Mohammad Rasoulof è sempre bravo, gira un film clandestino, con un finale da film western, un regolamento dei conti ansiogeno e spietato.
Siamo invece in Iran, la fine è in un posto dimenticato da dio e dal mondo (dimenticato anche dai controllori e censori del potere iraniano).
Il regista, visitatore delle prigioni iraniane, lancia un atto d'accusa contro il regime e la pena di morte (come ne Il male non esiste), e riesce a scappare in Francia.
Non è il suo film migliore, è però un film urgente e resistente.
Da non perdere, è in una settantina di sale, non dovrebbe essere impossibile riuscire a vederlo.
buona visione - Ismaele
…Rasoulof
riflette sul ruolo del giornalismo moderno in Iran e dice: “Nel mio paese, non abbiamo più la fortuna di avere giornalisti liberi.
I cittadini lo diventano. Armati di telefonino, vanno alle manifestazioni e
fotografano, riprendono, pubblicando ogni cosa sui social, almeno i più
coraggiosi. Quella è forse l’unica informazione libera ad oggi in Iran, per
questo nel mio film torna la medesima riflessione. È estremamente reale lì ed è
sotto gli occhi di tutti. Posso dirvi che moltissimi video li ho recuperati
solo una volta uscito dal carcere e ne ho visionati davvero molti, così da
selezionare i più forti e dialoganti con il mio materiale narrativo. Tenendo
sempre a mente che avrei girato un film clandestinamente. Come avrei ricreato
ad esempio le scene di protesta? Non lo sapevo ancora, era soltanto una delle
moltissime riflessioni, eppure se volevo davvero realizzarlo, dovevo uscirne.
In più volevo ragionare sulla forza dei social, nel rendere più coesi e
invincibili gli attivisti e le attiviste, dando loro ulteriore coraggio, così
da vederli ancora e sempre più tra le strade e le piazze delle città, a gridare
e manifestare in nome della libertà. E poi mi sono chiesto: ma anche qualora
riuscissi a ricreare queste manifestazioni, avrei ancora questa forza cruda
della verità? Allora mi apparso importante dalla finzione, raggiungere il
realismo tipico del documentaristico.
Concludendo poi sul destino dei regimi e l’utilità
della violenza, Rasoulof chiosa: “La liberazione non passa mai
dalla violenza, a mio avviso. La ricerca di libertà della donna per esempio,
che è fortissima e sempre più evidente, rigetta su tutta la linea l’uso della
violenza, per questo è capace di imporre una svolta, un cambiamento radicale.
Sul futuro del regime iraniano invece e più in generale di tutti i regimi, ciò
che penso è espresso dal finale del mio film. È vero, estremamente metaforico e
in qualche modo perfino religioso, eppure quello che posso dirvi, in termini di
realismo crudo e quindi con grande sincerità, è che il regime annegherà nella
propria tomba, si seppellirà da solo. Chi semina vento, raccoglie tempesta.
…Sin dalla prima inquadratura, in cui in dettaglio vediamo consegnare una
pistola e delle pallottole, ci troviamo inseriti in una condizione di pericolo
imminente che pervaderà con diverse valenze tutto il film. Perché di lì a breve
quella realtà, quelle persone che Amin è chiamato a giudicare appellandosi a
una legge divina che ritiene di poter interpretare ed applicare con rigore,
inizieranno a sua insaputa ad entrare nella sua vita.
Le tre figure femminili al centro della narrazione, la madre e le due figlie,
rappresentano, con i tratti della più assoluta verosimiglianza, le dinamiche
che intercorrono tra generazioni. La madre, figlia di un uomo poco
raccomandabile, ha trovato nel marito e nel rispetto dell'ordine un suo status
che ora vede messo in discussione dalle figlie (in particolare da quella
maggiore). Ma questo è solo l'inizio perché questo è un film in cui i
nascondimenti fanno parte della necessità…
…La
sceneggiatura ha buchi evidenti, sembra che Rasoulof, nell’urgenza di
dimostrare, di denunciare, man mano semplifichi i suoi personaggi fino a farne
delle figure piatte, bidimensionali, senza reale profondità, solo simboli
alcuni del Bene altri del Male. Viene gestita in maniera confusa anche la pista
narrativa fondamentale della pistola sparita, pista abbandonata quando ne
emerge prepotentemente un’altra, quella di Iman bersaglio dei “giustizieri”
della resistenza. Finale a mio parere imbarazzante, dove la necessità del
messaggio prende il sopravvento su qualasiasi coerenza e plausibilità. Si esce
con la sensazione del capolavoro mancato per poco. Peccato. The Seed of the Sacred Fig resta però, nonostante
tutto, un film più maestoso, il più potente tra quelli visti a Cannes, il più
necessario.
…Mohammad
Rasoulof decide di veicolare il proprio j'accuse tramite un
racconto di finzione, caratterizzato tuttavia dalla stessa duplicità
riscontrabile nella struttura del film. Da una parte, si affida a un racconto
lineare, costituito dal thriller incentrato sulla ricerca della pistola e
culminante con le scene di azione del finale che sfociano nel western, in
particolare per via dell'ambientazione polverosa e desertica, oltre che per il
cliché della sparatoria conclusiva. Dall'altra parte, il lungometraggio
presenta vari nuclei narrativi: all'inizio viene accennato il problema etico
che attanaglia Iman alle prese con il suo nuovo incarico, poi vengono
affrontate le proteste e il dramma dell'amica delle figlie, in seguito subentra
la perdita della pistola e le progressive reazioni scomposte del padre. Se
l'ambientazione in interni e la scelta obbligata di concentrarsi sulla famiglia,
insieme al male che in modo strisciante la avvelena, assicurano unità a questa
molteplicità di nuclei narrativi altrimenti irrisolti, è anche vero che questi
ultimi contribuiscono a dividere e a frazionare le relazioni fra i quattro
protagonisti disponendoli secondo cerchi concentrici: dall'esterno all'interno
troviamo il padre alle prese con il nuovo incarico e con i problemi che questo
comporta, poi la madre, punto di congiunzione fra Iman e le figlie, infine
queste ultime, intente a relazionarsi al modo esterno simboleggiato dall'amica
e dalle proteste…
…Come già nei quattro episodi de Il male
non esiste, Rasoulof parte dalla
questione morale di un personaggio che si ritrova al bivio tra la coscienza e
il dovere, costretto ad affrontare i mostri delle proprie responsabilità. Ma è
solo un punto di partenza. Perché non è lui il cuore del film: il solo fatto di
essere dalla “parte sbagliata” (e su questo non possono esserci dubbi), lo
condanna inesorabilmente a stare nell’ombra. Fino a essere l’ombra. Rasoulof,
invece, si concentra sulle donne della storia, coerentemente con lo spirito dei
tempi e le infuocate proteste per la morte di Mahsa Amini (la cui immagine,
ovviamente, appare nel film). Dunque, sono la moglie Najmeh e le due figlie,
Rezvan e Sana, il vero fulcro del discorso politico di Il seme del fico sacro. Che ruota intorno alla
dialettica delle loro posizioni e delle loro reazioni, il modo in cui si
rapportano all’autorità del capofamiglia e quindi, più in generale, alle gabbie
stringenti della teocrazia. Ed è qui che vengono in rilievo le differenze
generazionali. Perché se le ragazze sono pronte a mettere in discussione
quest’autorità, chi in modo più istintivo e giocoso (la minore, Sana), chi in
maniera più consapevole (la maggiore, Rezvan), Najmeh farà più fatica a
liberarsi dalle imposizioni del suo ruolo di moglie e madre, sospesa tra la
devozione al marito, l’egoistica difesa della sicurezza familiare e la
percezione delle ingiustizie del sistema…
…Tre ore o quasi di grande, grandissimo
cinema, che un po’ per intensità di racconto e un po’ per realismo crudo,
spietato e documentaristico, volano via come un soffio, tenendo lo spettatore
incollato alla poltrona. Costringendolo in più di un momento a guardare
altrove, pur suggerendogli di non farlo, così da renderlo partecipe di uno
spaccato storico/sociale e politico, che non guarda ad un tempo che è stato,
piuttosto ad un tempo che è. Se estraneo, nella fortuna, se vicino nell’allerta
di un pericolo e di una violenza sempre più feroci, orrorifiche e imminenti. Un
impavido, glorioso e brutale inno alla femminilità, alla forza del popolo, cui
non resta altro se non continuare a combattere in nome della libertà, della
vita e di un’osservazione di fede adeguata e non estremista e al tempo stesso
un inno al cinema. Rasoulof ha firmato un capolavoro e clandestinamente lo ha
condotto fino a qui e a noi. Celebriamolo e non abbassiamo lo sguardo. Mai.
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