Attualità e fascino del genere cinematografico con più coscienza di classe che sia stato mai prodotto negli Stati uniti
Se volete aprire una querelle tra critici cinematografici
chiedete a tre di loro di definire il cinema noir. Non avrete tre risposte: ne
riceverete una decina, con un gran bagaglio di puntualizzazioni e di sguardi
interrogativi. L’etichetta di cinema noir è controversa. Chi faceva quel tipo
di film non usava l’espressione «noir», preferendo l’etichetta descrittiva più
prosaica di «crime drama». «Cinema noir» è una formula coniata alcuni
decenni dopo, quando già si era smesso di girare quel tipo di pellicole, da
brillanti critici francesi che pretendevano di capire la cultura americana più
dei loro omologhi statunitensi. Quando il termine divenne d’uso comune,
scoppiarono subito a gran voce dibattiti sulle caratteristiche dei film che
rientravano in quella categoria. Addirittura, per molti il noir non era tanto
uno stile quanto un periodo.
Ma una cosa è certa: a rendere questo genere, ormai vecchio di
sessant’anni, tanto importante e attraente ai nostri giorni è il fatto che è il
genere cinematografico con più coscienza di classe che sia stato mai prodotto
in America.
Il Noir si è sviluppato nel periodo postbellico e viene in genere collocato
in un arco temporale che va dal 1945 al 1960. Ai nostri giorni, nel XXI secolo,
pensiamo a quegli anni come all’età d’oro dell’impero, con le sue tinte di luci
al neon di nostalgia suburbana, di conformismo e isteria anticomunista, con
l’ascesa del sogno americano. È l’immagine del paese che si è fissata anche nei
prodotti culturali che raccontano quegli anni, da Happy Days a Mad
Men.
Ma la realtà è molto più complessa e oscura. Molti rimanevano esclusi da
quella narrativa postbellica di un’America come regno di infinite possibilità.
Certo, le realtà delle vite delle persone queer, delle donne e delle persone di
colore di solito non compaiono nel cinema di quell’epoca e il noir dovette fare
i conti con la censura del codice Hays, il codice di produzione cinematografica
che impediva di discutere questi aspetti. Ma il cinema poteva portare in scena
la classe, il fondamento dell’analisi materialista del socialismo, l’elemento
di base del capitalismo.
Tuttavia lo faceva di rado, con l’eccezione del noir, in cui la classe non
era solo una caratteristica essenziale della narrazione ma anche un elemento
cruciale per la comprensione dell’opera: la classe plasmava il lavoro di
registi e sceneggiatori, dava senso all’origine dell’opera, spiegava la
disperazione fatalista e la violenza con cui i personaggi e la trama
componevano l’azione.
Consapevoli di quel che siamo
I più grandi registi del noir spesso si sono trovati a lavorare ai margini,
esposti a difficoltà economiche e finanziarie e alla reazione politica. Fritz
Lang dovette abbandonare la Germania quando i nazisti si impossessarono
dell’industria cinematografica del paese; Orson Welles si ritrovò in balia dei
boss dei grandi studios che lo consideravano troppo estremo e stravagante;
Jules Dassin andò in esilio in direzione opposta a quella di Lang e lasciò
l’America per la Francia dopo esser stato perseguitato per aver fatto parte del
Partito comunista.
Le origini letterarie del noir risalgono ai pulp magazine dell’era
prebellica: erano giornaletti a buon mercato, messi assieme frettolosamente per
un consumo di massa, stampati su carta di bassa qualità ottenuta dalla «polpa»
(pulp) degli alberi – da qui l’origine del nome – scritti da autori
sottopagati e di bassa reputazione che a volte avrebbero anche adattato la loro
opera al grande schermo. Anche le stelle del cinema noir erano attori spesso al
centro di scandali, noti per essere troppo indipendenti o poco collaborativi,
oppure considerati privi della celebrità necessaria a sostenere una produzione
di grosso calibro. Erano uomini e donne molto ben consapevoli della loro
posizione di classe, perimetrata con recinti d’acciaio, all’interno dell’industria
cinematografica. E loro stavano dal lato sbagliato.
Non che tutte le star del cinema noir fossero desperados. Il
genere noir, alla pari degli altri generi, era sottoposto ai vincoli del Codice
Hays che, sulla base di un moralismo religioso e di una scarsa fiducia nelle
menti impressionabili della working class, proibiva la
rappresentazione dei criminali come personaggi verso i quali provare empatia e
comprensione. E ovviamente i «cattivi» non dovevano sfuggire al giusto castigo.
Ma lo status dei film noir, in quanto B-movie girati in studios da quattro
soldi, alle spalle di film mainstream considerati più rispettabili, spesso
permetteva loro di sfuggire allo sguardo del censore. Così i criminali
divennero i personaggi principali e quello che li motivava era sempre la stessa
ragione: erano poveri. Erano i perdenti della società, quelli spinti ai
margini, gli sfortunati che dovevano fare il colpo che avrebbe permesso loro di
farla finalmente finita con la miseria delle proprie vite.
Ma sarebbe un errore credere che questi film facessero passare il messaggio
che i soldi sono la salvezza. Nel mondo tragico del noir, non si è mai
fortunati e i soldi sono un sogno evanescente. Chi ce li ha è corrotto,
compromesso col potere o schiavo della ricchezza. E chi non ce li ha non
riuscirà mai a farli.
Soldi sporchi
Nella spietata lotta di classe del cinema crime, delinquenti,
criminali e rapinatori possono anche essere i «cattivi», ma le figure davvero
spregevoli sono i ricchi e i banchieri. Perché i personaggi che compiono un
furto sono ancora comprensibili, possiamo paragonarci a loro. Ma i ricchi, che
siano quelli del mondo che si pretende onesto oppure siano dei furfanti, sono
mostri, creature prive di sentimento, icone di crudeltà che per proteggere la
ricchezza di cui già dispongono in abbondanza sarebbero disposte al doppiogioco
e al patto col diavolo. Si rifiutano di seguire le regole anche quando hanno
già truccato il gioco.
Questa dinamica si svolge in maniera eccellente in Giungla
d’asfalto, il noir del 1950 di John Huston, in cui l’avvocato Alonzo
Emmerich (interpretato da Louis Calhern) ha imbrogliato un gruppo di ladri ed è
costretto ad ammettere di non avere il denaro promesso in cambio di un furto di
gioielli. Il killer Dix Handley (Sterling Hayden) sogghigna con disprezzo:
«Cos’hai dentro? Cosa ti tiene vivo?». Dix è un delinquente brutale, ma
riconosce subito in Emmerich qualcosa che è comprensibile a ogni lavoratore:
Emmerich è il padrone che ha due facce, quello che vuole prendersi il grosso
della fetta senza assumersi i rischi e che li scarica sulle persone che ha
contrattato.
Uno dei villain più minacciosi del cinema noir è Mister
Brown (Richard Conte) in La polizia bussa alla porta di Joseph
H. Lewis (1955). Non si tratta di un killer psicotico, di un enorme bruto o di
uno spietato assassino. Brown è il contabile di una organizzazione criminale.
Il denaro è sempre avvelenato e i profitti non sono mai puliti.
La polizia e le donne nel cinema noir
Nel noir la presenza della polizia è controversa. In virtù dei vincoli del
codice Hays di rado gli sbirri sono dipinti in maniera deliberata come
«cattivi», nonostante fossero anni di forte razzismo e brutalità poliziesca.
Molti noir rappresentano gli sbirri come eroi e solo alcuni puristi
estremamente rigidi escluderebbero dal canone del noir certi film in cui il
protagonista è in qualche modo collegato alle forze dell’ordine. Ma il noir non
si è mai trovato a suo agio con i poliziotti e i suoi creatori avevano fin
troppa familiarità, anche su un piano personale, con la faccia oscura della
legge.
Alcuni noir, come ad esempio Rapina a mano armata, il
capolavoro di Kubrick, usano la figura del poliziotto corrotto; altri film
mettono i poliziotti sullo sfondo, come presenze silenziose di un fallimento
finale che arriva prima dei titoli di coda per rendere esplicito il destino
dell’eroe destinato al castigo. Altri ancora, come Sciacalli nell’ombra (1951)
di Joseph Losey (scritto da Dalton Trumbo, uno sceneggiatore nella lista nera
del maccartismo) rappresentano i poliziotti come viscidi e prepotenti.
Ma la maniera più comune di rapportarsi con la polizia è quella di metterla
da parte prendendo come eroe un detective privato che agisce in maniera
indipendente, di solito un «cockroach capitalist», un aspirante capitalista con
le pezze al culo, che sta dal lato delle forze dell’ordine ma non è nelle forze
dell’ordine. Il tipo ideale di questo modello è Philip Marlowe, il personaggio
ricorrente della narrativa di Raymond Chandler, che disprezza la polizia.
Marlowe, interpretato nelle pellicole noir da Dick Powell, Humphrey Bogart,
Robert Montgomery e da altri attori dell’epoca classica, non ama gli sbirri e
non si fida di loro, nel migliore dei casi li vede come un male necessario, più
spesso come piccoli tiranni. Come ha evidenziato il critico marxista Fredric
Jameson nel suo libro del 2016 su Chandler, la figura dell’ispettore permette
di rifondare il romanzo picaresco, da tempo ormai sbiadito: a causa della sua
posizione nella società, l’investigatore privato da solo può formare un ponte
tra le fila più basse della working class e i piani alti dei
super-ricchi, permettendo al lettore di cogliere le differenze con la propria
vita, senza illusioni. Nonostante il noir sia spesso ambiguo nella maniera in
cui rappresenta la polizia, non viene mai messo in discussione per chi lavorano
davvero i poliziotti.
Anche la posizione delle donne nel cinema noir è controversa. Ovviamente i
film del genere crime erano il prodotto dei loro tempi e
pertanto le donne avevano ruoli subordinati come mogli, madri o amanti e non
erano mai i personaggi principali del cinema noir (nemmeno dall’altro lato
della macchina da presa). L’attrice britannica Ida Lupino in tal senso
rappresenta un’eccezione di rilievo e usò i suoi contatti negli studios per
diventare una delle prime registe importanti di Hollywood e l’unica ad aver
diretto un noir, ma molti film noir adattavano al grande schermo romanzi
scritti da donne. Tra le ragioni per cui il cinema noir ha cominciato a perdere
il favore del pubblico c’è anche l’ascesa della critica cinematografica
femminista della fine degli anni Sessanta e degli anni Settanta, che vedeva la
figura della femme fatale – la donna villain,
assassina e col cuore di pietra – come uno stereotipo, l’archetipo offensivo
della donna come tentatrice che porta sulla cattiva strada, col potere della
sensualità, l’uomo innocente dal cuore d’oro.
Ma questo è solo un lato della medaglia di quel tropo. Forse è altrettanto
valido, se non più accurato, vedere nella femme fatale una
donna che ha raggiunto lo stesso livello di consapevolezza di classe dei suoi
omologhi maschili, nonostante la misoginia montante e le scarse opportunità
riservate alle donne dell’epoca. Se la femme fatale usa la
propria sessualità come un’arma, è solo perché è l’unica arma che ha a
disposizione.
Per ogni femme fatale rappresentata come poco più di un
serpente tentatore in forma umana, ci sono poi personaggi più complessi,
psicologicamente più profondi, come la sfortunata Agnes Lowzier (Sonia Darrin)
ne Il grande sonno, costretta a scegliere tra half-smart
guys, o come Annie Laurie Starr (interpretata da Peggy Cummins) de La
sanguinaria del 1950, offesa in maniera figurata e letterale dagli
uomini e decisa a restituire quel che ha subito «colpo su colpo». Non è
difficile individuare nella paura del cinema noir verso queste donne una forma
sublimata di paura verso la classe lavoratrice.
I valori del neorealismo
Se il cinema noir ha un proprio analogo cinematografico questo va cercato
in un altro genere tipico di quegli anni, che ha affrontato molte tematiche
simili, talvolta presentandole con lo stesso stile, ma in un altro continente:
il movimento neorealista nell’Italia del dopoguerra. Entrambi i generi si sono
occupati di questioni legate alla classe lavoratrice; entrambi si sono
concentrati sulle vite degli oppressi e degli emarginati; entrambi hanno a che
fare con una fotografia memorabile, tecniche di ripresa innovative e
recitazione spontanea.
I neorealisti italiani, alla pari dei registi dei crime drama statunitensi,
erano spesso su posizioni di sinistra e si interessavano alle persone
trascurate da una società che pensava erroneamente di potersi mettere alle
spalle la propria storia. Ma in Italia, dove c’era una forte tradizione di
sinistra, in un paese meno disposto a cedere di fronte al panico anticomunista,
i registi erano più aperti ed espliciti nella loro coscienza di classe e non
avevano bisogno di rivestirla con pistole e abiti eleganti da gangster. Ma i
messaggi erano chiari in entrambi i generi: le storie delle persone comuni sono
più coinvolgenti di quelle degli aristocratici e degli esponenti dell’alta
società. La prepotenza è qualcosa di intollerabile, soprattutto quando proviene
da posizioni di autorità. E se ti trovi ai piani bassi dell’economia, ci sono
poche persone a cui puoi affidarti perché nessuno ti aiuterà.
Il neorealismo, col suo sguardo sui poveri e la classe operaia, comparso
dopo la distruzione del regime repressivo e fascista di Mussolini, emergeva da
una posizione sociopolitica in cui era possibile parlare di classe in maniera
aperta e mostrare l’importanza della solidarietà e della comunità, anche se
alla fine dei conti avevi perso la tua battaglia. Il cinema noir, nel contesto
dell’individualismo americano, era costretto ad affidarsi a messaggi in codice
e a un senso di sconfitta inevitabile.
I grandi e i piccoli
All’alba dei radicali anni Sessanta la cultura americana cominciava a
dividersi, a spezzarsi in parti contrapposte. I vecchi delinquenti motivati
solo dal denaro non sembravano più tanto convincenti e i cattivi dello schermo
cominciarono a trasformarsi in creature capitaliste più esistenziali e meno
semplici da comprendere: gang erranti di neri in cerca di vendetta, mostri,
psicopatici e assassini seriali le cui motivazioni risultavano incomprensibili.
C’era meno certezza attorno ai pilastri della società e gli spettatori
abbandonavano il realismo alla ricerca di un immaginario d’evasione.
Negli anni Settanta il noir era ormai un relitto del passato. Influenzò i
registri più anticonformisti di quel decennio, ma ormai ci si rivolgeva a quei
film solo per un atto di omaggio, una parodia o un bizzarro effetto stilistico
vintage. Di tanto in tanto quel tipo di cinema segnava un successo (il
neo-noir Chinatown di Roman Polanski del 1974 è una delle più
feroci messe in stato d’accusa del capitalismo che si siano mai viste in
America) ma non si trattava della stessa cosa. Il sistema degli studios era
morto, bisognava costruire una nuova industria dell’intrattenimento, i film di
genere crime divennero più grandiosi, più epici, e al tempo
stesso meno umani. Era insomma più difficile riconoscersi in quei personaggi.
Fare un film era ormai un business miliardario, la posta in gioco si alzava,
come anche i rientri economici.
Il noir non è scomparso, ad ogni modo. Ogni tanto ci sono stati dei revival,
ma i neo-noir erano operazioni abbastanza esangui, tutte stile e superficie,
con un immaginario patinato e ben filtrato, perlopiù privo di coscienza di
classe. Gli ultimi crime film dei nostri giorni valorizzano in
gran parte la polizia, esibiscono un feticismo per i dispositivi tecnologici di
sorveglianza e per l’armamentario militare più costoso. Rappresentano i loro
protagonisti come ricchi, eleganti, a loro agio nei piani alti della società,
alla pari delle loro vittime.
Ma alcuni noir ispirati alla vecchia scuola hanno cominciato a fare la loro
comparsa in anni più recenti nel cinema internazionale. Pellicole come El
aura di Fabien Bielinsky (Argentina, 2005), Mr. Vendetta di
Park Chan-wook (Corea del Sud, 2002) e I fiumi di porpora di
Mathieu Kassovitz (Francia, 2000). Magari non replicano il timbro estetico
dell’epoca classica, ma sicuramente si ispirano a quella sensibilità di classe.
Kelly Reichardt ha anche evidenziato una piccola rinascita del neorealismo con
un tocco americano moderno. Allo stesso modo alcuni registi e registe negli
ultimi anni hanno riscoperto la ricchezza di significato e il potenziale di un
buon crime drama ispirato da un’ottica di classe. Pensiamo ai
film di Jeremy Saulnier, a Glass Chin (2014) di Noah Buschel,
a Un gelido inverno (2010) di Debra Granik, a Vizio di
forma (2014) di Paul Thomas Anderson.
Fin quando vivremo nel capitalismo, gli artisti più acuti ricorderanno le
parole di Luis van Rooten ne Il grande campione del 1949: «Ci
sono solo due tipi di persone al mondo: i grossi e i piccoli. Ed è difficile
che si possa scegliere da che parte stare».
*Leonard Pierce è uno scrittore e un editor che vive a Chicago. È un
attivista dei Democratic Socialist of America e studia l’intersezione tra le
politiche di classe operaia e la cultura americana del XX secolo. Questo
articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Alberto
Prunetti.
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