Nel film si osservano i turbamenti della giovane Lucia, con una mamma castrante, in un ambiente cattolico, all’infuori del quale, tutto è male.
Lucia
guarda intorno a sé, scopre il sesso, il coro e il suo direttore vadano a quel
paese.
E quando
pattina col vento nei capelli forse nasce una nuova Lucia.
A ragione,
parafrasando Paul Nizan, potrebbe dire “Avevo
sedici anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la
più bella età della vita”.
La Slovenia è quel paese da cui qualche anno fa arrivò un gioiellino
come Class enemy.
La ragazza del coro è film non
urlato, un’opera prima, magari imperfetta, che non va trascurato.
Buona
(non cattolica) visione - Ismaele
…Un film che si rivela anche attuale nel ribadire
che il corpo delle donne sia tutto tranne che portatore di peccato, che uscendo
dal guscio dei dogmi religiosi si può ambire al piacere. Lo imparerà Lucia
stessa, bersaglio di desideri diversi, più o meno repressi. La guarda con
desiderio la sua compagna disinibita Ana Maria, con rimprovero - e frustrazione
- il suo insegnante di coro, sempre più severo con lei, fino a una scena alla
Whiplash, dove ciò che non si perdona alla ragazza non è tanto l'intonazione
quanto l'attrazione. Attrazione a cui Lucia non sa dare ancora un nome o una
forma, che la porterà prima a incantarsi di fronte a un gruppo di operai, poi
di fronte a un corpo nudo senza la capacità di muoversi o parlare, infine su
dei pattini a rotelle, con il vento tra i
capelli, a godersi nel mondo la libertà che le spetta…
…La regia è molto elegante, con l'uso metaforico delle immagini
(come l'ape nel fiore) e la capacità di navigare la complessità del desiderio
adolescenziale attraverso lo sguardo e il fuori campo, evitando
morbosità. La sceneggiatura è ben costruita nell'affrontare sesso e
peccato, la struttura a mosaico che rende il desiderio pesante e leggero, e il
racconto organico e coerente dell'esplorazione della sessualità di
un'adolescente oppressa da un'educazione repressiva. La fotografia è molto
attenta ai dettagli, e mostra una speciale cura e sensibilità nel trattare le
dinamiche erotiche e il percorso di formazione della protagonista. La
recitazione di Jara Sofija Ostan ha saputo trasmettere con grazia e naturalezza
la complessità emotiva dell'adolescente Lucia ed ho apprezzato molto la
capacità degli altri attori di incarnare un'educazione religiosa repressiva e i
conflitti interni dei personaggi, offrendo interpretazioni che definiscono
l'orizzonte del disagio e della vergogna in modo vivido…
…Da parte sua, Urška Djuki riesce
a rappresentare la corporeità adolescenziale senza sensazionalismi, in un
ambiente che è al tempo stesso sacro e provocatorio perché profano e ciò porta
alla meditazione sull’amicizia femminile, la fede e il corpo che si risveglia.
Ecco perché la poetica visiva scelta dalla regista si fonda su motivi di
primavera, fiori e luce, che simboleggiano il risveglio dei sensi. Il ruolo
principale è interpretato dall’attrice dilettante Jara Sofija Ostan che non sembra affatto una
esordiente: tiene la scena in modo strabiliante, perché con semplicità, forse
anche perché la regista le ha fatto intendere di presentarsi per quella che è
nella realtà: semplice, bella, pulita. Un agnello in mezzo alle lupe…
…È un già visto che tenta di fare la differenza
definendo ogni ritmo e ogni sommovimento con un tessuto di suoni che è
un’installazione audio di respiri e gemiti, canti cattolici e sussurri
misticheggianti, evocativi di spazi inesplorati che la camera tiene fuoricampo
tramite l’ossessione per il primo piano. O almeno crede di tenere fuoricampo.
Infatti con il film di Urška Djuric sembra che tutto quello che è rimosso sia
in realtà l’ovvio che deve accadere o accadrà. Se non succede è un alibi che
finge un margine di dubbio inesistente.
…La forza del film sta nella relazione che la regista
instaura con le interpreti, nel modo in cui le lascia vibrare nello spazio,
come strumenti di un’orchestra invisibile. Jara Sofia Ostan attraversa Lucia
come un’eco che prende forma, un personaggio fatto di esitazioni e di sguardi:
il volto sembra ascoltare prima ancora di parlare, e ogni gesto diventa un
respiro sospeso. Mina Svajger, al contrario, illumina la scena di un’energia
fragile, una libertà che ferisce e insieme rischiara. Le ragazze, insieme,
respirano come un solo organismo, un corpo collettivo che osserva, giudica,
consola, dimentica. Nella tessitura mimica e vocale, il film trova il suo
colore: non l’innocenza perduta, ma la coscienza in divenire — ciò che inizia a
sapere di sé senza saperlo ancora dire. È qui che La ragazza del coro rivela la sua forza
politica senza proclami: mostra come il linguaggio del sacro possa ospitare una
rivolta dell’intimo, come la disciplina del canto — l’unità, l’intonazione, il
respiro comune — possa diventare luogo di dissonanza creativa, d’identità che
si scolla dalla norma e chiede il proprio tempo. Nessuna pornografia del
trauma, nessun compiacimento dell’ambiguità: c’è un’etica dell’ascolto, un
cinema che preferisce il sintomo alla diagnosi, la figura all’etichetta, il
segno all’urlo…
Fissare un perimetro definito quando si raccontano storie
legate all’adolescenza diventa controproducente. Le evasioni, le scoperte, le
fantasie dettano i tempi in maniera non lineare ed impulsiva come le età che
vuole descrivere, ondivaghe e distratte dagli eventi del presente, e senza gli
scheletri del passato su cui rimuginare. Con il rischio di fissare nei
caratteri poco acerbi proiezioni sbagliate ed evanescenti, se non illusorie.
Quanto succede nel film non fa eccezione: delle giovani ragazze sono riunite in
un convento per le prove del coro, e durante la loro permanenza nella struttura
affiorano sentimenti sconosciuti e desideri reconditi plausibili che
destabilizzano l’ambiente tra le risate e gli scherzi di gioia. La crisi viene
raccontata attraverso gli occhi della protagonista sedicenne Lucia, un tipo
acqua e sapone, costretta a rivedere i propri principi di condotta, a vacillare
ed aprirsi ad una crisi di coscienza spirituale da un improvviso processo di
crescita, innanzitutto di natura sessuale, sotto la spinta delle compagne.
Giochi maliziosi, masturbazione, primi baci, sono gli elementi che compongono
il paradigma narrativo usato dalla regista slovena, che è brava a rappresentare
la progressiva perdita di controllo emotivo con primi piani stretti ed un
apporto vocale frenetico. Un metodo basilare eppure molto efficace a creare
coinvolgimento…
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