Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
mercoledì 30 settembre 2020
martedì 29 settembre 2020
Divines (Bâtarde) - Uda Benyamina
come in Bande de filles, protagoniste del film sono alcune ragazze delle banlieues.
Dounia (una straordinaria Oulaya Amamra) abbandona la scuola e, come la sua amica del cuore Maimouna, amano i soldi, biglietto verso la felicità, i vestiti, il successo.
e inizia la crescita "professionale", come assistente e complice di Rebecca, la giovane e invidiata boss del quartiere.
e Dounia incontra anche l'amore, la bellezza, un'altra forma di libertà.
gran bel (terribile) film.
buona visione - Ismaele
…Si la réalisatrice signe un film éblouissant, elle le doit
aussi à son trio de comédiennes: Jisca Kalvanda,
incroyable dans le rôle de Rebecca mélange de furie
et de duplicité, Deborah Lukumuena, tornade de bonheur,
drôle et touchante jouant tout autant avec sa gestuelle qu’avec ses mots, tout
bonnement étincelante de justesse et enfin Oulaya Amamra (la
sœur de la réalisatrice), une bombe thermonucléaire jonglant avec une même
facilité entre le rire et le drame, une boule d’énergie en fusion qui déploie
déjà un tel naturel et un tel talent, qu’on a forcément l’impression de voir
éclore une immense actrice. On pourrait chercher la petite bête, pinailler sur
deux ou trois détails, tenter d’expliquer l’inexplicable à ceux que cela ne
touchera pas, mais enflammons nous plutôt pour ce film enthousiasmant. On pourra coller toutes les étiquettes et tous les qualificatifs que
l’on veut à Divines, il n’en reste pas
moins un film vivant qui s’enflamme sous les doigts avant d’allumer nos cœurs
d’une lumière salvatrice. Un film qui donne encore envie de croire au pouvoir
du cinéma sur nos vies, qui, aussi difficiles qu’elles soient, ont eu besoin un
jour de voir pousser ce cri sur l’écran noir de nos nuits blanches. Le mot est
facile mais on ne peut plus vrai: Divines touche
au divin.
…la giovane regista franco-marocchina Houda
Benyamina si lancia e ci lancia a 200 all’ora in un viaggio
mozzafiato dal quale uscirete affannati come da una corsa a tutta velocità su
una Ferrari immaginaria. Al volante di questo bolide, ostinatamente piazzata al
posto di guida, troviamo una ragazza sfrontata di nome Dounia (incarnata con
forza da Oulaya Amamra) il cui sguardo intelligente,
tenero e spesso sorridente, dietro le lenti dei suoi Ray-Ban (sempre
immaginari), indica senza equivoco che la sua impertinenza nasce dalla ribellione
– alla vita nella bidonville alla quale si è rassegnata quell’irresponsabile di
sua madre (il che è tutto dire), al futuro servile che le viene proposto, al
soprannome "la bastarda" che le hanno sempre affibbiato…
…Divines finisce per diventare un
meraviglioso chiaroscuro tra bellezza e dannazione: lo sguardo sensuale ma
pulito del ballerino fa da contraltare a quello lurido del gangster, a cui
Dounia si offre, ballando sul cubo, per loschi propositi; al rosso del rossetto
che Dounia per la prima volta, furtivamente, prova al supermercato, nella
scoperta del proprio fascino, si contrappone il rosso sangue dei pestaggi. Se
ne potrebbero dire tante, ancora. Così anche nel montaggio sonoro:
la potenza dei requiem, ma anche i bassi opprimenti dell’hip hop e – peggio –
le sirene della polizia, o dei vigili del fuoco.
È un film sporco e
sensuale, Divines, di angeli caduti o che cadranno;
tra il baratro e l’ebbrezza; in cui errare è umano, anche quando –
inconsapevolmente – si ha una bellezza divina. L’atmosfera spesso notturna
confonde i vicoli oscuri degli spacciatori alla penombra dei riflettori spenti
del teatro, se non ai fumi dei club dove il “money” si versa assieme allo
champagne. Quanto è luminoso – e bello, e acerbo, come Oulaya Amamra – questo
racconto di Houda Benyamina.
…Divines esprime
un’urgenza espressiva debordante, ma il reticolato della drammaturgia e della
scrittura filmica la imbrigliano, disegnando per le due protagoniste una strada
senza uscita, in cui la lotta per la sopravvivenza si confonde ambiguamente con
quella per la sopraffazione. Alla fine della partita ad uscire sconfitta è
l’interrogazione materialistica del presente, davanti a uno spiritualismo in
cui tutte le vacche sono nere e gli incendi, una volta accesi, fanno il loro
lavoro.
« Bâtarde » ! Tel est le surnom cruel et
méprisant qui colle à la peau de Dounia. Fille d’une mère fragile
collectionnant les hommes et les gueules de bois, la jeune fille tente de se
construire un avenir loin du camp de roms où elle a grandi. À l’inverse,
Maimouna sa meilleure amie est fille d’imam et connaît une éducation plutôt
stricte mais équilibrée. Élèves en BEP pour devenir hôtesses d’accueil, les
deux amies réfléchissent à une toute autre carrière. Admiratives de l’une des
plus grandes dealeuse de Montreuil, elles vont tout faire pour trouver leur
place au sein de cette « entreprise » lucrative, et ce, au risque de
se brûler les ailes.
« Mes mains sont faites pour l’or »,
affirme fièrement Dounia ! Née dans la misère la plus totale, la jeune
fille aspire plus que quiconque à s’élever dans l’échelle sociale. Avoir de
l’argent ne fait qu’ouvrir des portes, la vraie richesse est ailleurs. Dans la
Ferrari virtuelle où elle voyage la tête haute, la jeune fille rêve de
reconnaissance loin des émeutes et d’un dieu qui tarde à veiller sur elle. Il
suffira d’un peu de maquillage pour transformer la petite cendrillon des
bidonvilles en déesse de la nuit. Mais son véritable prince charmant est
ailleurs. Comme elle, Djigui veut oublier sa tenue de vigile pour danser avec
les étoiles….
…Sin dalle primissime battute, Divines fa tutto
quello che può per infastidire lo spettatore: Dounia (Oulaya Amamra, unico
elemento davvero convincente del film) e l’amica del cuore Maimouna vengono
sballottate in salti di palo in frasca apparentemente infiniti fra le religioni
differenti delle protagoniste, l’inefficacia della scuola, il night club dove
la madre di Dounia è solita ubriacarsi ogni sera, il taccheggio al
supermercato, la graticcia del teatro dal quale guardare, se necessario
sputando, le prove dei ballerini fra cui l’aitante Djigui, fino alla decisione
di diventare ricche lavorando per Rebecca, rispettata spacciatrice della zona.
Fra panetti di hashish, sogni di una Ferrari, filmati con l’iPhone avuto in
regalo da Rebecca, un paio di pestaggi subiti, auto bruciate, ritorni a casa
trovando la madre a letto con il tirapiedi di Rebecca, usi criminosi del Requiem di
Mozart su allenamenti al sacco e banconote baciate e vacui discorsi sulla
necessità di avere ambizione e sapere osare per puntare in alto, oppure sul
saper alternare pugni e carezze, il film di Houda Benyamina si trascina nei
suoi raccordi di montaggio non funzionali, nella sua mescolanza insensata della
danza come linguaggio del corpo e della seduzione come arma letale ma anche a
doppio taglio, nei suoi personaggi tutti desiderosi di cambiare vita eppure
nessuno, a parte proprio Djigui che otterrà la parte nel ballo e partirà in
tournée, in grado di fare una sola scelta giusta. Ora fastidioso e ora
patetico, ora poco credibile e ora retorico, passando per un tentativo di
stupro e per un incendio invocato più volte nel corso del film, nell’esordio di
Houda Benyamina non funziona praticamente nulla: tecnicamente risibile, concettualmente
vuoto, umanamente preoccupante. Non resta che dimenticarlo in fretta, lavarne
le scorie prima possibile, fingere che non sia mai esistito.
…Divines è un film di corpi sciupati e corpi
levigati, oblio e voglia di riscatto, urla disperate e risate incontrollate,
chiome raccolte in assetto da battaglia e capelli sciolti al vento, fughe a
perdifiato e preghiere alle stelle, inevitabili tragedie e seducenti ironie: un
frullato di emozioni uguali e contrarie, scandite da una regia virtuosa
(talvolta fin troppo) e da una colonna sonora che sa miscelare lirica, techno,
hip hop e sonorità arabeggianti, trovando sempre la nota giusta al punto
giusto. La regista in qualche occasione si lascia prendere la mano, ma non
perde mai il controllo della storia, rigorosamente espressa (e girata) in
ordine cronologico, così da condurci, senza sbalzi temporali, nel percorso di
formazione di una bâtarde che scava nella paura per trovare
la forza di provare a darsi un destino diverso, nonostante tutti i rischi che
le sue azioni comportano.
Interpretata con stupefacente intensità e
completezza dalla bravissima Oulaya Amamra, la Dounia
di Divines è un personaggio che si imprime nell'anima e
difficilmente ne esce. In lei si aprono i cieli bui di tutti coloro che
navigano allo sbando, dimenticati dalle classi agiate, visti con sospetto o
addirittura con disgusto. In lei, inoltre, si concretizzano i sogni di tante
adolescenti che rifiutano le distorte imposizioni sociali e culturali; proprio
come la Marieme di Bande de filles, decisa a non sottostare a un
avvenire già scritto da trascorrere spenta, a casa, a badare unicamente alla
prole…
domenica 27 settembre 2020
Non odiare - Mauro Mancini
opera prima non facile, un film con attori molto bravi, sulla storia, i motivi dell'odio, il rimorso, i ricordi.
non si può vivere nell'odio e nel pregiudizio permanente, sembra dirci questa storia, bisogna fare un passo nel terreno del nemico e provare a smontare le radici dell'odio.
i tre protagonisti si incontrano, con difficoltà ciclopiche, e riescono a parlarsi, pensando al futuro.
e i gatti e i cani hanno un ruolo importante nella storia.
un film non perfetto, certo, che merita comunque molto.
buona visione - Ismaele
…Dunque, ritorniamo all’emblematico titolo, quasi un
imperativo. Perché, se non estirpato, l’odio genera odio: una macchia nera
inarrestabile dalle conseguenze distruttive. E, l’unico modo per sconfiggerlo –
capisce Stefano –, è un estremo gesto d’amore, arma per annientare e zittire un
pericolo, ancora, dilagante. Proprio per questo, Non odiare, dovrebbe essere una visione necessaria, costruita su
misura per i suoi interpreti, amalgamata alla realtà dei fatti, coesa al senso
di giustizia che troppo spesso (e troppo facilmente) oggi viene scambiato per
buonismo, in un circolo di sproloqui indefiniti e indefinibili. Ed ecco che il
Simone Segre di Gassmann fa da lezione: restare in silenzio, osservare e
compiere la scelta giusta. Liberandosi dai demoni, che siano quelli della
mente, o che siano quelli con svastica tatuata sul petto.
…lo
spunto più interessante del film riguarda gli attori, il loro modo di mettere
in scena i personaggi e il modo in cui la scrittura tratta in maniera originale
gli stessi, perché mai rinchiusi in uno stereotipo o nel già visto. Il ricco
chirurgo ebreo è un single, non ha una famiglia, una casa molto grande e
l’apparente desiderio di liberarsi da un’eredità paterna che sembra
ingombrante. La giovane protagonista invece sceglie di sacrificarsi per il
fratelli, abbandonato un’aspettativa di vita che le piaceva per provvedere a
loro dopo la morte del padre filo fascista, eppure, nonostante sia chiaramente
contraria all’approccio del padre alla vita e alla sua ideologia, ne parla
sempre con tenerezza. Il fratello mezzano, che vuole a tutti i costi percorrere
il sentiero paterno, invece, si rivela quello che è, un ragazzino con tante
idee confuse nella testa, idee che non capisce davvero ma che segue ciecamente.
Per
tutti e tre questi personaggi ci sono degli interpreti assolutamente superbi,
con Gassmann e Serraiocco che consegnano due interpretazioni molto delicate e
gentili e con il giovane Luka Zunic, vera e propria rivelazione del
film. Il suo volto dai tratti angelici, gli occhi chiari e profondi, si
scontrano con la rubidità che il suo personaggio ostenta e che, in fondo, non
gli appartiene.
Fedele al titolo dell’opera, Non Odiare,
Mancini mette in scena dei figli orfani che cercano la redenzione e
l’affermazione da parte dei padri defunti. Occupano capi opposti di una linea retta,
ma tutti gli eventi e i comportamenti che assumono nel corso della vicenda li
portano ad avvicinarsi, a cercare gli uni negli altri, gli elementi di
similitudine e non quelli di contrasto, allontanandosi così dall’odio.
…allo spettatore attento non sfuggirà, nel corso della visione, la
sottile metafora insita nella progressiva metamorfosi comportamentale
dell’inquietante quadrupede quando questi, esattamente come i protagonisti bipedi,
conosciuto a fondo quello che prima era considerato un minaccioso estraneo,
inizia gradualmente un viraggio che lo condurrà verso un atteggiamento ben
diverso da quello inizialmente ostentato. Atteggiamento che gli altri
comprimari della metafora, in primis Simone e ancor più Marcello, non avrebbero
mai ritenuto possibile si potesse realizzare.
Mancini dipinge una realtà a tinte fosche, plumbee e nebbiose,
tendenti al grigio scurissimo e al nero nelle sue varie gradazioni. Ma il nero
è anche il colore delle pompe funebri il cui patron, indirettamente e
paradossalmente, innescherà la graduale evoluzione di Marcello, il quale si
ritroverà suo malgrado ad interagire con uno dei suoi tanto odiati giudei. Ma
proprio questi, Simone, coadiuvato da Marica - sorella di Marcello ma dotata di
tutt'altro senno - favorirà quasi inconsapevolmente il “viraggio” del
fanatico “camerata” il quale, poco a poco e sempre più spontaneamente,
avvertirà una tenue ma progressiva lucina essenziale per quella rilettura ideologica
che gli consentirà comunque una soluzione, seppur non indolore, attraverso
l’elaborazione di una colpa grave: l’omicidio del nazi bastardone senza
scrupoli, quello che lui pensava essere uno stinco di santo ma che, con
delusione, aveva a sue spese ben compreso trattarsi di un vile strozzino! Per
di più uno strozzino affetto da quella meschina viltà che lui in primis, con
tutti i compari, Marcello compreso, andava accusando essere prerogativa degli
Ebrei…
…I luoghi comuni
sono tutti lì, in agguato, Mancini, anche autore della sceneggiatura con Davide
Lisino, procede come fosse uno slalom cercando di saltare tutti i paletti
disseminati lungo la vicenda che potrebbero farlo saltare. Per far questo si
affida anche molto ai suoi interpreti. Alessandro Gassmann che si presta con
generosità e talento a indossare i panni, anche scomodi, del medico. Sara
Serraiocco che nasconde una grande forza dietro un’apparente fragilità e Luka
Zunic che irrompe con la (in)giusta cattiveria violenta del naziskin. Temi
forti quindi quelli che il film vuole andare a toccare: l’odio, la vendetta, il
perdono, la memoria, il senso di colpa legati all’onda lunga e giustamente mai
sopita della Shoah. Ma nonostante le intenzioni c’è qualcosa che lascia un
retrogusto amaro. Non tutto scivola via come dovrebbe.
Così Non
odiare suona un po’ troppo come frase importante da usare come claim
per una vicenda che comincia a sembrare lontana nei tempi e nei modi. Vero che
ovunque assistiamo a rigurgiti antiebraici, a violenze razziste a ragionamenti
e approcci che non avrebbero stonato tra i gerarchi del ventennio fascista e
neppure tra gli artefici del nazismo, ma il filo nero che lega quella storia
terrificante alla realtà contemporanea è più complesso, articolato e
contraddittorio. Certo non è un film che deve mandare «messaggi» o compiere
analisi minuziose di quel che succede oggi nel mondo, ma forse Non odiare
rischia di semplificare tutto questo, al di là delle intenzioni. E questo non
aiuta, pur rimanendo un esordio coraggioso e inconsueto che punta a un livello
di racconto e di storia più alto di quel che di solito viene offerto al cinema.
sabato 26 settembre 2020
venerdì 25 settembre 2020
Hola, ¿estás sola? - Icíar Bollaín
opera prima di Icíar Bollaín, con una storia di viaggio e di scoperta, di sè e dell'amicizia.
bravissimi attrici e attori, con una sceneggiatura solidissima, che tiene il film sempre vivo.
a Trini e Niña non puoi non affezionarti, in questo piccolo grande film.
buona visione - Ismaele
Trini e Niña hanno tante cose in comune: la stessa età (20 anni), un
passato segnato dalla scomparsa della madre, e una maniera di fare le cose in
cui non c'è bisogno di fare grandi progetti. Non leggono giornali, non vedono
la TV e possono vivere senza telefono. Insieme inizieranno un viaggio senza una
meta precisa, nel quale arriveranno a incontrarsi con la madre della bambina.
Condivideranno tutto, incluso Olaf, un russo che non sa parlare spagnolo. Lungo
questo percorso scopriranno altre facce della vita che metteranno a dura prova
la loro amicizia.
da qui
…La actriz Icíar Bollaín debutó en la
dirección con esta película producida por Fernando Colomo, rodada con muy pocos
medios, en súper-16 mm, y con actores poco conocidos (Silke debutaba con esta
cinta y Candela Peña sólo había hecho hasta el momento pequeños papeles). La
realizadora contó con la colaboración de Julio Medem para escribir el guión,
cuyo tema central es la amistad, mostrada desde una óptica generacional muy
clara, la de dos chicas veinteañeras, y con un suave tono de comedia. El
proyecto se saldó con un rotundo éxito de crítica y público que disparó las
carreras de todos los implicados en él.
da qui
Both Candela Peña and Silke are
fantastic as "Trini" and "La Niña", two girls who decide to
run away together to get rich. Whilst they don't quite achieve their financial
aim, they do discover a lot about themselves, deal with several personal issues
weighing them down, and cement their friendship through learning to rely on
each other. Silke is utterly believable as the girl who resents the fact that
her mother abandoned her and her father as a child, and Candela Peña plays the
role of an orphan who so desperately needs a mother she is willing to borrow
Niña's. The two laugh, cry and make love to a Russian across the Spanish plain,
and we are fortunate enough to become a part of their world for the film's
duration. I thoroughly enjoyed it, a great debut effort by Icíar Bollain -
¡enhorabuena, guapa!
da qui
giovedì 24 settembre 2020
mercoledì 23 settembre 2020
Dov'è la tua casa? (Hogar) - David Pastor, Àlex Pastor
brutti tempi, per i creativi della pubblicità.
in un film che, mutatis mutandis, ricorda un po' Mientras duermes, di Jaime Balagueró, si svolge un gioco al massacro.
Javier, che non riesce a mantenere la famiglia come prima, decide di prendere in affitto un appartamento più piccolo, con moglie e figlio, e un po' per caso, un po' per malvagità, decide di entrare nella vita del nuovo inquilino.
e riuscirà a sostituirsi a lui.
il come lo vedrete, in un film che non annoia un attimo.
buona visione - Ismaele
…Ciertamente ‘Hogar’ suena y se parece en alguno de sus
estadios a ‘Parásitos’. Soy de los que piensan que las coincidencias en el cine
existen y las comparaciones hoy en día son inevitables siendo como es
‘Parásitos’ una ganadora del Oscar tan histórica y reciente. Pero hay que
señalar que esta idea surgió hace tiempo, nosotros mismos anunciamos en nuestra
web el inicio del rodaje de
‘Hogar’ en noviembre del 2018. A si es que sabiendo eso solo hay que coger las
diferentes pautas de ‘Hogar’ y disfrutar pues es otro sutil «home invasion»
donde un intruso se hace con la casa de otra persona perspicaz y
paulatinamente, además sin hacer uso de la violencia física.
Los derroteros de ‘Hogar’ van por otro lado. Más allá de
conformar una crítica social o el ascenso a un estrato mejor es una historia
sobre la envidia, el orgullo (o la falta de él), la codicia y la venta de
sueños. Es la caída de alguien que cada día se colaba en nuestras casas a
través de la publicidad y que tras perder esa capacidad se introduce
literalmente en casa de otros, buscando el ideal que ilustraba en sus reclamos
publicitarios. Los hermanos Pastor nos recalcan que no existe la vida perfecta
de los anuncios, siempre hay defectos o secretos que descubrir. Incluso vemos
que también cuecen habas en las empresas que nos bombardean agresivamente con
esas campañas. Esto también nos lleva a una crítica al trato que se les da a
los profesionales entrados en años y en busca de trabajo. Lo cual me recuerda
en cierto sentido a ‘La chispa de la vida’, la película de Álex de la Iglesia
con José Mota…
…La historia nos lleva a un publicista,
despedido de su trabajo, que no consigue encontrar quien le dé un nuevo empleo.
Acuciado por las necesidades de la familia, de su mujer y de su hijo, se ve
forzado a dejar su lujoso apartamento y mudarse a un modesto piso en las
afueras. Pero es incapaz de dejar atrás el pasado. Atormentado por su
situación, conservando una llave de su antiguo apartamento, pronto empezará a
estudiar a sus nuevos inquilinos, envidiando la vida que él tuvo que dejar
atrás y que ellos ahora poseen. Ahí es donde la trama comienza a dar un giro
hacia un punto mucho más siniestro, del drama social al thriller de suspense
cercano por ejemplo a Alguien me espía, de John Carpenter...
…El film sabe crear el misterio sobre los motivos de un protagonista
orientado por la desesperación y la ambición; maneja con acierto tramos de
suspense; visualmente tiene mérito; no decae el ritmo…
Acumula apuntes sociales tratados de forma superficial (maltrato, acoso
escolar, pederastia…), que sirven para compactar el plan maquiavélico con falsa
identidad de un Javier Gutiérrez sobresaliente, lo mejor de la
película.
Una lástima que todo su progreso de acción… mi problema era la
apatía… se convierta en un artificio, demasiadas casualidades y acciones de
encaje arbitrario.
Una historia entretenida pero de escasa verosimilitud.
Hogar es una historia bien organizada que explora hasta qué
punto una mente siniestra está dispuesta a llegar para salirse con la suya. No
renueva el gastado género de los acosadores y mentirosos, pero tiene un par de
situaciones efectivas para engancharte durante su hora y cuarenta de duración.
…Hogar comienza
como un thriller prometedor que acaba perdiéndose en un plan
de ejecución que no termina por encontrar su fin. El guion
presenta diversas flaquezas que pasan factura en la manera que se expone y en
el desarrollo de la historia. Por lo tanto, se puede ver una
intencionalidad que cumple con el suspense, pero no con una construcción
significativa y con matices.
A nivel interpretativo, hay que destacar el
papel de Javier Gutiérrez, que eleva el film y suple algunas faltas en la
concepción de su personaje. Por otro lado, Bruna Cusí y Ruth Díaz
son pura naturalidad. Mientras que a nivel técnico ofrece una
visión cuidada y muy atractiva, no aprovecha ni arriesga en el sentido
artístico. Una bienvenida a una casa con un ambiente enturbiado
que entretiene, pero no convence.
…todo cambia desde el momento en que este
perdedor de manual se ve obligado a mudarse a una casa mucho más humilde y su
esposa también tiene que contribuir a la frágil economía familiar dedicándose a
limpiar. Del interior de Javier emerge un ser mezquino y manipulador, capaz de
todo por recuperar su antigua posición social acomodada, tomando como víctimas
a la familia que se ha instalado en la vivienda que ha abandonado. Como un
verdadero parásito, se va inmiscuyendo en la vida de Tomás, el joven y
aparentemente triunfador nuevo inquilino. Javier envidia la imagen que este
proyecta al exterior, con su guapa esposa, abogada, y una preciosa hija
campeona de gimnasia rítmica…
martedì 22 settembre 2020
La chispa de la vida - Alex de la Iglesia
a un pubblicitario senza lavoro capita (per caso) l'affare più ricco della sua vita, però bisogna fare in fretta.
Roberto vuole vendere la sua storia al miglior offerente, ma bisogna fare in fretta.
coinvolge la moglie e i figli in questa storia, ma all'inizio non sembrano d'accordo.
è una corsa contro il tempo, quasi tutto il film è concentrato nelle poche ore in cui succede tutto, the show must go on, e bisogna battere finché il ferro è caldo, lo spettacolo paga bene, costi quel che costi.
un film in cui c'è poco da ridere, è il nostro mondo, purtroppo.
buona visione - Ismaele
…La chispa de la vida è un film che racconta di
una condizione limite, uno stato esistenziale di immobilità forzata fra la vita
e la morte, una pellicola che narra quel che siamo diventati, in quest’epoca di
crisi, di fronte al denaro: individui senza futuro, che anelano unicamente ad
una qualche forma di solidità economica da raggiungere anche a discapito della
propria dignità. In vari momenti il regista sembra suggerirci una lettura
cristologica della situazione, Roberto pare come crocifisso nella sua posizione
impossibile, ed attorno a lui troviamo la pietà mariana della moglie e dei
figli, ma soprattutto il cinismo di tutto il resto, flagellatori romani a
cospetto del corpo del Signore, compiaciuti d’osservare una sofferenza lontana
da sé, barbaramente pronti a fare a pezzi la bellezza dell’anfiteatro pur di
farsi spazio per ottenere un’immagine esclusiva del supplizio in diretta.
Il film non funziona in tutta la sua durata, se nella prima
parte tutto scivola ottimamente, nella seconda soprattutto la sceneggiatura
segna il passo, avvitandosi su sé stessa incapace di trovate soluzioni
particolarmente originali e giungendo ad un finale insolitamente modesto, visti
i precedenti del regista spagnolo. Ma forse non ha molto senso dare conto di un
film del genere in questi termini, perché pare evidente che de la Iglesia abbia
voluto questa volta raccontarci un’operetta morale, tenuemente macabra pur se
spesso comica, sull’essenza della dignità in quest’epoca buia per il nostro
continente.
Prendete L’asso nella manica,
capolavoro di crudeltà e pessimismo diretto da Billy Wilder nel 1951 e
annoverabile tra i film più strettamente politici del regista austriaco
trapiantato a Hollywood. Aggiungetevi Quinto potere,
lucido attacco ai mass media con il quale nel 1976 Sidney Lumet conquistò il
mondo e lo sfortunato Peter Finch un meritatissimo Oscar postumo come miglior
interpretazione maschile. Mescolate bene, sminuzzando nell’insieme frammenti
del grottesco tipico del cinema spagnolo dal periodo della transizione a oggi,
e otterrete La chispa de la vida (o, per dirla con il titolo
internazionale, As Luck Would Have It),
nuova regia del vulcanico Álex de la Iglesia presentata come evento speciale
alla sessantaduesima edizione della Berlinale.
Già a partire dalla sinossi si potrà intuire come La chispa de la vida non faccia proprio nulla
per nascondere eventuali riallacci critici alle opere sopra citate. Anche la
regia, da questo punto di vista, si muove in direzione di un recupero di
pratiche cinematografiche altre a quelle finora abitate dal regista spagnolo:
se il suo cinema è stato sempre l’avanguardia di un progetto di messa in scena
teso all’accumulo di materiali, quasi un’operazione di sedimentazione
dell’immaginario su visionarietà preesistenti, in questo ultimo parto creativo
Álex de la Iglesia utilizza la macchina da presa in maniera sorprendentemente
nuova – per i suoi standard, ça va sans dire…
…Gran parte del merito della riuscita dell’ottimo La
chispa de la vida è, infatti, in mano agli attori, comprimari
compresi, ma su tutti il duo José Mota e la Hayek, entrambi
due nuovi volti nella filmografia di De la Iglesia, intensi fino ai limiti
dell’umana sopportazione, abbagliati dalla sofferente luce del direttore della
fotografia di Kiko de la Rica.
Un’avventura per
nulla statica dalla durata di una notte intera, tensione assicurata per lo
spettatore strangolato da risate e lacrime allo stesso tempo. L’assurdità della
situazione, per quanto molto di quel che accada è forse più reale della realtà
stessa, è frutto sia dello sceneggiatore Randy Fedelman che
del genio di de la Iglesia
De la Iglesia è il
maestro incontrastato della black comedy il cui potere
registico non è affatto da sottovalutare. Ora non resta che aspettare, non
troppo si spera, che il film Las brujas de Zugarramurdi esca
quanto prima, magari anche in Italia, non sarebbe male, perché di Álex de la
Iglesia c’è bisogno, tanto bisogno nella nostra società.
…“Ci vuole dignità” gli dice. “Ma quale dignità – fa lui – oggi son ostato umiliato più che in tutta la mia vita”..
L’intervista si farà, ma con una giornalista
che, d’accordo con Luisa, le consegna subito la cassetta perché no sia mai
distribuita. Resterà alla famiglia, estremo ricordo di un amato padre e marito.
Poco dopo, infatti, morirà.
Il film è una commedia amara e ironica,
iperbolica e realistica, interpretata con grande bravura.
“In questo mondo dove tutti credono di essere
liberi, senza però esserlo davvero, esiste una possibilità di sopravvivenza,
che si chiama dignità” dice il quarantaseienne basco De la Iglesia. Un assunto
importante, trattato con profondità ma anche con una ben dosata ironia.
lunedì 21 settembre 2020
L'affaire Maurizius - Julien Duvivier
una storia di giustizia sbagliata, un condannato passa tanti anni in galera, innocente.
non si è mai difeso, per questo è andato in prigione.
solo a partire dalla testardaggine del padre, attraverso un ragazzino, figlio della pubblica accusa al processo, si riesce a scoprire la verità.
e l'amore ha un ruolo importante in questa storia, bisogna arrivare alla fine, amarissima, per capire tutto.
un film francese vecchio stile, buona visione - Ismaele
Etzel
Andergast, figlio del Procuratore Generale Andergast, apprende che, molti anni
prima, suo padre ha fatto condannare all'ergastolo Otto Leonardo Maurizius,
accusato d'uxoricidio. Il racconto che della vicenda gli fa il padre del
condannato convince Etzel che Otto Leonardo è innocente. Egli si mette alla
ricerca di Varemme, che con la sua testimonianza ha provocato la condanna di
Maurizius, e riesce a farsi una idea degli avvenimenti che hanno preceduto il
processo…
Tratto da un romanzo discreto, un film che sembra venire da
lontano! Nel senso sembra un film muto doppiato, con espressioni esageratamente
marcate, e andando verso il finale, diventa quasi comico. Peccato, perché il
regista è bravo, la riduzione dal romanzo è sua, l'ambientazione è buona e la
fotografia eccezionale, ma questa pecca finisce per influire negativamente
sulla qualità generale del film.
Studente liceale teme che il padre procuratore anni prima abbia
fatto condannare per uxoricidio un innocente. Decorosa trasposizione
dell'omonimo romanzo di Jakob Wassermann, che non era soltanto un giallo
giudiziario, ma anche una riflessione sulla fallacia della giustizia, sui
conflitti generazionali e sull'amore che complica tutto. Un film corale e
ambizioso, che colpisce soprattutto per lo spessore dei personaggi. Gélin a
tratti sembra fuori posto, ma il resto del cast (seconde linee comprese) offre
prove impeccabili. Finale agrodolce.
domenica 20 settembre 2020
Sapphire – Basil Dearden
nella swinging Inghilterra, con un impero coloniale enorme, erano gli inglesi ad andare nelle colonie, aiutati dalle armi (ça va sans dire).
quando quei colonizzati andavano in Inghilterra allora nascevano i problemi.
il film racconta di un omicidio, una storia che sembrava d'amore, fino a che lei sembrava bianca, poi d'odio, quando si scopre che lei è una ragazza con antenati non giusti.
l'ispettore e i suoi collaboratori, con gravi difficoltà, arrivano alla terribile verità, e, come in Victim, le cose sono, drammaticamente, sempre peggio di come appaiono.
film che scavano nei pregiudizi della società inglese.
un film imperdibile, provare per credere - Ismaele
qui il film
completo con sottotitoli in inglese
Un an après les émeutes raciales de Notting Hill, Basil Dearden essaie
d’aborder le sujet épineux de l’intégration en incorporant les problèmes d’un
Londres en pleine évolution sociale à une enquête criminelle. On découvre une
belle jeune femme (Yvonne Buckingham dans le rôle éponyme du film) assassinée à
Hampstead Heath : l’autopsie révèle qu’elle a subi d’autres outrages -
elle est enceinte. Lorsque son frère qui est docteur (Earl Cameron) vient
identifier le corps, les inspecteurs Hazard (Nigel Patrick) et Learoyd (Michael
Craig) sont surpris de la noirceur de sa peau - il leur avait semblé que
Sapphire avait la peau blanche. Les illusions se brisent l’une après l’autre
lors de l’enquête qui mène un Learoyd manifestement sectaire et un Hazard plus
circonspect dans des boîtes de nuit et maisons des jeunes fréquentées par
Sapphire. Ils recueillent ainsi des témoignages d’intolérance et d’ignorance
venant de tous bords au fil de leurs investigations. Véritable révélateur des
valeurs dominantes de l’époque, le film continue aujourd’hui encore à mettre le
spectateur mal à l’aise tout en le poussant à réfléchir.
In Sapphire, two
detectives investigate the murder of a college student who was of mixed race
but was “passing” for white. The manhunt takes them on a tour of the city’s
black communities, seldom shown cinematically before, and reveals the shocking
intolerance of many in the white middle class. With its frank exposure of
postcolonial ethnic tensions, Sapphire was
one of the most remarkable social-problem films produced in Britain after the
war. And it made waves, eliciting as many angry notices as positive ones,
though it was well regarded enough to garner best British film honors at the
1959 British Academy of Film and Television Awards. If the film seems less than
radical now, it’s worth noting that British cinema reverted to being
exclusively white for some time afterward. Dearden had taken viewers places
many had never been.
sabato 19 settembre 2020
Notturno - Gianfranco Rosi
qualche anno dopo Fuocoammare Gianfranco Rosi gira un nuovo documentario, in zone di guerra, Siria, Kurdistan, Iraq, qualcuno aggiunge il Libano, ma non ho visto immagini, forse c'erano, ma nel montaggio devono essere sparite (se non ho dormito un po').
non ci sono molte parole, quasi solo in manicomio, il posto più sicuro di quelli visti nel film.
la fotografia è di serie A.
le immagini parlano da sole, alcuni segmenti più riusciti di altri, l'occhio del regista fa la sua parte, e come sempre succede ci si chiede se la presenza della telecamera rende le persone (nel documentario) come sono, o le cose cambiano? l'osservatore cambia l'osservato? eterna domanda.
certo che viene in mente un'altra domanda? chiunque di noi lì, uno come loro, resterebbe sempre lì o cercherebbe a tutti i costi di arrivare in Europa (che nei confini di quelle nazioni disegnati con il righello ha un bel po' di colpa)?
film che merita, un po' sotto Fuocoammare, secondo me, ma merita.
buona visione - Ismaele
…Quello di Rosi è
un cinema ormai globalmente riconoscibile, e sempre diviso nell'anima: da una
parte improvvisazione e adattamento a ciò che la realtà gli comanda, dall'altra
un controllo formale e cromatico che a volte sembra voler far prevalere
l'estetica sull'etica. Notturno, è ancora una volta tutto questo,
un film pensato per aver luogo solo di notte che poi, negli anni e nel girato,
si è aperto anche al giorno. Un'opera che affianca momenti di intimismo
extra-ordinario (la litania di una donna in visita alla prigione dove il figlio
è stato torturato e ucciso) a quello quotidiano (un salotto che ogni notte
viene preparato per accogliere il riposo di una famiglia intera), e che ha
un'innegabile capacità di rendere iconico l'icastico.
La sequenza ambientata nel cortile di una prigione in cui, come sangue da una
ferita, si riversano le uniformi rosse dei prigionieri è sullo stesso livello
delle memorabili scene che tracciavano contorni di persone attraverso il
luccichio delle coperte termiche in Fuocoammare. Ancora
una volta alla regia, montaggio e suono di Rosi si affianca il contributo di
una star della fotografia come Luca Bigazzi alla correzione colore, sempre a livelli eccelsi.
…Notturno rappresenta
lo sguardo oltre il conflitto di guerra, é un film sulle persone dilaniate dal
dolore ma che, non possono arrendersi alla sofferenza, e vivono la propria
quotidianità convivendo con esso. Ci sono attori che rielaborano la guerra e la
storia di quelle Terre colpite attraverso pièce in cui ognuno di loro si fa
carico di un racconto che, inevitabilmente ha lasciato segni visibili (e non)
su ognuno.
In Notturno parlano
le immagini, gli sguardi delle persone, il “silenzio” della colonna musicale
costringe lo spettatore a non distrarsi da quello che sta guardando. La storia
é tutta lì, e non ha bisogno di accessori.
…Ciò che colpisce in maniera positiva del
documentario “Notturno” è la bellissima fotografia. Si tratta
di immagini spettacolari, di giochi di ombre, di colori spesso caldi, di luci
al tramonto e all’alba. Il notturno è evidenziato da una precisa esaltazione
del buio che fagocita la luce, spesso flebile, spesso disturbata dagli spari
delle mitragliatrici nella notte.
Corrono e marciano i soldati sin dall’inizio e si
ritrovano in molte scene. Il regista ci avverte solo, con un primo cartello
scritto e silenzioso che siamo in medi oriente, ma non viene mai precisato il
paese, la città, di quale confine o popolo viene riprodotto.
Rosi lascia
parlare le immagini, non si interessa di dare delle coordinate spazio temporali
precise proprio perchè la situazione, in quelle zone, è sempre molto dinamica,
fluida, cangiante oltre a una condizione di base, quella umana che dovrebbe
prevalere al di là dei confini.
“Notturno” si
discosta dal documentario puro, tutte le scene sono progettate e montate con un
preciso motivo ma non costituiscono mai un racconto unico. Non esiste una voce
fuori campo, non esiste nessun personaggio che spiega il suo punto di vista
tantomeno quello del regista…
…Pero también atrapa imágenes bellas, evocadoras y
sugerentes. Imágenes nocturnas iluminadas por el fuego de los pozos de petróleo
ardiendo, una carretera convertida en auténtica cascada de agua o los distintos
intentos de cruzar un río tras el destrozo del puente que permitían vadearlo.
Imágenes de gran fuerza visual por lo estético y por su capacidad de evocación.
Lástima que su camino para conseguir la atención del espectador se incline
demasiado hacia la búsqueda impúdica de la emoción por cualquier medio.
…Se da una parte è difficile non provare empatia per le
situazioni sempre più estreme che Rosi cattura, dall’altra sorge un dilemma
prettamente morale: fino a che punto può spingersi il cinema nella
rappresentazione del reale, senza risultare artefatto e per certi versi
disumano? Il reale pianto di una madre che accarezza il muro usato per la
tortura del figlio può essere usato come strumento narrativo e retorico? In
cosa differisce Notturno da quella rappresentazione teatrale
mostrata allo spettatore, in cui i pazienti di un ospedale psichiatrico provano
e costruiscono a tavolino la loro opera?
La risposta a queste domande sta nella personale
interpretazione dell’etica e del mezzo cinematografico. Dal canto suo Rosi, in
quella che ormai possiamo definire la sua cifra stilistica e artistica, si
limita a interrogare il nostro sguardo, a pungolare le nostre più intime
convinzioni e, in ultima analisi, a documentare la storia mentre la stessa
storia scorre, senza alcun compromesso che non sia la ricerca della bellezza e
dell’emozione.
…Notturno non
mostra la guerra in modo diretto, ma prova ad esplorare i dintorni di essa.
Soprattutto quando, dalla voce dei bambini, si ascoltano ricordi agghiaccianti
delle torture a cui hanno assistito o che hanno subito in prima persona con
l’arrivo dell’ISIS. Teste mozzate, impiccagioni, pugni, calci, e varie pratiche
insensate e folli che ormai sono marchiate a fuoco nelle loro piccole menti
anche se il personale scolastico prova ad aiutarli a dimenticare o perlomeno a
comprendere quella brutalità, anche se è impossibile persino per gli adulti.
Distese di acqua avvolte dai toni caldi del tramonto,
campi immensi e isolati, si alterano ad ambienti vuoti in cui i personaggi si
muovono timidi. Notturno è sicuramente un
documentario interessante per il suo valore artistico e culturale, ma non
coinvolge per la mancanza di una storia da raccontare. Sembra più di essere di
fronte a un’opera d’arte da ammirare e contemplare, ma non a un documentario
con un’anima da esplorare e vivere.
venerdì 18 settembre 2020
giovedì 17 settembre 2020
Anna - Pierre Koralnik
film "solo" per la tv, il primo a colori, pare, è la rappresentazione della swinging (o douce) Parigi di quegli anni.
Anna Karina è bravissima, Serge Gainsbourg, anche attore, compone musiche davvero belle, Jean-Claude Brialy è perfetto nel ruolo di chi si innamora di un'immagine, e solo di quella, purtroppo.
film che merita, promesso - Ismaele
While it flirts occasionally with Godard territory, this
musical comedy is more of a tribute to British pop culture. Beyond Gainsbourg's
discordant but fine score, it is primarily an affair of cinematic attractions
drawn from some stunning Willy Kurant cinematography (thankfully, not the fish-eyed
effects, but those in the city with the two leads shot against colorful
posters) and from a divinely girly Anna Karina.
…Brialy, as the fashion advertising executive (or
something) who falls in love with the photograph of a girl that he finds in his
company’s dark room (note the Funny Face reference), doesn’t so much play a character as enact a
sequence of poses of lovesickness, as if he were doing a theatrical performance
of the fragments that make up Roland Barthes’ A Lover’s Discourse. Karina, as the girl in the photograph who Brialy never
recognizes as the same person because whenever he sees her she’s wearing a
rather adorable pair of glasses, is also not really required to ‘act’ in any
terribly dynamic way, but it’s to her credit that she manages not only to
convey grace and loveliness, but to be genuinely convincing as a lonely,
hopeful but often disappointed young woman, as her character is for the first
part of the film. Gainsbourg of course has enough charm, wit and ‘screen
presence,’ as they say, to steal the whole movie away from its two main stars,
which is perhaps why he’s sensible enough to only show up for a couple of
scenes. The musical sequences are brilliant not so much for their choreography
as for their editing, which dispenses with continuity not for the sake of a
Godardian ‘up yours’ to Hollywood, but because there’s just way too much fun
stuff going on to bother with the conventions…
French,
energetic, colorful, bonkers musical that could only have come from the 60s,
with an eclectic pop soundtrack by Serge Gainsbourg that is somehow both
obnoxious and lyrically playful. The story is simple: A photographer catches a
face on one of his photographs while in a train station, falls for the
mysterious woman and starts a desperate search to find this girl of his dreams
even though she is right under his nose. This is really just an excuse for one
quirky French pop song and performance after another. Interspersed between the
songs are some delirious, acid-induced 'dance' performances often involving
spastic unhinged performances in the street by people wearing painfully
colorful and bonkers costumes made of plastic. The opening is particularly
surreal. Also features Marianne Faithfull and Anna Karina.
Des fois il y a des films comme celui ci, on se lance dedans
sans trop savoir a quoi s'attendre et puis on découvre un film a deux doigts
d’être une vraie merveille, rempli d'émotions et de sentiments .
Ce téléfilm avait
tout pour sortir sur grand écran, et ceci est deja un gros handicap pour qu'il
puisse continuer d'exister de nos jours .
Mais il a aussi
vieillit aussi bien au niveau des images que du son .
Enfin bon c'est le
genre de film qui est tombé dans le l'oubli du cinéma Français et c'est bien
dommage !...
ANNA est de ces
films qui nous rappellent l'importance du scénario (et oui), de sa capacité à
occuper pleinement un film, et surtout de la réalisation, de "pourquoi on
montre une chose comme on la montre, et pourquoi pas autrement".
Commençons par les bons points, qui j'espère vous donneront la curiosité
d'aller regarder ANNA : film à voir d'abord pour sa photographie : dirigée par
Willy Kurant (Godard, Varda, Kubrick, Gainsbourg …), on ressent un réel soin
apporté à la composition des plans, aux cadrages, on perçoit nettement une
esthétique, un parti pris dans l'image du film, qui sublime les acteurs
principaux, Anna Karina et Jean-Claude Brialy et les rues de Paris, décor
traité un peu comme un personnage, c'est en tout cas ce que j'ai ressenti : le
cadreur nous fait ressentir son expérience de cinéma d'actualité, les
travellings dans la capitale font penser à du documentaire, chose étonnante
pour une comédie musicale.
Seconde raison de voir Anna, et plutôt de l'écouter : la bande-originale. Composée
par Serge Gainsbourg, qui donne également la réplique à Serge (Brialy) dans le
film, elle est particulièrement réussie, et je conseille vraiment l'écoute de
la dernière version CD, remasterisée, qui permet de profiter des musiques
entières, parfois tronquées dans le "final cut".
Dernière raison de regarder ANNA, les acteurs, qui sont vraiment
intéressants, et apportent au film une plus-value : Karina, dont l'espièglerie
est un parfait contrepoint aux monologues introspectifs, Brialy dans son rôle
d'homme presque fou, perdu dans un amour illusoire, désabusé, traité comme un
enfant par ses tantes "étranges". Ils arrivent à nous faire oublier
le côté assez kitch du film, qui en même temps fait le charme d'ANNA, il faut
l'avouer. Un couple que l'on retrouve quelques années plus tôt dans "Une femme est une femme"
de Jean-Luc Godard (1961) : un musical plus réussi car plus audacieux ...
Godard arrive à nous faire vivre une intrigue à la fois absurde et révélatrice
des comportements humains, comme des marivaudages (même si la musique de
Legrand n'est pas l'axe de film, contrairement à celle de Gainsbourg, c'est
peut être le défaut qu'on peut lui trouver). Enfin, ce couple marche très bien
à l'écran, et c'était une bonne idée de les choisir ! Ajoutez à cela qu'Anna
Karina était une proche de Gainsbourg, ce qui explique la réussite de la B.O.,
et on avait un film réussi, sur le papier ...
La grande faiblesse d'ANNA, c'est son scénario et sa réalisation : un
postulat de départ intéressant, un homme tombe amoureux d'un visage féminin sur
une photographie, et s'évertue à retrouver la fameuse femme, par tous les
moyens possibles, sans se rendre compte qu'elle est sous ses yeux. L'idée me
séduit, seulement elle n'est pas suffisamment développée, mise en scène : je
n'ai pas perçu de véritable audace, rien ne m'a fait dire "Wow, c'est
osé" : un musical qui se réclame pop, acidulé, mais avec une réalisation
ultra classique : ça fonctionne pour certaines séquences ("Boomerang"
et Brialy dans la rue), mais le reste du temps, on s'ennuie. Le vrai problème
étant que l'intrigue tourne en rond assez rapidement, et aurait pu être plus
riche, plus étonnante : on ne fait finalement que suivre les déambulations
urbaines et dépressives de Serge, et les pensées pessimistes mais teintées
d'innocence d'Anna, avec deux trois passages plus nerveux, "psyché"
... Il ne faut pas oublier qu'ANNA est un musical produit avec un budget
dérisoire, ce qui explique peut-être la "sobriété" de la réalisation
... Mais quand même, c'est dommage d'avoir un si bon matériel de départ, et de
ne rien transcender : heuresement, le casting est là, et la musique aussi.
En conclusion, je conseille ANNA pour l'image, hyper réussie, la musique,
hyper réussie -normal, Gainsbourg- et les acteurs, justes dans leur
interprétation, et j'espère voir un jour une belle version remasterisée, image
et son, pour mieux profiter du film ! (Peut-être est-ce un voeu pieux, mais
j'ai envie d'y croire quand même !)
mercoledì 16 settembre 2020
Elisa y Marcela - Isabel Coixet
una storia di un secolo fa, quando esisteva un unico tipo di coppia, meno che mai di due donne.
film un po' a tesi, quasi un documentario,per certi tratti, quindi.
la battuta più bella del film e di quel funzionario portoghese che fa fuggire le donne, per fare un dispetto agli ingombranti vicini spagnoli.
film più stroncato che esaltato, con tutte le cautele del caso meglio vederlo, poi ognuno decide il proprio giudizio - Ismaele
…è fin da subito evidente che il legittimo intento politico del film -
sottolineato dal cartello finale - è anche il più grande limite di questo
melodramma sentimentale in cui, per quasi due ore, non c'è traccia di un solo
contrasto "interno" che turbi la relazione fra le protagoniste.
Un melodramma senza melodramma, insomma: l'amore tra Elisa e Marcela ci viene
raccontato da Coixet senza alcuna sfumatura, solido, persistente,
potenzialmente eterno. Un sentimento che non viene mai messo in crisi, né
tantomeno discusso, nonostante le difficoltà crescenti cui le donne -
omosessuali nella Spagna cattolica dei primi del Novecento - devono far fronte.
L'arco della storia d'amore fra Elisa e Marcela,
più che un arco, è una linea retta che procede noiosamente all'infinito:
innamorate da subito, fuggite rapidamente al controllo della famiglia (Marcela)
e della scuola (Elisa), le due convivono, si sposano, si travestono, e nemmeno
il carcere riesce a mettere pur debolmente in crisi il loro legame. Un idillio
del cuore ma anche dei corpi, consumato nelle scene più efficaci del film:
quelle in cui l'energia sessuale delle giovani esplode in amplessi giocosi e
creativi, tra un accenno al bondage e animali usati in modo improprio, con l'occhio
della regista spudoratamente vicino al centro del piacere.
Svincolate dall'obiettivo militante e dall'aderenza storica, le scene di sesso
in Elisa y Marcela sono la parte più viva e autentica di un
film il cui motore narrativo è uno stanco "uno contro tutti", al
servizio di una tesi manichea in cui il mondo rurale spagnolo - incapace di
accettare quella relazione "altra" - è il polo negativo.
Un mondo raccontato, anche in questo caso, con l'approssimazione di una fiaba
per bambini: il taglialegna violento, la contadina impicciona, i popolani che
assediano la casa delle amanti con pietre e forconi (sic). Muovendosi sopra le
righe di una storia vera, già di per sé straordinaria, Coixet eccede in tutto:
si lascia travolgere dal contenuto ed esagera nella forma, sciogliendo la
raffinatezza del bianco e nero in un pasticcio di dissolvenze, trovate e
affettati cliché visivi.
…Ogni cosa
in questo film vuole ricordarci che la nostra società, dopo un
secolo, non è cambiata. La gente deve fingere di essere altro
da ciò che è per essere accettata. La sovrapposizione di piani è sottile, quasi
velata, fino alla denuncia finale. Non tutto il film vuole essere emblema di
una filosofia, o racconto della discriminazione del diverso. L’opera descrive una storia d’amore, in modo molto rispettoso.
Chiunque sia consapevole che questa tematica possa toccare delle corde che
urtino la propria sensibilità, fuori da ogni giudizio morale, sappia che la
visione non è obbligatoria…
… anche se Elisa y Marcela è dello stesso impasto
di troppi prodotti Netflix, il film della Coitex non è esente da altri
problemi. Ci troviamo davanti a scelte che
risultano effettivamente incomprensibili, come virare alcune immagini verso uno
scadente effetto pellicola per poi tornare un
secondo dopo alla grana del digitale. Ma la vera questione è
un’altra. Per parafrasare Greta Fernández (Marcela nel film) “Grazie a Netflix la storia delle due donne potrà essere
conosciuta da tutti.” Ma è davvero importante
solo il fatto che sia conosciuta da tutti? Non conta anche come
attraverso il cinema questa storia viene mostrata? Il problema centrale di questo racconto di lotta è che non
avvertiamo, neanche per un secondo, l’ardore della lotta. Non ci dimeniamo
scomodi di fronte all’ingiustizia; nelle immagini della Coixet manca la
stupidità dell’ oppressione e lo spirito battagliero di una donna che nel 1901,
decide di vestirsi da uomo per sposare la sua amata. Non ci bastano dati didattici e sconvolgenti esibiti a
chiusura del film, prima dei titoli di coda. Elisa y Marcela ci
sembra comunque solo una storia qualunque.
In troppi paesi, ci avverte il cartello finale, il matrimonio fra persone dello stesso sesso è illegale e l'omosessualità è punita con la pena di morte: può essere nobile l’intento di Coixet di raccontare la storia vera di Elisa, che sotto mentite spoglie maschili sposò l’amata Marcela nel 1901, ma ignobile è la messa in scena. Il film originale Netflix si rivela una fiera del cattivo gusto, con inaccettabili vezzi stilistici che fanno il verso al muto (dissolvenze a iride, effetto “sgranato” che va e viene arbitrariamente), leziose nature morte in un bianco e nero che pare la parodia di Roma e scene di sesso patinatissime ma per nulla erotiche, con un immaginario che sta tra Dolce & Gabbana e 50 sfumature di grigio (guest star un incolpevole polipo). Il vero scult del festival, rende un pessimo servizio alla giusta causa di cui si fa portavoce.
…Una storia questa di
Elisa e Marcela che ci ricorda il potere dimenticato del desiderio. Desiderare
è il primo atto di amore, è la prima consumazione del piacere che però possiamo
ripetere nella nostra testa all’infinito. Dal punto estremo del
desiderio Marcela, la più giovane, si getta senza sapere esattamente perché,
segue il flusso, apre le braccia credendole ali. Il desiderio è una sorta di
terreno sicuro, un giardino incantato ma recintato. Possiamo far entrare chi
amiamo e dettare noi le regole, nel desiderio siamo noi i signori del castello,
noi gli stessi carcerati. Il desiderio però può anche consumare fino a
sfinirci, può esaurire il resto, il terreno oltre il perimetro può seccarsi. Ma
Elisa e Marcela si gettano insieme, le ali prendono fuoco, almeno lo fanno
insieme. Tentano un atto di volontà, ci riescono.
Votare la
vita all’amore – a un amore considerato malato e mostruoso all’epoca, e siamo
solo cento anni fa – è un atto di desiderio che si spinge fino alla volontà,
porta quindi il sacrificio. Se volete ricordarvi cosa significhi tentare un
amore completo allora guardate questo film, non c’è volontà senza prima
desiderio, non c’è passione senza amore. Tutto è incastrato nella
stessa forma, tutto richiede un estremo dolore. Elisa e Marcela ci ricordano
che non si può volere tutto di un amore se non si è pronti a togliersi tutto, a
spogliarsi persino della libertà. La loro storia ci insegna che amare significa
espropriarsi della propria identità se c’è un bene da difendere, da preservare.
Essere agnelli e carnefici, stare sull’altare del sacrificio, non sapere fino
all’ultimo chi sarà dalla parte del coltello, chi del collo offerto…
… La química que surge entre las dos mujeres queda opacada
por diálogos chatos con poca inspiración, sin detenerse en hitos de la historia
de amor que hubiese valido la pena destacar. La velocidad con la que surge el
romance es completamente inverosímil, quedando como el inicio de una
película soft porn, en la que van directo a
los actos carnales. Pese al ritmo, la narrativa es tediosa, sobre todo en la
segunda mitad de la película.
La intención parece buena, pero en la realidad se vuelve
demasiado simple. Pretende ser una reivindicación a la elección libre del amor
entre esas 2 mujeres y, con tanto material de la historia real, podría haber
sido una película más profunda y apasionada. Pasa muy superficialmente por
temas como la intimidad de las chicas o la incomprensión de la sociedad.
A pesar de ser tan
superficial, teniendo un mensaje tan fuerte para trasmitir, se agradecen
siempre películas como ésta que defienden los derechos y libertades de las
minorías.
… La
directora lleva demostrando ya hace un tiempo, sobre todo en "La
librería" y en "Elisa y Marcela" que defiende con uñas y dientes
a sus actores y les da todo el protagonismo que se merecen, tanto Natalia de
Molina como Greta Fernández forman un vinculo muy especial, la química que se
forma entre ellas es espectacular y que decir del grupo de actores secundarios que
arropan a la pareja protagonista.
La cinta esta dirigida con una exquisita
delicadeza y con un blanco y negro que te envuelve, te atrapa y ta hace
participe de toda la historia. La puesta en escena y la fotografía también son
estupendas . Pero sobre todo es una película reivindicativa y que transmite el
mensaje de que cada persona es libre de enamorarse de quien le de la gana.
… El
contexto en el que se cuenta esta historia es lo que peor cuidado está de toda
la película. Estamos en Galicia, en 1901 y poco escuchamos el acento gallego.
Pero no solo eso, sino que ellas tampoco disimulan demasiado. Me ha parecido
que Coixet ha tratado el tema de manera demasiado actual, sí que hay dos
escenas en las que se puede ver como son marginadas o incluso atacadas, pero
aun así no las veo preocupadas de ser vistas, no me ha parecido nada real para
la época en la que andaban. Si que se nos muestran las consecuencias finales,
pero sinceramente tardan en llegar.
Visualmente es donde más gana la cinta, la fotografía es de
marco y Jennifer Cox merece un gran reconocimiento
por ella. Creo que hay pocas imágenes de la película que no sean bellas, aunque
como he mencionado antes, muchos planos no dicen demasiado.
Poco más que deciros, recomendaros buscar información
acerca de estas dos mujeres y empaparos con sus vidas. Merece la pena.
…A ben guardare, la ragazza travestita da ragazzo non è
assolutamente credibile, e non avrebbe certo ingannato nessuno, mentre invece è
verosimile la vera Elisa, come si evince dalla foto d’epoca. Giocare un film
sull’ambiguità e la finzione sessuale, sul modello di Boys Don’t Cry, sulla donna che si finge uomo e
sulla suspense della sua possibile scoperta, richiede una assoluta
verosimiglianza, cosa molto difficile da raggiungere. E infine una
contraddizione di fondo. Fare di questa storia una storia esemplare per le
conquiste dei diritti civili LGTB ha poco senso. La storia certo è
straordinaria e andava raccontata. Ma non di ribellione si è trattato, semmai
di una simulazione truffaldina per poter vivere felici assecondando, non
contestando, l’opprimente morale bigotta cattolica. Né il film cerca di
spiegare un’altra domanda irrisolta: perché scegliere la rischiosa strada del
matrimonio simulando un sesso diverso e non ripiegare su altre forme di
convivenza magari con altre simulazioni? Più che un pamphlet per i matrimoni
tra persone dello stesso sesso, Elisa y Marcela è
un esercizio di stile dell’ego cinematografico della regista.