Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
lunedì 30 settembre 2013
domenica 29 settembre 2013
Miguel - Salvatore Mereu
un film (del 1999) quasi sconosciuto, e però eccezionale.
figlio diretto di "Scarabea" (qui), per qualche alchimia strana, "Miguel" è un film sfuggito al regista, come "Arcipelaghi", di Giovanni Columbu (qui), il film è più importante di quanto pensasse il regista quando lo girava.
difficile da trovare, ma gli sforzi verranno ripagati - Ismaele
Ps: ho come l'idea che sarebbe piaciuto molto a quella grande testa pensante di Michelangelo Pira (che ci manca, cavolo che ci manca uno così)
…i due elementi portanti del film e che ne garantiscono la riuscita:
la capacità dei pastori di mostrarsi fuori dagli stereotipi e il finale in cui
gli stessi prendono possesso del mezzo di comunicazione filmica, la cinepresa,
e quindi prendono in mano la propria immagine. La favola di Mereu, come ogni
favola, non sfugge alla moltiplicazione delle chiavi di lettura. La metafora
cannibale per esempio è intimamente legata, concettualmente, alla sostituzione
registica. Mereu si è lasciato prendere la mano, fortunatamente, da questi
formidabili attori che presentando se stessi sono ri-usciti dalla loro maschera
fossile con l’irriverenza tipica dell’autoironia. Il tono grottesco,
deformante, serve ad accentuare linee di senso che non appartengono alla
banalizzazione del messaggio. Mangiare Miguel non è segno di un rifiuto
dell’alterità quanto semmai un prendersi carico direttamente, senza
intermediari, della propria immagine e del proprio essere. “Miguel” si impone
del resto proprio per la sua natura profondamente cinematografica, anche quando
il cinema-cinema sconfina in echi kusturichiani, come allude la colonna sonora,
che rinuncia alla riproposizione di un canto a tenore a favore di una musica
significativamente nomade…
Vende scarpe per vacche e capre ai pastori della Barbagia
promettendo che faranno più latte. Una storia stralunata, nella quale
rimbalzano certi echi di Citti, ma anche certe uscite strampalate del primo
Herzog. Mereu ci prova con la favola umoristico-grottesca, ma si perde nel
naturalismo di facce pasoliniane e in un ritmo slabbrato, fino all’approdo
metacinematografico che aggiunge inutile carne al fuoco. Spunti carini qua e
là, ma l’impressione è di una vena surreale che non sta proprio nelle corde del
suo autore.
sabato 28 settembre 2013
Salt of this sea (Milh Hadha al-Bahr) - Annemarie Jacir
un
film sorprendente, con due protagonisti bravissimi, Suheir Hammad (Soraya), è il suo unico film, finora, e Saleh Bakri, qui
alle prime armi, che ha fatto una manciata di film, e però è ormai un attore di
quelli che non si dimenticano (da poco protagonista di “Salvo”, ed era in quel piccolo
grande capolavoro che è “La banda”, uno di quei film che il dio del cinema ogni
tanto ci regala, a noi umili e fortunati spettatori).
la storia è sempre quella del rientro nella casa
e nella patria (vi ricordate di Ulisse?) in un film che mostra tutte le
difficoltà di un popolo imprigionato, e però non si piange addosso, Annemarie Jacir non solo fa un film politico, ma dentro
c’è una rapina degna del genio di Woody Allen, una fuga da nouvelle vague, e la
visione del mare, che non ha i tornelli e le sbarre dei check point israeliani,
è quella della libertà e dello stupore (un po’ come quella dei bambini di Mereu
in” Ballo a tre passi”)
cercatelo,
davvero un grande film - Ismaele
Ps: se dico sempre che Saleh è figlio di Mohammad Bakri è solo per ricordare il padre, grandissimo
attore e regista coraggioso come pochi (qui è il
protagonista di un film sul ritorno, sconosciuto ai più, di Costa Gavras)
Voici un film palestinien qui risque de diviser.
Parce qu'au delà des visions d'une maintenant usuelle absurdité, à l'image de
l'éprouvante scène de questionnement et de fouilles humiliante qui ouvre le
film, le personnage principal ose explorer des des recoins de fierté blessée et
demander réparation des souffrances subies et des biens spoliés. D'emblée, le
scénario du « Sel de la mer » affiche la volonté d'un retour au source,
d'une exploration nostalgique d'un pays rêvé, raconté au travers de jolies
évocations d'un grand père décédé, parcourant les rues de Jaffa, jusqu'à la
mer. Puis, en documentaire réaliste, le récit aligne les signes d'occupation,
montrant des contrôles de nuit durant lesquels l'homme qui l'accompagne se
retrouve nu, ou disséquant la manière dont l'Etat israélien décide de qui est
palestinien ou non, délivrant uniquement des visas touristiques à des
descendants pourtant légitimes…
… Annemarie Jacir ha filmado una
historia que conmueve por las emociones encontradas que suscitan los deseos
opuestos de Soraya, nacida y criada en Brooklyn, que ansía que le reconozcan
como palestina y quiere recuperar para su presente el pasado que le robaron a
su familia, y Emad, el palestino al que no le conceden el visado para poder
irse a Canadá, y que desea sentirse libre para alejarse de la confrontación
política y bélica que ha llenado de sangre la región desde hace más de medio
siglo. No necesita mostrar ni una sola imagen de bombardeos para transmitir la
gravedad de la existencia en la zona, con controles por doquier y situaciones
tan humillantes como la que vive Soraya para pasar la aduana. Solo quienes
estén ideológicamente cegatos podrán acusar de maniqueísmo a Jacir.
Por el contrario, en sus imágenes
se mezclan un hiperrealismo tan veraz como cualquier documental filmado al hilo
del conflicto árabe-judío, con un surrealismo que hubiera hecho las delicias
del mismísimo Buñuel. Así, con ese tono de disparate naif (en un lugar donde
abundan las armas, los policías palestinos tienen que ir desarmados) se
comprende que la pareja robe en un banco y la mujer le pida al cajero que le
cuente exactamente la cantidad de dólares del atraco. Para lograr la calidez
que transmiten las secuencias, tan esencial es la potente planificación cámara
en mano (sin los molestos vaivenes de quienes se creen que están reinventando
el cine) como las vivencias que aportan sus protagonistas: Suheir Hammad, una
poetisa que nació en un campo de refugiados en Jordania y desde los cinco años
vive en Brooklyn, y Saleh Bacri, un actor palestino que nació en la zona norte
de Israel, al que no le está permitido entrar en Ramala. Es, pues, La sal de este mar un film que atrapa con su autenticidad
emocional, que sobrevuela por las imperfecciones del relato.
…Le film se déroule très simplement dans un style libre
et révolté, à travers les décors meurtris d’une Palestine asphyxiée. Le courage
exemplaire de l’héroïne, sa force inébranlable, sa foi et son rejet de
l’injustice balisent un parcours ou tout est difficile mais ou le refus
d’enterrer ses rêves contraste très durement avec la réalité imposée aux
personnages. Le Sel de la
mer est un film
d’écorchée vive, un film quasi militant, en tout cas passionné mais sans haine
aucune. Le
discours est simple, peut-être parfois trop didactique, mais humaniste, et un
réel motif d’espoir.
Présenté à Cannes dans la section Un Certain Regard, Le Sel de la mer s’est avéré être une formidable
découverte, un film à la fois courageux et nécessaire. En prime, une révélation sublime,
Suheir Hammad, à la fois belle et vibrante d’émotions diverses.
…Written and directed by
Palestinian filmmaker (and founding member of the Palestinian Filmmakers’
Collective) Annemarie Jacir, Salt
of this Sea is a poetic
meditation on the trials and tribulations of modern day Palestinians. Jacir
intelligently highlights the sheer ridiculousness of the Israeli occupation; a
situation in which Palestinians are treated as refugees and criminals within
the borders of their ancestral homeland solely because of their ancestry.
da quimercoledì 25 settembre 2013
Rush - Ron Howard
scritto
da Peter Morgan ("Il maledetto United", "Frost/Nixon",
"L'ultimo re di Scozia", tra gli altri) è la storia di una rivalità,
ma anche di una relazione fra due campioni.
la prima parte del film è meno brillante, serve a gettare
le basi per una seconda parte splendida, nella quale gli eroi si sfidano e si
combattono sino all'ultimo punto e all'ultima curva, e allo stesso tempo in un
qualche modo si rispettano e sono complementari.
in realtà sono due eroi omerici, di quell'Iliade che per
Simone Weil è il poema della forza.
Daniel Brühl (Niki Lauda) è sempre più bravo, se c'è lui
sai che sarà un bel film (da "Goodbye Lenin" in poi), non delude mai,
non interpreta, lui è il personaggio, come solo i grandi attori sanno fare.
bravi anche tutti gli altri,
Chris Hemsworth (James Hunt), Alexandra Maria Lara (Marlene, la moglie di
Lauda), Olivia Wilde (la moglie di Hunt), c’è anche Pierfrancesco Favino (Clay
Regazzoni), diretti da Ron Howard, niente punte di genio, forse
prevedibile, ma solido.
un
film che conquista tutti, soprattutto chi a quei tempi era ragazzo capisce
finalmente quella storia di incoscienza e coraggio di rischiare tutto, di eroismo
e di coraggio di non rischiare tutto.
da
non perdere - Ismaele
...lasciatecelo
dire, se per il pubblico neutro e per gli appassionati in erba di automobilismo
(quelli che nel 1976 non erano nemmeno stati concepiti) Rush è 'solo' un gran
bel film, per noi che siamo nati e cresciuti la Formula Uno di quegli anni,
quella Formula Uno artigianale, pericolosa, eroica, epica... rivedere le
immagini finali dei veri protagonisti, con i loro volti che dicono tutto senza
parlare, ci provoca uno sconvolgimento nel cuore e nella testa. E' commozione
pura, che non si può spiegare e che vale più di mille recensioni.
… Rush riesce a
vincere anche contro il proprio regista, tirando fuori da esso il meglio. Se il
titolo fa riferimento esplicito a Hunt, al concetto stesso di brivido, di foga
e fame nel vivere e quindi nel correre (e il film in molti punti, locandina
inclusa, sembra la sua storia non quella di Lauda), da un altro punto di vista
quel secchione che si contrappone al quarterback, quel topo sfortunato e
antipaticissimo per cui nessuno nel film tifa, ha una malinconia e
contemporaneamente una forza umana talmente innegabili (e qui entra in ballo Bruhl, il suo
temperamento il suo modo di essere antipatico senza esserlo davvero) da
riportarlo sotto i riflettori anche contro la volontà del film.
Un dialogone finale tirerà le somme di tutto e chiarirà
intenti e volontà dell'opera, rileggendo (un po' fuori tempo massimo) tutta la
storia. Ma anche senza quello il ritmo e la potenza fisica di Rush, il suo nutrirsi
di veleno in bocca, sangue nei polmoni e forza di uomini fermi in un abitacolo,
urla e dolore ha un grande senso.
da quilunedì 23 settembre 2013
A Simple Plan (Soldi sporchi) - Sam Raimi
prima di tutto una prova straordinaria di Billy Bob Thornton, d'altri tempi.
la storia è quella di una discesa nell'abisso dell'avidità, che danna chi ci cade.
ricorda "Fargo", verissimo, ma anche "Nick e Gino" (un film bellissimo e introvabile, il cui il fratello ritardato era Tom Hulce, in un'interpretazione immensa come quella di Jacob).
la sceneggiatura è perfetta, resti intrappolato senza pietà.
il sogno americano viene demolito e basta pochissimo, appena qualche banconota.
a Mark Twain questo film sarebbe piaciuto molto, secondo me ha collaborato alla scrittura del film, era lì con Sam Raimi.
insomma, se non si è capito, questo film è un capolavoro - Ismaele
.
la storia è quella di una discesa nell'abisso dell'avidità, che danna chi ci cade.
ricorda "Fargo", verissimo, ma anche "Nick e Gino" (un film bellissimo e introvabile, il cui il fratello ritardato era Tom Hulce, in un'interpretazione immensa come quella di Jacob).
la sceneggiatura è perfetta, resti intrappolato senza pietà.
il sogno americano viene demolito e basta pochissimo, appena qualche banconota.
a Mark Twain questo film sarebbe piaciuto molto, secondo me ha collaborato alla scrittura del film, era lì con Sam Raimi.
insomma, se non si è capito, questo film è un capolavoro - Ismaele
.
…Siamo dalle parti di Fargo (la falsa true story dei
Coen) con il quale Soldi Sporchi condivide l'algido registro visivo e la logica narrativa
fondata su un nesso di causa\effetto implacabilmente corrotto, ma dal quale si
distacca per uno stile più rigoroso e asciutto, meno divagatorio e teorico.
Apologo sull'avidità, il film si snoda perfetto e implacabile, mettendo in luce complesse implicazioni etiche (amicizia e rapporti fraterni in corto circuito, sensi di colpa, ipocrisie ancestrali), tratteggiando con accenti autenticamente umani i caratteri, svolgendosi la narrazione con toni di appropriata e asciutta violenza…
Apologo sull'avidità, il film si snoda perfetto e implacabile, mettendo in luce complesse implicazioni etiche (amicizia e rapporti fraterni in corto circuito, sensi di colpa, ipocrisie ancestrali), tratteggiando con accenti autenticamente umani i caratteri, svolgendosi la narrazione con toni di appropriata e asciutta violenza…
…Thornton and Fonda
have big scenes that, in other hands, might have led to grandstanding. They
perform them so directly and simply that we are moved almost to tears--we
identify with their feelings even while shuddering at their deeds.
Thornton's character, Jacob, has watched as
Hank went to college and achieved what passes for success. At a crucial moment,
when his brotherhood is appealed to, he looks at his friend Lou and his brother
Hank and says, "We don't have one thing in common, me and him, except
maybe our last name." He has another heartbreaking scene, as they talk
about women. Hank remembers the name of a girl Jacob dated years ago, in high
school. Jacob revealed that the girl's friends bet her $100 she wouldn't go
steady with him for a month. As for Fonda, her best moment is a speech about
facing a lifetime of struggling to make ends meet.
The characters are rich, full and plausible…
domenica 22 settembre 2013
Tre camere a Manhattan – Marcel Carné
curiosamente nel titolo c’è Manhattan, come in“Deux hommes dans Manhattan”,
di JP Melville, di qualche anno prima, trasferta a New York.
il film di Carné (a differenza del film di Melville) non è
indimenticabile, come non lo è, per i miei gusti, il romanzo di Simenon da cui
è tratto il film.
senza infamia e senza lode - Ismaele
…Il bianco e nero esalta le notti di Manhattan, il
girovagare dei due esseri soli ed angosciati, il loro senso di estraneità alla
vita della metropoli americana. I dialoghi sono però piuttosti scontati, Ronet
è bello ed impassibile, il finale prevedibile.
Marcel Carné ,who was once one of the
finest directors France had ever had ("les enfants du paradis",to
name but one)was having a bad time during the sixties.He was ceaselessly
criticized by the new wave.Instead of filming in his own and brilliant way,he
tried to ape his persecutors."Les tricheurs" was his first attempt in
that direction and it wasn't bad.But "trois chambres à Manhattan "
hit rock bottom.A vague Simenon adapted screenplay ,a dirty cinematography,two
prestigious actors and he might think the job was done.But he tried so hard to
sound like the big boys of the new wave pack that he became some kind of
caricature of it.Maurice Ronet tried here to do a second "feu follet"
(Louis Malle) and his relationship with Girardot was so uninteresting that
weren't it for the actors one would give up after fifteen minutes.Most of the
time,it's an endless dialogue between the two leads who get the lion's share on
the screen.Genevieve Page,for instance ,is hardly given five minutes in the
prologue. The same goes for Roland Lesaffre's implausible pilot.
da quisabato 21 settembre 2013
The Broken Circle Breakdown - Felix Van Groeningen
grande cinema, Felix Van Groeningen è davvero un grande regista, è giovane, i suoi film sono bellissimi, gran belle storie, grandi attori, film profondi, sa divertire, sa muoverti dentro le corde, mai noioso, insomma peggio per chi si perde questo piccolo grande film - Ismaele
Non c'è niente da fare, il Cinema migliore, oggi, in
Europa, quello più originale, arriva da una paese fondamentalmente insulso come
il Belgio. Questo è un melodramma di grande intensità, reso ancora più potente
e implacabile da una colonna sonora incredibile, d'antiche ballate
appalachiane, suonate e cantate direttamente dai due bravissimi
protagonisti, che funzionano da stacco e contrappunto alla vita di Didier e
Elise. Ne esce un film originalissimo, commovente ma mai pietistico o patetico,
in cui il blues diventa ineluttabile come una bella canzone di Townes Van
Zandt. Grandissima sorpresa. Premio del pubblico a Berlino 2013, con una
standing ovation meritatissima.
da qui
… Il trailer presenta molto bene le atmosfere “vive”
del film di Felix Van Groeningen, senza tuttavia rivelare nulla circa la trama.
E se il regista ha così deciso che lo spettatore debba approcciarvisi, io non
intendo ostacolarlo. Mi limiterò a riportare le intenzioni confessate
dall’attore/scrittore belga, ovvero quelle di “raccontare la storia più triste
che si possa raccontare”. E lo fa in maniera assolutamente realistica, ovvero
senza melodrammi nè struggenti violini, bensì con un perfetto 50% di allegria
irrefrenabile e con un country potentissimo. La vita – e qui cito invece le parole
della bravissima Veerle Baetens, cantante e attrice che ha descritto similmente
il suo personaggio – “è bianca e nera, non solo una delle due”. Vi sono tanti
momenti belli quanti quelli tristi nella storia di tutti. E il cerchio rotto a
cui il titolo si riferisce potrebbe essere proprio quello della vita: nascita,
sviluppo, innamoramento, riproduzione, morte. Basta che solo una di queste fasi
non vada per il verso giusto, e tutto si frantuma. Anche la narrazione, che sin
dall'inizio alterna arbitrariamente senza uno schema rintracciabile, episodi
precedenti e successivi al tragico evento incastonato al centro del film.
Eppure sia il montaggio che la narrazione (quella cronologica) continueranno
con maestria a proporci momenti di straordinaria meraviglia e gioia. Il tema
che emerge con particolare vigore è il confronto tra scienza e religione, due
modi di affrontare la vita che porterà i due protagonisti a non essere
d’accordo neanche sul fatto di non essere d’accordo. E il finale è così
grandiosamente, psicologicamente e moralmente contradditorio rispetto a tutto
ciò che era stato costruito durante il film, che non si sarebbe potuto trovare
niente di più “vero”. E ascolterete country a tutto volume per le settimane a
seguire.
da qui
…le casting parfait, ainsi que l’énergie et
la fougue que dégage ce métrage, suffisent pour nous faire oublier cette légère
overdose musicale. D’une beauté vive, "Alabama Monroe" prend aux
tripes, celui-ci évoquant des thèmes face auxquels il est difficile de rester
insensible. Si la réflexion sur la religion et la foi est quelque peu maladroite,
la manière dont est traité le déclin de ce couple face aux différentes
péripéties finit par nous emporter. Les différentes phases qu’ils
traversent, chacun survivant comme il le peut, sont montrées avec une
incroyable justesse, sans aucun faux-semblant. Il serait donc bien dommage de
ne pas se laisser embarquer par cette expérience en raison de quelques
maladresses…
da qui
Non c'è niente da fare, il Cinema migliore, oggi, in
Europa, quello più originale, arriva da una paese fondamentalmente insulso come
il Belgio. Questo è un melodramma di grande intensità, reso ancora più potente
e implacabile da una colonna sonora incredibile, d'antiche ballate
appalachiane, suonate e cantate direttamente dai due bravissimi
protagonisti, che funzionano da stacco e contrappunto alla vita di Didier e
Elise. Ne esce un film originalissimo, commovente ma mai pietistico o patetico,
in cui il blues diventa ineluttabile come una bella canzone di Townes Van
Zandt. Grandissima sorpresa. Premio del pubblico a Berlino 2013, con una
standing ovation meritatissima.
da qui
… Il trailer presenta molto bene le atmosfere “vive”
del film di Felix Van Groeningen, senza tuttavia rivelare nulla circa la trama.
E se il regista ha così deciso che lo spettatore debba approcciarvisi, io non
intendo ostacolarlo. Mi limiterò a riportare le intenzioni confessate
dall’attore/scrittore belga, ovvero quelle di “raccontare la storia più triste
che si possa raccontare”. E lo fa in maniera assolutamente realistica, ovvero
senza melodrammi nè struggenti violini, bensì con un perfetto 50% di allegria
irrefrenabile e con un country potentissimo. La vita – e qui cito invece le parole
della bravissima Veerle Baetens, cantante e attrice che ha descritto similmente
il suo personaggio – “è bianca e nera, non solo una delle due”. Vi sono tanti
momenti belli quanti quelli tristi nella storia di tutti. E il cerchio rotto a
cui il titolo si riferisce potrebbe essere proprio quello della vita: nascita,
sviluppo, innamoramento, riproduzione, morte. Basta che solo una di queste fasi
non vada per il verso giusto, e tutto si frantuma. Anche la narrazione, che sin
dall'inizio alterna arbitrariamente senza uno schema rintracciabile, episodi
precedenti e successivi al tragico evento incastonato al centro del film.
Eppure sia il montaggio che la narrazione (quella cronologica) continueranno
con maestria a proporci momenti di straordinaria meraviglia e gioia. Il tema
che emerge con particolare vigore è il confronto tra scienza e religione, due
modi di affrontare la vita che porterà i due protagonisti a non essere
d’accordo neanche sul fatto di non essere d’accordo. E il finale è così
grandiosamente, psicologicamente e moralmente contradditorio rispetto a tutto
ciò che era stato costruito durante il film, che non si sarebbe potuto trovare
niente di più “vero”. E ascolterete country a tutto volume per le settimane a
seguire.
Fortunatamente, la colonna sonora è già
reperibile su youtube. Mi sento di suggerirvi questa, forse la più ritmicamente
variegata che riflette bene tutti i mood presenti nel
film:http://www.youtube.com/watch?v=wTQi-xdD6CI.
Lottate per far uscire questo film nei cinema di
tutto il mondo!
da qui
…le casting parfait, ainsi que l’énergie et
la fougue que dégage ce métrage, suffisent pour nous faire oublier cette légère
overdose musicale. D’une beauté vive, "Alabama Monroe" prend aux
tripes, celui-ci évoquant des thèmes face auxquels il est difficile de rester
insensible. Si la réflexion sur la religion et la foi est quelque peu maladroite,
la manière dont est traité le déclin de ce couple face aux différentes
péripéties finit par nous emporter. Les différentes phases qu’ils
traversent, chacun survivant comme il le peut, sont montrées avec une
incroyable justesse, sans aucun faux-semblant. Il serait donc bien dommage de
ne pas se laisser embarquer par cette expérience en raison de quelques
maladresses…
da qui
.. Une ode à la vie, en quelque sorte. Pour autant,
Félix Van Groeningen ne cherche jamais à édulcorer la réalité. La maladie de
Maybelle est montrée de façon concrète (fatigue chronique, traitements à
répétition, perte de cheveux…) ; l’impuissance de Didier et Elise, qui
finit par mettre en danger leur couple, jamais passée sous silence. Souvent éprouvant, toujours émouvant, Alabama Monroe est de ces films qui continuent à vous
habiter bien après les avoir découverts…
…Parfait dans sa
première partie, le film patine peut-être un peu pour trouver sa conclusion,
mais l’ensemble reste parfaitement maîtrisé et la sincérité des acteurs est une
réussite presque troublante. Alabama Monroe n’est
pas un projet autobiographique pourtant, mais un récit de fonction extrêmement
bien écrit. On ressort un peu soufflé après ce long-métrage intense, mais on ne
regrette en aucun cas de l’avoir vu : à ne pas rater!
da quigiovedì 19 settembre 2013
mercoledì 18 settembre 2013
L’arbitro – Paolo Zucca
un
esordio davvero maturo, non sarà perfetto, ma non importa.
ci
ho visto una storia di due mondi diversi, lontani, quello ricco e corrotto, che
comanda, di morti viventi, quello umile, ruvido, difficile, ma vivo, chissà,
una metafora.
ma
quello che mi è piaciuta di più è la storia dei poveri, calda, eroica, dell’eroismo
dei poveri, è realismo magico applicato, se non sapessi che è la Sardegna,
potrebbe essere, senza nessuna forzatura, la storia di due villaggi vicino a
Macondo, o sulle Ande peruviane di Scorza o nel profondo Messico.
c’è
tanto dentro, in una sceneggiatura con tempi che non annoiano mai.
e
il personaggio di Accorsi (che ha onorato il cinema in “Capitani d’aprile”,
film epico), unico legame fra i due modi, è quello di uno inadatto dappertutto,
ma solo in terza categoria riesce a sorridere, alla fine.
una
lode speciale per Benito Urgu, che interpreta Prospero l’allenatore cieco e
Jacopo Cullin, che interpreta Matzutzi, alla fine c’è una bellissima citazione
di Amarcord.
guardatelo
e godetene tutti, nessuno resterà deluso, anzi - Ismaele
Uno strano e spiazzante oggetto
cinematografico. Due storie parallele di calcio – una del pallone ricco e
maggiore, l’altra di quello acciaccato e periferico – che finiranno con
l’incrociarsi. Toni da farsaccia che ricordano il mitologico L’allenatore nel pallone con Lino Banfi, e però messinscena
rigorosamente alto-autoriale, con un bianco e nero panoramico come nei grandi
film anni Sessanta, e con molti, molti debiti verso Ciprì e Maresco (e anche
Pietro Germi). Tentativo audace e spericolato di mescolare davvero l’alto e il
basso. Ma l’operazione non riesce, impossibile unire commediaccia anni Settanta
e rigore alla Dreyer, qualcosa non funziona, non quaglia. Ma L’arbitro resta un film differente, da rispettare…
…al di là dei nomi
più o meno roboanti di un cast comunque molto azzeccato L'arbitro è
un'opera notevole soprattutto per le scelte registiche del talentuoso Paolo Zucca, che riesce a realizzare una commedia italiana elegante e con un elevatissimo tasso
artistico, come si vede davvero assai di rado.
Il registro comico riesce nell'impresa miracolosa di
restare sempre elevato, senza scadere nel trash o nell'infimo, bensì svariando
tra stile burlesco, grottesco ed epico.
Burlesco per la scelta del soggetto generale: la rivalità tra due squadre
di calcio di infimo livello della terza categoria sarda. Si racconta il
sentimento di una comunità intera che trova nelle piccole gioie di una domenica
di pallone la ricerca di sensazioni genuine, dandogli a tal punto importanza da
dedicare ad esse comizi improvvisati in piazza e discussioni accese anche
durante i funerali…
Uno dei film d’esordio più memorabili degli ultimi anni,
soprattutto per quel che riguarda l’Italia. Paolo Zucca, già vincitore del
David di Donatello per il miglior cortometraggio (l’omonimo “L’arbitro”, di cui
questo film è lo sviluppo), irrompe sulla scena cinematografica nazionale con
una commedia grottesca, ma al tempo stesso raffinata, elegante, girata con uno
straordinario gusto per le immagini (e con l’eccellente fotografia in bianco e
nero firmata da Patrizio Patrizi). Un film sì leggero, a tratti comico, ma
anche epico, solenne. Si potrebbe parlare di una sorta di parabola del gioco
del calcio, dalle ambizioni di un arbitro internazionale (Stefano Accorsi) fino
alla sgangherata rivalità di due squadre della terza categoria sarda, il
livello calcistico più infimo in Italia. In realtà Zucca racconta sogni e
desideri di uomini diversi tra loro, la passione di un piccolo paese di
provincia, il bisogno di riscattare una vita d’umiliazioni attraverso il senso
dello sport, la gioia del pallone, il bisogno di qualcosa a cui attaccarsi per
uscire dalla bassezza della vita di provincia. E infine racconta,
inevitabilmente, l’amore…
…Nel complesso insomma il film è convincente e se pur
non supera il tradizionale limite del cinema italiano, la scrittura rigorosa,
fa ben sperare per una prossima produzione più focalizzata sulla storia da
raccontare e meno prona agli elementi decorativi e agli imperativi di
"valorizzazione del territorio" che stanno imponendo le co-produzioni
delle varie Film Commission e che scadono spesso in quei fastidiosi
"effetti cartolina".
Piacevolmente imperfetto.
da quiPiacevolmente imperfetto.
lunedì 16 settembre 2013
Che Strano Chiamarsi Federico - Ettore Scola
più che un omaggio è un atto d'amore, e un film di grande bellezza.
chi non va al cinema a vedere questo film dovrà portare la giustificazione, senza imbrogliare.
come diceva Vulvia (Corrado Guzzanti): sapevatelo! - Ismaele
chi non va al cinema a vedere questo film dovrà portare la giustificazione, senza imbrogliare.
come diceva Vulvia (Corrado Guzzanti): sapevatelo! - Ismaele
…Il
film è un susseguirsi di fiction e immagini di repertorio, alternando bianco e
nero e colore, sempre sospeso tra poesia e racconto. Certo lo stile di Scola (e soprattutto i suoi tempi filmici) sono un po' desueti, e
in certi parti la narrazione assomiglia più a un buon sceneggiato televisivo
piuttosto che a un film, ma Che strano chiamarsi Federico ha
il merito di riportarci indietro nel tempo all'età d'oro del cinema italiano, e
di far conoscere quell'epopea ai giovani spettatori (che speriamo trovino il
tempo, la voglia e gli stimoli per andare a vederlo). Un'epoca forse
irripetibile, inimmaginabile ai tempi nostri, di cui queste immagini e questo
film contribuiscono a tenere vivo il ricordo. E che anche solo per questo
merita la visione.
…Non c'è abbandono al nostalgismo di epoche dorate
perdute, se pur facile approdo per tutti e sovrappiù per chi ha vissuto la
floridezza di un vivaio culturale come il Marc'Aurelio, di cui Scola dà una
fervida riproduzione su schermo, né si tratta di un articolato e furbastro
tentativo autoreferenziale, semmai un intimo omaggio - lo spettatore può
sentirsi come l'usurpatore di una confessione privata - dall'ambivalenza
autobiografica, fruita in terza persona. L'idea di utilizzare lo Studio 5 di
Cinecittà, dove Fellini aveva la sua "seconda casa" e una folla
commossa nel 1993 l'aveva salutato per l'ultima volta, e ancora la trovata di
farlo parlare attraverso la sua voce, i suoi personaggi e le suggestioni della
sua poetica che ammanta ogni cosa, finanche il finale; tutto concorre a fare di
quei 90 minuti trascorsi in sala, non un film, ma il lungo abbraccio di due
amici al ritrovarsi alla fine di un viaggio. E regala a Fellini l'uscita di
scena che - probabilmente - avrebbe sempre voluto.
Il film di Ettore Scola dedicato al ricordo dell’amico
Federico Fellini funziona come il racconto di un nonno fatto al nipote seduto
sulle proprie gambe. Una rievocazione alla quale si perdonano lentezze e
lacune, che ci commuove per l’uso della prima persona, per il trasporto e la
tenerezza con la quale torna alla propria gioventù e agli anni passati, ma che
ci inchioda alla poltrona se il nostro vissuto è distante troppe decadi dai
fatti che scorrono, come sogni, sullo schermo…
da
quidomenica 15 settembre 2013
Enter the Void - Gaspar Noé
premetto che l'ho visto in tre volte, tutto insieme era troppo(!)
dentro c'è molto, ricorda qualcosa del "Tree of life" di Malick, i bambini e i genitori, per esempio, coincidenza che come in "Holy motors" il protagonista si chiami Oscar (ma il film di Carax è tutta un'altra cosa), ci sono questi occidentali a Tokyo, anche in "Lost in translation" Tokyo è lo sfondo, qualcuno dice che è un capolavoro, altri che ci sono 140 minuti (su 150) di troppo.
c'è il libro tibetano dei morti, c'è una vita dopo la morte, tanta disperazione, nessuno è felice mai, se non nella meccanica degli amplessi.
se questo film fosse nel Voyager saremo sicuri che nessuna civiltà aliena verrebbe sulla Terra.
è un film da vedere, ma se mi chiedessero se mi è piaciuto non saprei come rispondere, troppo estremo, o forse sono troppo vecchio per estetiche post troppe cose - Ismaele
dentro c'è molto, ricorda qualcosa del "Tree of life" di Malick, i bambini e i genitori, per esempio, coincidenza che come in "Holy motors" il protagonista si chiami Oscar (ma il film di Carax è tutta un'altra cosa), ci sono questi occidentali a Tokyo, anche in "Lost in translation" Tokyo è lo sfondo, qualcuno dice che è un capolavoro, altri che ci sono 140 minuti (su 150) di troppo.
c'è il libro tibetano dei morti, c'è una vita dopo la morte, tanta disperazione, nessuno è felice mai, se non nella meccanica degli amplessi.
se questo film fosse nel Voyager saremo sicuri che nessuna civiltà aliena verrebbe sulla Terra.
è un film da vedere, ma se mi chiedessero se mi è piaciuto non saprei come rispondere, troppo estremo, o forse sono troppo vecchio per estetiche post troppe cose - Ismaele
…Ho sempre
considerato Gaspar Noé un fuoriclasse e ciò è stato immancabilmente confermato dall'accoglienza negativa che hanno
ricevuto i suoi film dalla critica togata. I critici servono soprattutto a
quello...se schiantano un film fuori dai canoni, stai pur certo che è
imperdibile (Aristakisjan docet),
pensate che anni fa leggevo la Bignardi su Repubblica per andare a vedere i
film che lei criticava aspramente, ben certo di imbattermi sicuramente in
capolavori...e questo Enter the Void è indubbiamente un cristallino capolavoro...
…Non si fa mancare nulla, continuando ad insistere su accostamenti ridicoli (lui che si fa la mamma di un amico, gli bacia il seno e come per magia ritorna bambino mentre succhia il latte dal seno materno...), per poi andare sulle montagne russe (tanto per far venire un altro po' il mal di mare...). Nel frattempo il corpo è pronto per essere cremato: l'anima torna un attimo a “casa” giusto in tempo per vedere la propria “ex-casa” andare in fiamme e continuare il proprio viaggio all'interno dell'urna cineraria. La confusione prende il sopravvento, e quello che per un'ora sarebbe stato un materiale potenzialmente anche interessante, diventa totalmente insopportabile nella sua durata sproporzionata. Troppe, inutili, reiterate, fastidiose le storie eccessive che vanno avanti anche parallelamente, soprattutto quelle familiari. L'ennesima incursione folle Noé, la riserva verso la fine. La sua anima/soggettiva entra persino all'interno di un feto. Qui si rompe il giocattolo, avviene quella frattura che separa nettamente lo spettatore dalla materia filmata. Rimane solo un cinema lancinante, che non respira, se non per boccate innaturali, e un florilegio di tecnica e di soldi sprecati che raramente ci era capitato di vedere.
…il film di
Noé è un perfetto esempio di cinema postmoderno, almeno nei termini in cui
viene inteso da Laurent Jullier, il quale attribuisce alla postmodernità
filmica proprio i connotati di immersività e plurisensorialità. Per Jullier il cinema postmoderno non produce senso, ma sensazioni. Mette l’accento sul piacere fisico delle forme e dei
colori invece di porlo sul piacere intellettuale della conoscenza. Dunque, alla
fine quello che sembra domandare Enter
the void non è tanto di essere compreso quanto
sentito. Del resto non si potrebbe fare altrimenti perché, come scrive Canova
«quanto più le dita acquistano la capacità di osservare, tanto più la vista la
perde, e abdica al suo ruolo di conoscenza e valutazione. Il visibile cede
al tattile» (Canova 2004, p.47).
…la domanda di fondo resta ed è assillante: qual è
l’essenza di un film puramente controverso come “Enter The Void”? In altri
termini, cosa rappresenta il “vuoto” per Gaspar Noè? Che sia un viaggio di sola
andata verso un inferno evolutosi in un trip di effetti visivi digitali e
computerizzati? O è forse un limbo tra la vita e la morte in cui il corpo
fluttua alla ricerca di un voyeurismo innato? O ancora coincide con una
predisposizione nichilista dell’uomo che, assuefatto dalla droga, lo porta a
demolire famiglia e valori, oltre alla propria vita? Se “Enter The Void” è un
film che va vissuto come un’esperienza sensoriale straordinaria, è al contempo
facile denotarne la sua sterile efficacia in ambito di scrittura. Gli archetipi
si avviluppano in un’accozzaglia di messaggi mistici sull’aldilà (il libro
tibetano dei morti, il tema della reincarnazione), in una sorta di inno alla
sensorialità prodotta dall’uso degli stupefacenti, in un complesso edipico che
è la causa di latenti incesti fraterni, in un’ostentazione del proibito che
sfida pornografia e gore. L’eccesso dell’eccesso rischia di sfiorare
addirittura il ridicolo quando il regista cade nel tranello del citazionismo
(l’epilogo allude chiaramente all’odissea spaziale di Kubrick, lo spettacolo
cromatico sembra essere una visione alternativa, deforme e sventurata a quella
evocata nell’albero della vita di Malick). Il tutto racchiuso in una durata
(anch’essa all’insegna dell’eccesso) che supera i 150 minuti…
…I tre
locali che compaiono nel film, Il “The Void”, il “Sex Money Power” e il “Love
Hotel”, altro non sono che i tre paradigmi di una trinità (droga denaro e
sesso) che si è sostituita a quella religiosa (ecco la scelta di uno sguardo
“divino e immanente” della ripresa) e sono tre non-luoghi in cui si
materializza la fuga dell’uomo contemporaneo da una vita troppo carica di
responsabilità e di bisogni per poter essere sopportata senza il ricorso
all’uso della droga. Il Love Hotel, teatro della lunga sequenza acida e
stroboscopica infarcita di riferimenti huxleyani e di richiami hard, è uno
spazio ctonio in cui il sesso si materializza nella sua forma più immaginifica,
cioè come una visione infernale/celestiale e fantascientifica, in cui i
genitali pulsano di luce colorata e gli amplessi orgiastici appaiono percorsi
da squarci allucinatori e psichedelici. La sequenza, che altro non è che una
sorta di ampliamento del videoclip hard Protege-Moi
girato da Noé nel 2003 per il gruppo rock dei Placebo, mostra gli esseri
umani intenti nella consumazione di una sessualità compulsiva e asettica,
pornografica perché svuotata di ogni emozione, e rappresenta il termine del
viaggio prima della morte e (ri)nascita. L’ “albergo dell’amore” viene dopo il
“go go club del denaro” e il “vuoto della droga”, e i tre locali, altro non
sono che la rappresentazione della catena con cui l’individuo è legato al
dolore dell’esistenza…
…Quello
di Noé è un film singolare quanto autoindulgente, trasfigurato all’eccesso, che
mostra per più di due ore e mezza la strenua volontà di mettere in scena ciò
che normalmente non si può vedere. Il risultato, però, porta più all’evidenza
dell’idea che all’effettiva riuscita della stessa, e la provocazione è così
ostentata da raggiungere spesso il ridicolo. Gaspar Noé filma qualcosa di non
preesistente nel mondo cinematografico, ma il sospetto è che la lacuna fosse
dovuta non a mancanza di coraggio o di inventiva, quanto alla scarsa necessità
di questa vacua sperimentazione.
…Enter
the void attraversa
in maniera sublime gli abissi della coscienza, colpisce con immagini crude e un
andamento narrativo che s’impenna fino allo scontro agghiacciante tra ricordi;
un’orgia di immagini, non solo per l’esplicita presenza del sesso, ma per la
fusione, per la sospensione di ogni forma e di ogni distanza; un film dove i lati
oscuri dell’esistenza restano intrappolati in un vortice senza fine che
custodisce l’eterno ritorno della morte e della possibile reincarnazione dove,
al di là di ogni sostanza stupefacente, la distorsione percettiva comincia già
col mistero della nascita.
…debo decir que hay
un video musical realizado a fines de los noventa por el director sueco Jonas
Akerlund para la agrupación británica Prodigy llamado Smack My Bitch Up, de
fácil localización en You Tube o Dailymotion, pero con las restricciones de
acceso oportunas al caso, en el cual se representa una noche de excesos por las
calles y clubes de Londres, filmada desde la subjetiva de un fiestero
descontrolado, con desdoblamiento de identidad y todo. El video dura apenas
cuatro minutos y medio.
sabato 14 settembre 2013
Le radici junghiane del cinema italiano d'Autore - Amedeo Caruso
Intervista a Vittorio De
Seta, il regista dell'Ombra
L’avventurosa
storia del Cinema Italiano d’Autore percorre itinerari che non sempre passano
per le autostrade intitolate a Fellini o Antonioni, o superstrade a tre corsie
denominate Visconti e Bertolucci. Esistono sentieri, (gli americani le chiamano
strade blu), che conducono il viaggiatore verso panorami inusitati e bellezze
nascoste che soltanto chi vuole imparare a viaggiare può conoscere. Per questo
motivo da anni ormai davo la caccia a un film introvabile e importantissimo,
secondo me, dal titolo “Un uomo a metà” di Vittorio De Seta. Pur possedendone
la sceneggiatura sapevo che il film era abbastanza diverso dallo script e
pertanto ero curiosissimo di vederlo. Qualche anno fa avevo chiesto anche
l'aiuto a quel nuovo e caro amico che è il regista Fabio Carpi, poiché egli ha
collaborato alla sceneggiatura del medesimo. Sebbene Carpi sia stato
generosissimo e disponibile con i suoi film, non aveva una copia della
pellicola in questione e neppure notizie di De Seta da molto tempo. Ero
riuscito ad appurare soltanto che viveva da qualche parte in Calabria e nessuno
sapeva di più, né telefono né indirizzo. La ragione per la quale ero cosi
ansioso di vedere il film e conoscere il regista era dovuta al fatto che,
conversando con il mio amico e maestro Aldo Carotenuto, anni orsono ero venuto
a conoscenza che De Seta conosceva bene il maestro di Carotenuto, di Fellini e
di tanti altri intellettuali e psicologi e medici e scrittori che orbitavano
nel mondo artistico e psicoanalitico della Capitale negli anni '50-'60.
Carotenuto nel suo libro Jung e la cultura italiana riporta una amabile
conversazione con Fellini durante la quale viene citato un amico e collega di
Federico, il regista De Seta, per merito del quale l'artista riminese è entrato
in contatto con Ernst Bernhard, il medico ebreo allievo di Jung che era fuggito
in Italia ai tempi della persecuzione nazista…
giovedì 12 settembre 2013
I clowns – Federico Fellini
un documentario (così viene classificato) di Fellini è sempre un film di Fellini.
qui c'è la pietas e il divertimento, il racconto di un mondo che muore e il piacere delle cose semplici, il riso e il pianto.
imperdibile - Ismaele
qui c'è la pietas e il divertimento, il racconto di un mondo che muore e il piacere delle cose semplici, il riso e il pianto.
imperdibile - Ismaele
…Fellini's playful but slightly melancholy
work shows a way in the world has changed; clowns are still around, but they
are overshadowed to the point we might not even realize it. Fellini longs for
the aging clowns to be replaced by glorious new ones so future generations can
have wondrous experiences similar to the ones he recreates, but if nothing else
he's done the world the best service he could, preserving for all eternity some
of the masters who keep us from becoming too serious.
…A great
deal of energy has been expended trying to label The Clowns as a "minor" Fellini movie,
and the distinction was important at the time, since Fellini had elevated
himself to the status of the world's most celebrated and admired filmmaker.
(His last name began to appear at the front of his film titles.) But now that
that has all blown over, The
Clowns can be seen and
enjoyed for what it is. It's a simple, sweet tribute to something that Fellini
loved and felt didn't get enough attention…
… Whether
read as universal or personal (or both), The
Clowns’ marriage of yin and yang is all the more impressive for embracing
a pathos largely out of fashion amidst the heavily political,
deconstructionist, and antispectacle art cinema of the late Sixties/early
Seventies. This is where The
Clowns fails for some: where La Strada and other earlier successes develop
pathos from dramatic situations and fully rounded characters, The Clowns slips into sentimentality by turning
to an unearned, last-second pathos that cancels out the film’s previous
pluralistic and unresolved approaches toward its subject. Here it isn’t very
hard to disagree. Fellini may not be working with three-dimensional characters
or a conventionally structured narrative in The
Clowns, but nonetheless
understands his subject as a source and symbol of a pathos, one that can
provide the proper counterweight to art cinema’s tendency toward purely
intellectual concerns and methods. Perhaps that’s what makes The Clowns so powerful: it not only longs for but
also enacts an amalgamation of low comedy and high experimentation, personal
essay and documentary-like journalism that in a perfect world would be both
popular and challenging, fun and thought-provoking. The Clowns is not only nostalgic for a lost
world, but also excitedly proposes a utopian art.
…'I clowns' (1970), una producción televisiva
(programada el día de Navidad, y estrenada en los cines al día siguiente), es
otro rutilante derroche de ingenio y agudeza,en donde ficción y documento,
poesía, prosa y ensayo, se entreveran de un modo sorprendente, como si las
múltiples capas de lo 'real' se conjugan con los múltiples ángulos de 'la
mirada'. El escenario queda manifiesto en las primeras secuencias, el 'entre'.
Un afuera que es una carpa de circo, evidenciada como maqueta, que se erige en
un amanecer, frente a la ventana de un niño, del 'yo', que no es otro que la
representación del propio Fellini (cuya voz conduce la narración). Una
representación en una pista de circo, tétrica, sombría, como sombras turbias,
da paso a la primera equparación (paralelismo) con la realidad, en el espacio
de la evocación, pues Fellini apunta la comparación entre aquellos payasos de
la pista y una serie de personajes que conoció en la realidad cotidiana, seres
de la misma estirpe, grotescos. Es el espacio de la evocación, y es el espacio
de la imaginación: esa forma de encuadrar la realidad, de (re)componerla (de
disponer las figuras en el encuadre), esos rostros tan singulares que sólo
parecen habitar la pantalla felliniana; unos pasajes que parecen anuncio de la
inminente 'Amarcord' (1973).
da quimartedì 10 settembre 2013
Keby som mal pusku (If I Had a Gun) - Stefan Uher
la guerra vista con gli occhi dei bambini, fra tedeschi e partigiani, con tutta la crudeltà del caso.
non ti annoi un attimo, merita, merita- Ismaele
non ti annoi un attimo, merita, merita- Ismaele
…Tout d’abord, le
réalisateur évoque une fois de plus la Seconde Guerre mondiale – thème obsédant
pour qui connaît sa filmographie – et règle ses comptes avec un peuple slovaque
qui a pactisé avec le fascisme par antisémitisme primaire (le dialogue des gamins
qui se font l’écho de ce qu’ils entendent à la maison sur les juifs est assez
parlant). Uher dénonce donc la duplicité de nombre de ses concitoyens, capables
de servir le régime fasciste, tout en aidant de temps à autre les partisans qui
résistent. Enfin, le réalisateur profite de cette chronique douce-amère sur la
transformation d’un gamin en jeune homme pour se livrer à quelques belles
prouesses techniques. Il utilise ainsi un nombre conséquent de plans-séquences
avec multiples changements d’axe, tout en ayant à gérer de nombreuses actions
en même temps.
Cette réalisation très fluide est pour beaucoup dans le plaisir pris par le spectateur devant ce spectacle riche de sens. Le noir et blanc très contrasté qui a été réalisé par quatre chefs opérateurs différents fait de Si j’avais un fusil (1971) une œuvre picturale magnifique qui enchante la rétine. Une occasion supplémentaire de redécouvrir ce cinéaste majeur.
Cette réalisation très fluide est pour beaucoup dans le plaisir pris par le spectateur devant ce spectacle riche de sens. Le noir et blanc très contrasté qui a été réalisé par quatre chefs opérateurs différents fait de Si j’avais un fusil (1971) une œuvre picturale magnifique qui enchante la rétine. Une occasion supplémentaire de redécouvrir ce cinéaste majeur.
Keby
Som Mal Pusku (1972) aka If I Had a Gun is
an anti-war themed film exploring the impact of war on children. The action
takes place in a small Slovenian village where, despite the ongoing conflict
(WWII), children play soldiers, dream of adventures and get into mischief.
Vlado (Marián Bernát), a 12-year-old boy, dreams of
owning a real rifle – a rifle that would bring him the respect of his peers and
instill fear in the occupying German forces. He is disappointed when the
partisans recruit his best friend Victor (who can now have as many guns as he
wants), while he has to remain in the village.
One day
Vlado’s uncle gives him a rifle. He has to keep it hidden as the Nazi
brigades have explicitly forbidden, under the threat of severe punishment, any villager to possess a weapon that helps the partisans in any way. The
boy is excited and daydreams of how he can become a liberator of his Fatherland
– until one day a Nazi patrol sees him in the woods and, under accusations of
being a traitor, Vlado faces cruel death from a firing squad of German soldiers…
lunedì 9 settembre 2013
Brodeuses (Le ricamatrici) - Éléonore Faucher
due bravissime attrici, una giovane (Claire/Lola Naymark) e l'altra un mostro sacro (Madame Melikian/Ariane Ascaride) incrociano le loro due solitudini e riescono a credere in qualcosa, nel futuro.
un film di quelli che ti conquistano, da (ri)cercare, sarà una bella sorpresa - Ismaele
…Film d’esordio, premiato alla Settimana della critica di Cannes 2004, è la storia di un doppio apprendistato e di uno scambio. In casa Melikian Claire impara un mestiere e le sue sfumature, ma anche a entrare in rapporto col mondo, ad accettare la vita. Salva la sua maestra da un tentativo di suicidio dopo la morte recente dell’unico figlio maschio e in cambio impara da lei ad amare il bambino che le cresce nel ventre. La riuscita di questo film tattile all’insegna di una semplicità concisa e meticolosa nasce anche dalle 2 interpreti che fanno pensare a un accostamento di colori: il rosso dei capelli di L. Naymark, con la sua selvatica e maliziosa energia, si sposa con la sagoma funerea di A. Ascaride. Se mai esiste una scrittura femminile nel cinema, Le ricamatrici ne è un esempio…
un film di quelli che ti conquistano, da (ri)cercare, sarà una bella sorpresa - Ismaele
…Film d’esordio, premiato alla Settimana della critica di Cannes 2004, è la storia di un doppio apprendistato e di uno scambio. In casa Melikian Claire impara un mestiere e le sue sfumature, ma anche a entrare in rapporto col mondo, ad accettare la vita. Salva la sua maestra da un tentativo di suicidio dopo la morte recente dell’unico figlio maschio e in cambio impara da lei ad amare il bambino che le cresce nel ventre. La riuscita di questo film tattile all’insegna di una semplicità concisa e meticolosa nasce anche dalle 2 interpreti che fanno pensare a un accostamento di colori: il rosso dei capelli di L. Naymark, con la sua selvatica e maliziosa energia, si sposa con la sagoma funerea di A. Ascaride. Se mai esiste una scrittura femminile nel cinema, Le ricamatrici ne è un esempio…
… Eléonore
Faucher sait décidément ce qu'elle fait. Chaque plan, chaque lumière, chaque
seconde devient une petite merveille pour les yeux et pour le cœur. On déborde
de joie en voyant Claire s'envoler au vent des chansons de Louise Attaque, on
partage son angoisse face à cette grossesse non-désirée. La toute jeune Lola Naymark montre à la perfection que le
métier d'actrice est décidément fait pour certains.
…alcuni critici hanno definito "Le
ricamatrici" un film post kieslowskiano. Questa somiglianza salta
all’occhio osservando lo stile (l’importanza degli oggetti simbolici, le
corrispondenze, i colori ed i riflessi) ed i contenuti (il delicato racconto
dei vissuti, i temi sociali affrontati senza retorica). Ci sono poi dei
parallelismi più profondi tra la storia di Claire in "Le ricamatrici"
e di Anka in "Onora il padre e la madre"…
Con il suo primo lungometraggio, premiato alla Semaine de la
Critique di Cannes 2004, Eléonore Faucher mostra che è possibile fare un film
di sentimenti senza finirne preda. L’ennesima storia di edulcorata sorellanza
si tramuta, nelle mani della regista, nel telaio di una messinscena di
ghiacciato e vivido splendore: in un paesaggio livido, in magico equilibrio fra
il peso della realtà e l’astrazione del sogno, un pugno di personaggi affronta
in muto e febbrile isolamento l’elaborazione di un lutto (diversi lutti, a dire
il vero, ma intimamente connessi: la gravidanza di Claire è frutto di un incidente al pari della morte del figlio della
signora Mélikian, morte di cui si sente responsabile il giovane Guillaume, non
indifferente allo schivo fascino di Claire)…
…The imagery of a
scarved Claire working alongside Madame Melikian conjures up Vermeer and Lola
Naymark, making her debut in a leading role, would have made an apt pupil for
the Dutch master. She gives an extraordinary performance and will undoubtedly
have French talent scouts knocking at her door. Alongside French veteran Ariane
Ascaride, the unorthodox relationship comes alive and will provide a treat for
anyone longing for a look at the quieter, yet infinitely interesting, side of
life.
Infancia clandestina - Benjamín Ávila
sono ormai numerosi i film ambientati nel periodo della dittatura argentina della seconda metà degli anni '70, tutti necessari.
alcuni, come questo, raccontano con lo sguardo di un bambino l'enormità del dramma che si viveva.
Juan/Ernesto è il protagonista, ha come "consigliere" lo zio Beto (bravissimo), che assomiglia molto a Frank Zappa (una coincidenza, ma bella).
le scene violente sono a fumetti, una scelta perfetta.
se arriva nella vostra città, non fatevelo scappare, non ve ne pentirete - Ismaele
alcuni, come questo, raccontano con lo sguardo di un bambino l'enormità del dramma che si viveva.
Juan/Ernesto è il protagonista, ha come "consigliere" lo zio Beto (bravissimo), che assomiglia molto a Frank Zappa (una coincidenza, ma bella).
le scene violente sono a fumetti, una scelta perfetta.
se arriva nella vostra città, non fatevelo scappare, non ve ne pentirete - Ismaele
...Una parte della storia dell’Argentina
viene restituita attraverso gli occhi di un bambino, fin troppo maturo per la
sua giovane età ma allo stesso tempo ancora troppo giovane per poter capire le
implicazioni delle azioni sue o degli altri. Così,
riesce ad accettare di buon grado la prospettiva di cambiare completamente
identità, diventando per tutti Ernesto; si stupisce quando i suoi nuovi
compagni di classe gli intonano una canzone di “buon compleanno” in un giorno
che a lui non dice nulla ma che fa fede al suo nuovo documento; riesce a far
rientrare nella sua vita diversa la normalità di una festa. La sua è
semplicemente una vita diversa. Anche il giovane amore con Maria, la sorella di
un suo amichetto, viene vissuta con la goffezza di un ragazzino e la
risolutezza di un adulto, riuscendo allo stesso tempo a commuovere e a far
sorridere. Ruolo non da
protagonista ma sicuramente predominante è quello di zio Beto, magistralmente
interpretato da Ernesto Alterio. L'uomo, infatti, sembra essere una sorta di
alter ego di Juan: mentre il piccolo affronta la vita con gli occhi da adulto,
zio Beto riesce a lanciarsi nella mischia con l’innocenza di un bambino,
cogliendo il senso più profondo della capacità di disfrutar (che non ha una traduzione
univoca in italiano, ma si avvicina al concetto di “godere di ogni momento”). E per concludere, quando la violenza potrebbe ferire gli
occhi, le immagini si trasformano in una sequenza di disegni, come se quelle
scene non fossero state vissute ma facessero parte di una storia a fumetti. Questo film ha tutte le carte in
regola per poter fare strada.
…Infanzia Clandestina pone domande complesse e non dà risposte, se non
nell'insegnamento fondamentale che il magnetico zio Beto, anche lui
guerrigliero, tramanda al nipote Juan, esortandolo a non tradire mai se stesso,
qualunque cosa decida di fare nella vita.
Al valore di tematiche così importanti si aggiungono meriti squisitamente cinematografici: un cast sempre all'altezza del difficile compito, una sceneggiatura ben scritta - che sa far ridere e piangere subito dopo, senza mai appesantire, anche nelle situazioni più drammatiche - e una regia sicura, non invadente, ma capace di soluzioni peculiari, come l'uso del disegno animato nelle sequenze più violente, quelle che la mente di un bambino non può concepire, persino quando i suoi occhi ne diventano testimoni innocenti.
Al valore di tematiche così importanti si aggiungono meriti squisitamente cinematografici: un cast sempre all'altezza del difficile compito, una sceneggiatura ben scritta - che sa far ridere e piangere subito dopo, senza mai appesantire, anche nelle situazioni più drammatiche - e una regia sicura, non invadente, ma capace di soluzioni peculiari, come l'uso del disegno animato nelle sequenze più violente, quelle che la mente di un bambino non può concepire, persino quando i suoi occhi ne diventano testimoni innocenti.
…Quello che davvero convince di questo film è però la
complessità di relazioni e temi che riesce a fare affiorare senza mai
sbattertela in faccia con discorsi esplicativi e pomposi, senza mai cercare
facili scappatoie e soluzioni semplicistiche. Con estrema delicatezza e
naturalezza, attraverso scene costruite in modo semplice e diretto e
fotografate con maestria da Ivan Gierasinchuk, seguiamo la storia di un bambino
costretto a crescere prima del tempo, e le scelte sofferte e consapevoli di
genitori che, vivendo nella clandestinità, portano con sé anche i figli nella
lotta per i propri ideali. Una complessità che non vuole cercare prese di
posizione, ma rispecchia semplicemente l'affacciarsi del protagonista all'età
adulta.
Infancia Clandestina è stato per me la sorpresa di questo Festival di Cannes e, due anni dopo Il segreto nei suoi occhi, una nuova conferma del valore del cinema argentino oggi.
Infancia Clandestina è stato per me la sorpresa di questo Festival di Cannes e, due anni dopo Il segreto nei suoi occhi, una nuova conferma del valore del cinema argentino oggi.
Il film è stato seguito in sala da dieci minuti di standing
ovation. Se bastasse questo a garantirgli una distribuzione in Italia...
…Il primo lungometraggio a soggetto di Benjamin Avila,
figlio di una desaparecida,parla
del retroterra umano dell’ideologia militante, della necessità di essere
uomini, prima che soldati. Questa è la parte più difficile della missione, ma è
parte integrante dell’obbligo a non
avere paura. L’anima non si può mutilare per il timore di finire in
carcere, o, peggio, uccisi a sangue freddo. Il martirio, prima che sacrificio
di sé, è testimonianza, concreta, esemplare e coraggiosa, di una
realtà che sfida le logiche del tempo, però è certamente possibile. È in questo
senso che l’innocente semplicità coltivata da Juan diventa grande: un bambino riesce ad
essere se stesso, fino in fondo, senza riserve, fuggendo quando dovrebbe
restare, fermandosi quando le circostanze imporrebbero di correre via per
mettersi in salvo. L’eroismo è una questione di sincerità e coerenza, di
fiducia incondizionata nel domani, che sdrammatizza la pericolosità
dell’avversario, sottraendogli autorevolezza fino a farlo sentire impotente,
sotto la facciata della sua ostentata arroganza. Questa è una storia come
tante; è continuamente insidiata dallo spettro della morte violenta, che però
non ne intacca la tensione emotiva fatta di piccoli sobbalzi del cuore. I
proclami ideologici e le condanne politiche possono urlare, dentro le teste e
nelle piazze, ma, nell’universo segreto della nostra interiorità, siamo tutti i
silenziosi sovrani di un regno che, senza brame di potere né ambizioni di
conquista, vive intensamente la sua umile pace.
…Fantásticamente presentado, prácticamente
espontáneo de puro meticuloso en su puesta en escena, lleno de ecos de las
voces de aquellos que se fueron para no volver, este drama desarrollado en
torno a garajes, falsos cumpleaños y reuniones familiares de rostros vendados
encuentra en Teo Gutiérrez Moreno un sorprendente enganche universal, tal es el
equilibrio entre sobriedad y emoción que respira la interpretación del muchacho
en el que supone su primer trabajo cinematográfico. “Infancia clandestina” debe
degustarse despacio, con consciencia y un poso de amargura. Como un recuerdo
del pasado que no se debe olvidar. Como rememorar a nuestro tío favorito
aconsejándonos acerca del misterio de la mujer, comparada imposiblemente con el
disfrute de un sencillo maní con chocolate.
…Teo Gutiérrez Moreno, comme l’ensemble du
casting, est formidable dans le rôle du jeune garçon, arrivant à rendre
complexe son amour partagé entre une vie réelle et une autre imaginaire. Mais
celui qui emporte encore plus notre adhésion, c’est Ernesto Alterio qui joue
l’oncle Beto. Avec force humour, humanisme et romantisme, il est ce modèle pour
l’enfant mais aussi pour le spectateur, qui sera immortalisé dans une scène
tournée en film d’animation, un parti pris intéressant, réussi et finalement
logique pour un film dont l’histoire est vue (ou imaginée) au travers des yeux
d’un enfant !
Si le sujet sent le déjà vu – et au bout du compte ennuie un peu – force est de constater que Avila a souhaité ajouter de l’audace dans la mise en scène, le rythme et le montage, plutôt bien maîtrisés. « Enfance clandestine » rappelle aussi l’existence du militantisme des années 1970 en Argentine et au-delà, l’importance de se battre pour ses idées. Avec « No » de Pablo Larraín, également présenté à la Quinzaine des réalisateurs de Cannes 2012, le film de Benjamin Avila est le deuxième porte-étendard d'un cinéma latino qui se porte très bien !
Si le sujet sent le déjà vu – et au bout du compte ennuie un peu – force est de constater que Avila a souhaité ajouter de l’audace dans la mise en scène, le rythme et le montage, plutôt bien maîtrisés. « Enfance clandestine » rappelle aussi l’existence du militantisme des années 1970 en Argentine et au-delà, l’importance de se battre pour ses idées. Avec « No » de Pablo Larraín, également présenté à la Quinzaine des réalisateurs de Cannes 2012, le film de Benjamin Avila est le deuxième porte-étendard d'un cinéma latino qui se porte très bien !
…Et
tous ces problèmes, auxquels sera confronté le jeune garçon, seront comblés par
un peu de beauté. Benjamin Avila a choisi de ne
pas faire que dans la tristesse ou l’horreur facile. Il ne s’agit pas ici de
démontrer. Mais d’émouvoir. Et cette émotion passera par l’horreur, mais
également par la beauté. Car au milieu de tout ce carnage (à cause de la
politique), le jeune garçon va tomber amoureux. Et là, Benjamin Avila nous offre des
scènes splendides où lyrisme et amour se mélangent. Cela sonne comme une échappée dont tout le monde aurait voulu en ces
temps de tourmente…
…Enfance
Clandestine est un film
entre récit initiatique et fresque historique. Entre la pression familiale et
la guerre, nous avons ici un jeune garçon qui subit. Il subit les choix et règles des adultes, alors qu’il n’a rien demandé. Il veut juste
vivre sa vie, et être heureux. De là apparaît deux contrastes : un côté
d’horreur avec la guerre, et un côté beauté avec le jeu de l’enfance. A travers
une réalisation ludique et inspirée, Benjamin Avila nous sert un pan
de l’Histoire de l’Argentine sous le prisme de l’enfance. Un film fascinant
doté de suspense et d’émotions.
da qui
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