domenica 7 febbraio 2021

Fitzcarraldo - Werner Herzog

Fitzcarraldo ha i piedi per terra e la testa fra le nuvole, impresario d'imprese di poca fortuna, nel tempo e nello spazio, ha una passione senza profitto, l'opera e vuole diventare ricco per costruire un teatro d'opera a Iquitos, una cosa inutile, ascoltare la musica.

e l'inutile muove Fitzcarraldo verso il caucciù, allora la domanda era in forte crescita e i profitti sicuri, mancava solo avere il caucciù da vendere, un dettaglio da niente.

Fitzcarraldo s'imbarca verso l'ignoto, portandosi dietro un grammofono e tutto il resto, in un'avventura bella e impossibile.

film da non perdere, se amate il Cinema.

e non perdetevi per niente al mondo La conquista dell’inutile, un libro di Werner Herzog, che racconta gli anni di lavoro di Fitzcarraldo.

buona imperdibile visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo in spagnolo, con sottotitoli in spagnolo

 

 

 

Brian Sweene Fitzgerald, detto Fitzcarraldo, è un curioso personaggio che ha le sembianze allucinate di Klaus Kinski: vive nella foresta amazzonica, dove sogna di costruire il più grande teatro d'opera del mondo e di farlo inaugurare addirittura da Caruso. Dopo essere stato scambiato per un Dio dagli indios della foresta, il nostro folle eroe riuscirà a realizzare almeno in parte il suo sogno, portando in Amazzonia un gruppo di musicisti e di cantanti d'opera. Werner Herzog è capace di compiere azioni inaudite in nome di una sua concezione titanica e assoluta del cinema. Fra le sue imprese più incredibili c'è proprio Fitzcarraldo la cui vicenda è emblematica del cinema di questo autore. Fitzcarraldo è un film caotico e poco compatto, un film in cui ci sono ingenuità clamorose e cadute di tono seccanti. Ma è un film che riesce ad allargare i confini del visibile, una specie di viaggio lungo i confini del cinema. Un film d'amore e di follia. Un film assurdo che ha un metodo e una logica rigorosa. Quando, dopo avere tanto sofferto con Kinski e con Herzog, vediamo entrare in porto la nave di Brian Sweeny Fitzgerald, con le note di Bellini sparate a tutto volume da un grammofono, perdente di fronte alla tirannia del capitale, vincitore nell'ottica degli uomini e del destino, ogni resistenza cade e gli occhi si riempiono di gratitudine

da qui

 

Fitzcarraldo è un film difficile. Quanti di noi spettatori non hanno fatto fisicamente fatica a stargli dietro? A capire un passaggio, tenere alta l’attenzione, a seguire il filo della progressività drammatica? (i tamburi nella giungla sono intra- o extra-diegetici? gli indios sono ostili o amichevoli? perché il battello è improvvisamente alla deriva? il battello è veramente alla deriva o sta solo tergiversando? quanto diavolo dura questo maledetto piano sequenza del battello che si arrampica?Il fatto è che Herzog e soci hanno sudato troppo per farci partecipare alla festa senza avere un ruolo attivo, senza sacrificare un pezzo di noi, senza prodigarci in uno sforzo e guadagnare la pagnotta con impegno e attenzione, fatica e grande, grandissima, concentrazione. Nell’epoca del tutto e subito Herzog non spiega ma mostra, non impone ma ispira, non invade il campo con il suo sguardo selettivo ma lascia a noi spettatori decidere cosa osservare, codificare, desiderare, sognare e, soprattutto, pensare. La sua prospettiva è sempre inclusiva e non filtra mai a priori (si veda Fitzcarraldo che dalla sommità di un albero ingloba l’intero orizzonte di Iquitos con una muscolosa panoramica).

Ma, il punto cruciale, è che non si può parlare di Fitzcarraldo scindendo il piano della narrazione dal piano della lavorazione, il filmico dal pro-filmico, la realtà dalla finzione, la storia dalla Storia (e dal Mito). Perché Herzog durante i 4 (quattro!) anni di lavorazione richiesti dal film, ha davvero spianato una montagna per portare la Molly-Aida al di la di essa. Perché Klaus Kinski è davvero quasi impazzito per interpretare l’eccentrico hidalgo irlandese. Due persone sono davvero morte per girare le scene più titaniche. E soprattutto: quella nave è davvero passata sopra una montagna per dimostrare la forza di un sogno. E’ questo il punto. Se vista in questi termini, Fitzcarraldo non è solo una grande pellicola ma è tutti gli effetti un’opera d’arte, una testimonianza storica, sociologica, museale, monumentale, del limite oltre il quale può spingersi l’amore di un uomo per un sogno, per un’idea, che sia essa bella, buona, o totalmente inutile. Una testimonianza che sul piano morfologico non è né solo fiction né solo documentario, ma è docufiction, performance art, insieme memoria e immaginario, fatto e verità, arte e vita, la materia di cui sono fatti i sogni…

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Werner Herzog's "Fitzcarraldo"is a movie in the great tradition of grandiose cinematic visions. Like Coppola's "Apocalypse Now" or Kubrick's "2001: A Space Odyssey," it is a quest film in which the hero's quest is scarcely more mad than the filmmaker's. Movies like this exist on a plane apart from ordinary films. There is a sense in which "Fitzcarraldo" is not altogether successful -- it is too long, we could say, or too meandering -- but it is still a film that I would not have missed for the world.

The movie is the story of a dreamer named Brian Sweeney Fitzgerald, whose name has been simplified to "Fitzcarraldo" by the Indians and Spanish who inhabit his godforsaken corner of South America. He loves opera. He spends his days making a little money from an ice factory and his nights dreaming up new schemes. One of them, a plan to build a railroad across the continent, has already failed. Now he is ready with another: He seriously intends to build an opera house in the rain jungle, twelve hundred miles upstream from the civilized coast, and to bring Enrico Caruso there to sing an opera.

If his plan is mad, his method for carrying it out is madness of another dimension. Looking at the map, he becomes obsessed with the fact that a nearby river system offers access to hundreds of thousands of square miles of potential trading customers -- if only a modern steamship could be introduced into that system. There is a point, he notices, where the other river is separated only by a thin finger of land from a river that already is navigated by boats. His inspiration: Drag a steamship across land to the other river, float it, set up a thriving trade, and use the profits to build the opera house -- and then bring in Caruso! This scheme is so unlikely that perhaps we should not be surprised that Herzog's story is based on the case of a real Irish entrepreneur who tried to do exactly that…

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Burden of dreamsLes Blank


Che miseria i maneggi del potere, le iene che si agitano intorno all’escremento parlamentare, la tratta degli incarichi. Meglio guardare il film di Herzog e pregare la venuta dell’Eroe dell’Inutile - Davide Brullo                                


Il fetore è ovunque. Congiunto al sadico ghigno di chi ficca il muso nel corpo putrescente del potere, del potente, che esiste – è l’esigenza intestinale della ‘poltrona’ – per la caduta, per essere inghiottito dalla propria immagine, cibo agli alleati/moscerini. Che scene patetiche, in questi giorni: giornalisti, come mosche, avvoltoi, iene, che s’industriano intorno all’escremento parlamentare; il capo del decrepito Governo che fa la conta della cricca, raduna accoliti, portieri, confratelli; l’immane sottana di San Pietro, svergognata, sotto cui si accalcano politici, vassalli del lusso, lacchè; il gergo giornalistico, di definitivo imbarazzo: “responsabili” – perché, sarebbero forse irresponsabili quelli che preferiscono andare a elezioni, rimandando la scelta al popolo bue, e irreprensibili gli altri? –, i “volenterosi”, gli “sherpa del Governo”, la “giustizia a orologeria”, i retroscena di chi non inscena altro che la propria voglia di un incarico, di un ruolo nel roveto burocratico. E a reti unificate, infine, l’insediamento del Presidente degli Stati Uniti, degno segno del nostro patrio servaggio, in un girotondo di sorrisi. “Assisto con pop corn il lento cupio dissolvi del sistema democratico”, mi scrive un amico che, come dire, ne sa, schifato dal regno delle chiacchiere.

Assediato dal fango, dunque, dal giornalismo fatto di ammissioni, omissioni, confessioni, sospetti, sospette dichiarazioni, discorsi ornamentali, elegie sul nulla, il carisma dei caramellai, ogni divagazione nell’avventura è lecita, beneaugurante, una benedizione nel bailamme dei furbi. Ecco: quarant’anni fa Werner Herzog gira Fitzcarraldo, il suo film più bello, più avido di senso. La storia è quella nota. Un tizio, dai natali incerti, irlandese, Brian Sweeny Fitzgerald, detto dai nativi ‘Fitzcarraldo’, è guidato dall’assoluto e dalle imprese impossibili. L’ultima, funambolica, è quella di portare l’opera italiana, di cui è fanatico, a Iquitos, nel fitto dell’Amazzonia: quasi potesse istituire un gemellaggio tra l’armonia occidentale, l’eleganza inquieta della musica, e il selvaggio equatoriale, il caos verde, l’aristocrazia del selvaggio.

 

Un paio di anni fa, ho chiacchierato con Jan Brokken, notevole romanziere olandese, che in Jungle Rudy ha raccontato la storia di una specie di Fitzcarraldo. Costui, in verità, si chiamava Rudy Truffino, olandese, di lontane ascendenze italiane – il nonno, Carlo Giuseppe Domenico Truffino, veniva dal lago di Como, divenne “gioielliere di corte del primo re d’Olanda” –, che per indole avventuriera si trasferì nella Gran Sabana, immane altopiano venezuelano, quasi inaccessibile. “Si nutriva di formiche e vermi… aveva barattato i vestiti con arco e freccia, ma ci vogliono anni di allenamento per colpire un pesce nel fiume e portarlo in superficie… aveva ventisette anni e nessuna certezza di arrivare ai ventotto”. Rudy si arrangiò facendo la guida per archeologi ed esploratori in cerca di fatate El Dorado, per registi in favore di film mozzafiato (una foto lo immortala con Anthony Perkins, quello di Psycho, mentre gira Green Mansions). Morì nel 1994, “Jungle Rudy” – soprannome affibbiatogli da un cineoperatore americano –, roso da oceani di nostalgia (quante altre vite avrebbe potuto vivere?), non prima di aver incrociato Werner Herzog: “Il cineasta tedesco trascorse una settimana nella Gran Sabana alla fine degli anni Ottanta e, durante le nottate passate a chiacchierare, Truffino scoprì la storia di Fitzcarraldo, l’avventuriero irlandese che si era messo in testa di costruire nella foresta amazzonica un teatro dell’opera, alla cui serata inaugurale avrebbe cantato Enrico Caruso”. Ma questa è una storia che, se mi va, racconterò altrove.

Werner Herzog, come si sa, è attratto dall’insolito, da eroi che reagiscono al mondo per eccesso – o per difetto –, immolati a una gloria dispari. Così, ha dato vita a Aguirre e a Kaspar Hauser, a Nosferatu, a Woyzeck, a Fitzcarraldo. Spesso questi personaggi vengono raffigurati dall’impareggiabile Klaus Kinski; “un adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli”, così lo descrive Bruce Chatwin, che lo incontra, qualche anno dopo, sul set di Cobra verde.

Fitzcarraldo – ecco il punto – raffigura la vittoria dell’assurdo sui dettami della ragione, l’impero del desiderio e del sogno su quello dell’utile e del ricavo, “la sfida all’impossibile” più che la grigia gestione del possibile. Esprime, cioè, la necessità di sovvertire i canoni del mondo, di alienare il tempo, acida fogna di scaltri, coglioni e usurai, banchieri della protervia e dell’ignavia, in una clamorosa capriola. Già, Fitzcarraldo è il sovrano del ‘bel gesto’ contro la macchinazione partitica, è il partigiano delle scelte inaudite e del rischio, indecoroso. Fitzcarraldo non è un ‘idiota’, non è un’anima pia, al contrario: tratta coi potenti fino all’ultimo, frequenta il bordello, la sua amante/finanziatrice/fidanzata è una prostituta d’alto bordo, s’incazza, pretende il privilegio dell’indignazione. Riconosce nella giungla il proprio carisma e intravede la medesima eleganza nella spirale del pitone come nell’acuto di Caruso.

Va imposta la lettura del romanzo/soggetto di Fitzcarraldo – lo edita Guanda – ai caimani parlamentari e ai tanti girini, pronti a tutto per un giro sulla giostra di governo: mette in chiaro l’orizzonte dei progetti, promuove, contro l’idolatria del potere, il dio dell’incongruo.

“Come è vero che sono qui, un giorno porterò la Grande Opera a Iquitos. Io sono l’Eccesso e il Soprannumero. Io sono l’Ultima Battaglia. Io sono i Miliardi. Io sono lo Spettacolo nella foresta vergine”

urla Fitzcarraldo, proclamato “Eroe dell’Inutile”, mentre un magnate sparge “un mazzo di banconote che peserà mezzo chilo” in un lago colmo di pesci, finché “subito l’acqua si trasforma in un’unica furibonda battaglia, come se mostri marini stessero lottando fra loro. Un gigantesco paiche, una specie di enorme luccio dell’Amazzonia, lungo quasi tre metri, afferra con la bocca il fascio di banconote e lo trangugia con orrendo rumore”. Fitzcarraldo non è degno del denaro di un possibile sponsor più di quegli orridi pesci. Nella scena cardine del film, di fronte all’impossibile – varcare le ripide di un fiume per raggiungere una zona ricca di alberi da cui estrarre il caucciù, indispensabile a finanziare la propria follia – Fitzcarraldo reagisce con l’assurdo: trascina il suo scassato battello lungo la montagna, da un lato all’altro. Una barca che naviga nel bosco, con sovrana lentezza: Fitzcarraldo, l’uomo che vive al di là degli argini della ragione e del sensato, riesce in un’impresa mostruosa.

Il soggetto di Herzog termina con la parola “felice”. Fitzcarraldo riesce a portare la Grande Opera nel cuore della giungla: “un miracolo è accaduto, qualcosa d’incomprensibile”. Egli ci appare, alla fine del film, “come un vero re”: non ha guadagnato nulla, ma ha realizzato l’impensato. Per questo si è re, per questo vale la pena vivere – il resto è per quelli che giocano a poker con le poltrone e con gli incarichi, una miseria che non ci riguarda.

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