Intervistato dal Corriere della sera il regista bolognese manda un messaggio al vicino governo Meloni e alla compagine ministeriale del Mibact: non fate morire il cinema solo perché la maggior parte della gente che ci lavora è di sinistra
“Il cinema
italiano? Siamo davvero a un passo dal baratro. Anzi, ci siamo già dentro.
Creiamo un ministero ad hoc per il cinema”. Parola di Pupi Avati. Intervistato
dal Corriere della sera, il regista bolognese manda un
messaggio al vicino governo Meloni e alla compagine ministeriale del Mibact:
non fate morire il cinema solo perché la maggior parte della gente che ci
lavora è di sinistra. “Il governo non può permettersi il lusso
di lasciar morire il cinema perché erroneamente lo considera una cosa
fatta da gente di sinistra e destinata a elettori di sinistra. Sarebbe
uno sbaglio madornale”, ha spiegato Avati. “Com’è noto ho sempre votato al
centro, spesso per Forza Italia; ma questo non ha mai rappresentato un
pregiudizio che mi impedisse di apprezzare o di non apprezzare i miei colleghi
a seconda della loro appartenenza politica. Ci sono registi e produttori
straordinari anche oggi, sono patrimonio del Paese. È il loro coinvolgimento
che ci occorre se vogliamo far rinascere il cinema italiano”.
Avati invita a una “union sacrée” per sventare la morte produttiva del cinema: “Governo e opposizione ci dedichino un momento del loro tempo prezioso immaginando una rinascita del nostro cinema. Che oggi è fermo, immobile: due anni fa, se cercavi un macchinista, non lo trovavi neanche pagandolo a peso d’oro; oggi di macchinisti ne trovi quanti ne vuoi, non sta lavorando nessuno”. Il coniglio che il regista di La casa delle finestre che ridono estrae dal cilindro è piuttosto rivoluzionaria: “Detto col massimo rispetto della presidente Giorgia Meloni e del ministro Alessandro Giuli, c’è bisogno di togliere delle competenze dal ministero della Cultura e creare un ministero ad hoc per il cinema, gli audiovisivi e la cultura digitale”. Avati spiega con estrema lucidità che “non può esistere un ministero che contemporaneamente si occupi di Uffizi e di Netflix perché sono cose troppo diverse. Meritiamo un ministero! Se lo si è fatto separando la scuola dall’università, mi sembra sia giunta l’ora di separare la produzione di un film o di una serie dalle celebrazioni dei duemilacinquecento anni di Napoli. Ne ho parlato con molti autorevoli colleghi trovando in loro quell’incoraggiamento che mi occorreva per lanciare questo appello”. Secondo l’autore di Regalo di Natale nel recente passato “abbiamo prodotto e sostenuto troppi film, tutti a budget altissimo, che spesso non ha visto nessuno. Col cambio del tax credit e questa fase di incertezza, in molti sono paralizzati da debiti e paura”.
Quindi direttamente la presidente del consiglio non
deve avere “paura del cinema”: “Non tema (Meloni ndr) che sia fatto solo da
gente di sinistra e per gente di sinistra perché non è così. Insieme
all’opposizione, lavorino tutti per rendere possibile che una commissione
composta da veri esperti del settore verifichi la fattibilità di questo nuovo
ministero e si riparta daccapo. Per esempio, incoraggiando con i finanziamenti
pubblici e il tax credit quelle produzioni a basso costo che possono dare
grandi soddisfazioni, in sala e anche nel mercato internazionale. Basti
guardare a “Vermiglio” o a “Il ragazzo dai pantaloni rosa”,
costati pochissimo, che hanno portato risultati economici e di prestigio. Non
c’è bisogno di grandi soldi per fare un ottimo prodotto. Anzi, spesso, con meno
si fa meglio. I miei film di maggiore successo li ho fatti con due lire. Quando
ho avuto a disposizione grandi budget, ho fatto grandi disastri”. Avati
chiosa ricordando che un film che incassò parecchio e pieno di star come Regalo
di Natale (1986) costò pochissimo: “Abatantuono, Delle Piane e Haber, insieme a
Gianni Cavina e George Eastman, accettarono da mio fratello la proposta di
prendere tutti lo stesso cachet: dieci milioni di lire. Il film lo girammo in
cinque settimane in una villa di Fregene. Totale: centocinquanta milioni di
lire, e ancora se ne parla”.
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