurie Starr (interpretata da Peggy Cummins) de La sanguinaria del 1950, offesa in maniera figurata e letterale dagli uomini e decisa a restituire quel che ha subito «colpo su colpo». Non è difficile individuare nella paura del cinema noir verso queste donne una forma sublimata di paura verso la classe lavoratrice.

I valori del neorealismo

Se il cinema noir ha un proprio analogo cinematografico questo va cercato in un altro genere tipico di quegli anni, che ha affrontato molte tematiche simili, talvolta presentandole con lo stesso stile, ma in un altro continente: il movimento neorealista nell’Italia del dopoguerra. Entrambi i generi si sono occupati di questioni legate alla classe lavoratrice; entrambi si sono concentrati sulle vite degli oppressi e degli emarginati; entrambi hanno a che fare con una fotografia memorabile, tecniche di ripresa innovative e recitazione spontanea. 

I neorealisti italiani, alla pari dei registi dei crime drama statunitensi, erano spesso su posizioni di sinistra e si interessavano alle persone trascurate da una società che pensava erroneamente di potersi mettere alle spalle la propria storia. Ma in Italia, dove c’era una forte tradizione di sinistra, in un paese meno disposto a cedere di fronte al panico anticomunista, i registi erano più aperti ed espliciti nella loro coscienza di classe e non avevano bisogno di rivestirla con pistole e abiti eleganti da gangster. Ma i messaggi erano chiari in entrambi i generi: le storie delle persone comuni sono più coinvolgenti di quelle degli aristocratici e degli esponenti dell’alta società. La prepotenza è qualcosa di intollerabile, soprattutto quando proviene da posizioni di autorità. E se ti trovi ai piani bassi dell’economia, ci sono poche persone a cui puoi affidarti perché nessuno ti aiuterà. 

Il neorealismo, col suo sguardo sui poveri e la classe operaia, comparso dopo la distruzione del regime repressivo e fascista di Mussolini, emergeva da una posizione sociopolitica in cui era possibile parlare di classe in maniera aperta e mostrare l’importanza della solidarietà e della comunità, anche se alla fine dei conti avevi perso la tua battaglia. Il cinema noir, nel contesto dell’individualismo americano, era costretto ad affidarsi a messaggi in codice e a un senso di sconfitta inevitabile. 

I grandi e i piccoli

All’alba dei radicali anni Sessanta la cultura americana cominciava a dividersi, a spezzarsi in parti contrapposte. I vecchi delinquenti motivati solo dal denaro non sembravano più tanto convincenti e i cattivi dello schermo cominciarono a trasformarsi in creature capitaliste più esistenziali e meno semplici da comprendere: gang erranti di neri in cerca di vendetta, mostri, psicopatici e assassini seriali le cui motivazioni risultavano incomprensibili. C’era meno certezza attorno ai pilastri della società e gli spettatori abbandonavano il realismo alla ricerca di un immaginario d’evasione.

Negli anni Settanta il noir era ormai un relitto del passato. Influenzò i registri più anticonformisti di quel decennio, ma ormai ci si rivolgeva a quei film solo per un atto di omaggio, una parodia o un bizzarro effetto stilistico vintage. Di tanto in tanto quel tipo di cinema segnava un successo (il neo-noir Chinatown di Roman Polanski del 1974 è una delle più feroci messe in stato d’accusa del capitalismo che si siano mai viste in America) ma non si trattava della stessa cosa. Il sistema degli studios era morto, bisognava costruire una nuova industria dell’intrattenimento, i film di genere crime divennero più grandiosi, più epici, e al tempo stesso meno umani. Era insomma più difficile riconoscersi in quei personaggi. Fare un film era ormai un business miliardario, la posta in gioco si alzava, come anche i rientri economici. 

Il noir non è scomparso, ad ogni modo. Ogni tanto ci sono stati dei revival, ma i neo-noir erano operazioni abbastanza esangui, tutte stile e superficie, con un immaginario patinato e ben filtrato, perlopiù privo di coscienza di classe. Gli ultimi crime film dei nostri giorni valorizzano in gran parte la polizia, esibiscono un feticismo per i dispositivi tecnologici di sorveglianza e per l’armamentario militare più costoso. Rappresentano i loro protagonisti come ricchi, eleganti, a loro agio nei piani alti della società, alla pari delle loro vittime. 

Ma alcuni noir ispirati alla vecchia scuola hanno cominciato a fare la loro comparsa in anni più recenti nel cinema internazionale. Pellicole come El aura di Fabien Bielinsky (Argentina, 2005), Mr. Vendetta di Park  Chan-wook (Corea del Sud, 2002) e I fiumi di porpora di Mathieu Kassovitz (Francia, 2000). Magari non replicano il timbro estetico dell’epoca classica, ma sicuramente si ispirano a quella sensibilità di classe. Kelly Reichardt ha anche evidenziato una piccola rinascita del neorealismo con un tocco americano moderno. Allo stesso modo alcuni registi e registe negli ultimi anni hanno riscoperto la ricchezza di significato e il potenziale di un buon crime drama ispirato da un’ottica di classe. Pensiamo ai film di Jeremy Saulnier, a Glass Chin (2014) di Noah Buschel, a Un gelido inverno (2010) di Debra Granik, a Vizio di forma (2014) di Paul Thomas Anderson. 

Fin quando vivremo nel capitalismo, gli artisti più acuti ricorderanno le parole di Luis van Rooten ne Il grande campione del 1949: «Ci sono solo due tipi di persone al mondo: i grossi e i piccoli. Ed è difficile che si possa scegliere da che parte stare». 

 

*Leonard Pierce è uno scrittore e un editor che vive a Chicago. È un attivista dei Democratic Socialist of America e studia l’intersezione tra le politiche di classe operaia e la cultura americana del XX secolo. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Alberto Prunetti.

 

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