lunedì 24 febbraio 2025

Il seme del fico sacro - Mohammad Rasoulof

Mohammad Rasoulof è sempre bravo, gira un film clandestino, con un finale da film western, un regolamento dei conti ansiogeno e spietato.

Siamo invece in Iran, la fine è in un posto dimenticato da dio e dal mondo (dimenticato anche dai controllori e censori del potere iraniano).

Il regista, visitatore delle prigioni iraniane, lancia un atto d'accusa contro il regime e la pena di morte (come ne Il male non esiste), e riesce a scappare in Francia.

Non è il suo film migliore, è però un film urgente e resistente.

Da non perdere, è in una settantina di sale, non dovrebbe essere impossibile riuscire a vederlo.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

 

Rasoulof riflette sul ruolo del giornalismo moderno in Iran e dice: “Nel mio paese, non abbiamo più la fortuna di avere giornalisti liberi. I cittadini lo diventano. Armati di telefonino, vanno alle manifestazioni e fotografano, riprendono, pubblicando ogni cosa sui social, almeno i più coraggiosi. Quella è forse l’unica informazione libera ad oggi in Iran, per questo nel mio film torna la medesima riflessione. È estremamente reale lì ed è sotto gli occhi di tutti. Posso dirvi che moltissimi video li ho recuperati solo una volta uscito dal carcere e ne ho visionati davvero molti, così da selezionare i più forti e dialoganti con il mio materiale narrativo. Tenendo sempre a mente che avrei girato un film clandestinamente. Come avrei ricreato ad esempio le scene di protesta? Non lo sapevo ancora, era soltanto una delle moltissime riflessioni, eppure se volevo davvero realizzarlo, dovevo uscirne. In più volevo ragionare sulla forza dei social, nel rendere più coesi e invincibili gli attivisti e le attiviste, dando loro ulteriore coraggio, così da vederli ancora e sempre più tra le strade e le piazze delle città, a gridare e manifestare in nome della libertà. E poi mi sono chiesto: ma anche qualora riuscissi a ricreare queste manifestazioni, avrei ancora questa forza cruda della verità? Allora mi apparso importante dalla finzione, raggiungere il realismo tipico del documentaristico.

Concludendo poi sul destino dei regimi e l’utilità della violenza, Rasoulof chiosa: “La liberazione non passa mai dalla violenza, a mio avviso. La ricerca di libertà della donna per esempio, che è fortissima e sempre più evidente, rigetta su tutta la linea l’uso della violenza, per questo è capace di imporre una svolta, un cambiamento radicale. Sul futuro del regime iraniano invece e più in generale di tutti i regimi, ciò che penso è espresso dal finale del mio film. È vero, estremamente metaforico e in qualche modo perfino religioso, eppure quello che posso dirvi, in termini di realismo crudo e quindi con grande sincerità, è che il regime annegherà nella propria tomba, si seppellirà da solo. Chi semina vento, raccoglie tempesta.

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Sin dalla prima inquadratura, in cui in dettaglio vediamo consegnare una pistola e delle pallottole, ci troviamo inseriti in una condizione di pericolo imminente che pervaderà con diverse valenze tutto il film. Perché di lì a breve quella realtà, quelle persone che Amin è chiamato a giudicare appellandosi a una legge divina che ritiene di poter interpretare ed applicare con rigore, inizieranno a sua insaputa ad entrare nella sua vita.

Le tre figure femminili al centro della narrazione, la madre e le due figlie, rappresentano, con i tratti della più assoluta verosimiglianza, le dinamiche che intercorrono tra generazioni. La madre, figlia di un uomo poco raccomandabile, ha trovato nel marito e nel rispetto dell'ordine un suo status che ora vede messo in discussione dalle figlie (in particolare da quella maggiore). Ma questo è solo l'inizio perché questo è un film in cui i nascondimenti fanno parte della necessità…

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…La sceneggiatura ha buchi evidenti, sembra che Rasoulof, nell’urgenza di dimostrare, di denunciare, man mano semplifichi i suoi personaggi fino a farne delle figure piatte, bidimensionali, senza reale profondità, solo simboli alcuni del Bene altri del Male. Viene gestita in maniera confusa anche la pista narrativa fondamentale della pistola sparita, pista abbandonata quando ne emerge prepotentemente un’altra, quella di Iman bersaglio dei “giustizieri” della resistenza. Finale a mio parere imbarazzante, dove la necessità del messaggio prende il sopravvento su qualasiasi coerenza e plausibilità. Si esce con la sensazione del capolavoro mancato per poco. Peccato. The Seed of the Sacred Fig resta però, nonostante tutto, un film più maestoso, il più potente tra quelli visti a Cannes, il più necessario.

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…Mohammad Rasoulof decide di veicolare il proprio j'accuse tramite un racconto di finzione, caratterizzato tuttavia dalla stessa duplicità riscontrabile nella struttura del film. Da una parte, si affida a un racconto lineare, costituito dal thriller incentrato sulla ricerca della pistola e culminante con le scene di azione del finale che sfociano nel western, in particolare per via dell'ambientazione polverosa e desertica, oltre che per il cliché della sparatoria conclusiva. Dall'altra parte, il lungometraggio presenta vari nuclei narrativi: all'inizio viene accennato il problema etico che attanaglia Iman alle prese con il suo nuovo incarico, poi vengono affrontate le proteste e il dramma dell'amica delle figlie, in seguito subentra la perdita della pistola e le progressive reazioni scomposte del padre. Se l'ambientazione in interni e la scelta obbligata di concentrarsi sulla famiglia, insieme al male che in modo strisciante la avvelena, assicurano unità a questa molteplicità di nuclei narrativi altrimenti irrisolti, è anche vero che questi ultimi contribuiscono a dividere e a frazionare le relazioni fra i quattro protagonisti disponendoli secondo cerchi concentrici: dall'esterno all'interno troviamo il padre alle prese con il nuovo incarico e con i problemi che questo comporta, poi la madre, punto di congiunzione fra Iman e le figlie, infine queste ultime, intente a relazionarsi al modo esterno simboleggiato dall'amica e dalle proteste…

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Come già nei quattro episodi de Il male non esiste, Rasoulof parte dalla questione morale di un personaggio che si ritrova al bivio tra la coscienza e il dovere, costretto ad affrontare i mostri delle proprie responsabilità. Ma è solo un punto di partenza. Perché non è lui il cuore del film: il solo fatto di essere dalla “parte sbagliata” (e su questo non possono esserci dubbi), lo condanna inesorabilmente a stare nell’ombra. Fino a essere l’ombra. Rasoulof, invece, si concentra sulle donne della storia, coerentemente con lo spirito dei tempi e le infuocate proteste per la morte di Mahsa Amini (la cui immagine, ovviamente, appare nel film). Dunque, sono la moglie Najmeh e le due figlie, Rezvan e Sana, il vero fulcro del discorso politico di Il seme del fico sacro. Che ruota intorno alla dialettica delle loro posizioni e delle loro reazioni, il modo in cui si rapportano all’autorità del capofamiglia e quindi, più in generale, alle gabbie stringenti della teocrazia. Ed è qui che vengono in rilievo le differenze generazionali. Perché se le ragazze sono pronte a mettere in discussione quest’autorità, chi in modo più istintivo e giocoso (la minore, Sana), chi in maniera più consapevole (la maggiore, Rezvan), Najmeh farà più fatica a liberarsi dalle imposizioni del suo ruolo di moglie e madre, sospesa tra la devozione al marito, l’egoistica difesa della sicurezza familiare e la percezione delle ingiustizie del sistema…

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Tre ore o quasi di grande, grandissimo cinema, che un po’ per intensità di racconto e un po’ per realismo crudo, spietato e documentaristico, volano via come un soffio, tenendo lo spettatore incollato alla poltrona. Costringendolo in più di un momento a guardare altrove, pur suggerendogli di non farlo, così da renderlo partecipe di uno spaccato storico/sociale e politico, che non guarda ad un tempo che è stato, piuttosto ad un tempo che è. Se estraneo, nella fortuna, se vicino nell’allerta di un pericolo e di una violenza sempre più feroci, orrorifiche e imminenti. Un impavido, glorioso e brutale inno alla femminilità, alla forza del popolo, cui non resta altro se non continuare a combattere in nome della libertà, della vita e di un’osservazione di fede adeguata e non estremista e al tempo stesso un inno al cinema. Rasoulof ha firmato un capolavoro e clandestinamente lo ha condotto fino a qui e a noi. Celebriamolo e non abbassiamo lo sguardo. Mai.

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