opera prima di Stefano Sollima, con attori bravissimi, per una storia vista con gli occhi dei celerini.
hanno l'illusione del potere e dell'impunità, ma non sempre va a finire bene,
sono spesso fascisti, ma questo non risolve problemi, spesso ne apre.
erano quelli della scuola Diaz, e qualcuno capisce che sono usati, per motivi al di là della loro comprensione.
ma servono al Potere.
bel film, anche se essere d'accordo, a volte, con dei fascisti, spaventa un po', poi capisci che sotto la divisa sono poveri diavoli, come tanti.
buona visione - Ismaele
…Dentro
set e costumi (di ordine pubblico) che non si 'sentono' mai, incoraggiando la
visione e la convinzione di quello a cui si assiste, i protagonisti in blu,
azzurro e cremisi abitano una società violenta che 'sfratta' il superfluo, il
brutto, il debole e chiede loro di esserne gli esecutori tutt'altro che immuni.
Perché non tutti i poliziotti sono violenti e dediti alla repressione ma allo
stesso modo sono scarsi gli anticorpi capaci di fronteggiare deviazioni sempre
possibili in una professione delicata e irascibile come quella dei reparti
mobili. La macchina da presa testimonia silenziosa le tensioni e lo stress che
gli attori 'agenti' vivono in molte, troppe situazioni, trattenuti da quadri
legislativi sempre ambigui in un originario modello di braccio armato del
potere e impediti dai governi, nessuno escluso, a infilare la direzione di
organo statuale garante dei diritti.
Sollima, senza dimenticare o scontare la mentalità nera di quella struttura
operativa, che ha radici sprofondate in una giovane Repubblica costretta a fare
i conti con una continuità pressoché integrale della polizia fascista, mette in
piazza uomini biasimati e disapprovati, malpagati, male addestrati e nulla
equipaggiati, che devono agire immediatamente, privilegiando l'efficacia ai
valori democratici. Là fuori il controllo gerarchico si allenta e gli uomini
restano soli con la paura di un 'nemico interno' e la libertà d'azione di fare
il male, di fare male, di farsi male.
https://www.mymovies.it/film/2011/acab/
…ACAB è tutto ciò che il cinema italiano non è mai riuscito
ad essere di recente, ma è anche qualcosa che raramente si è visto in passato,
e che solo il dimenticato (e dal titolo antifrastico) Io ho paura (1977)
di Damiano Damiani era riuscito a mettere in scena con rischio, coraggio e
abnegazione. ACAB, infatti, è il ritratto dal basso di un corpo di
servitori dello stato che non rispetta le regole, che non accetta la legge che
dovrebbe fare rispettare, che non crede nella politica e che si auto-divora in
un conflitto ideologico che si consuma tutto all’interno della Destra. Né amici
né nemici solo uomini, maschi, duri, spietati, e soli con la loro rabbia e
frustrazione: lo stato non c’è, non è al loro fianco, ma si serve di loro
usandoli come “spazzini sociali”. Gli ordini dei superiori vengono eseguiti a
denti stretti, vomitando addosso ad essi tutta una serie di improperi,
costruendosi lungo il servizio un modo personalissimo di agire e di
comportarsi, perché quello che conta è solo il fine, il mezzo è secondario e
diventa preminente solo nel momento in cui uno dei “fratelli” mette a
repentaglio la propria carriera per una cazzata o quando uno dei “fratelli”
tradisce (che qui vuol dire fare l’onesto, denunciare gli abusi e le violenze
dei colleghi). È l’onesto che abbandona il gruppo, perché lui non rispetta le
regole non scritte, non sottoscrive il grottesco “codice d’onore” di un corpo
dello Stato che agisce, non dentro lo Stato, ma solo a fianco dello Stato…
https://www.rapportoconfidenziale.org/?p=18606
…I tre uomini su cui si concentra la narrazione
(interpretati da Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro e Marco Giallini, tutti in
stato di assoluta grazia) sono soli, incapaci di uscire da un circolo vizioso
che li costringe alla reiterazione coatta dello scontro: quando si riuniscono,
anche dopo essersi allontanati, non è per reale senso di corpo, per automatica
empatia, ma solo perché non hanno vie di fuga alternative, non le cercano, non
le sanno trovare. A suo modo anche il percorso di formazione del giovane
Adriano (molto bravo anche Domenico Diele) non può che concludersi, nonostante
tutto, con la sua trasformazione in bastardo:
un’accezione ribaltata stavolta dall’ottica dei celerini, ma sempre valida.
Ambientato in una Roma nera come la pece, inospitale e vorace come non
mai, ACAB è il film che
mancava alla nostra cinematografia da troppo tempo: seguendo le movenze di un
film di genere tout-court, trova la forza per fotografare la realtà, e ha il
coraggio di non abbellirla, ma di sprofondarvi fin dentro le viscere.
Come i protagonisti della pellicola, anche gli
spettatori non hanno la possibilità di uscire indenni dalla visione di un’opera
così pulsante e furibonda, e Sollima li costringe a confrontarsi con la loro
integrità morale: una sequenza come quella della “vendetta” sul gruppo di
rumeni al parco è anche una sfida lanciata al pubblico sul significato della
parola “giustizia”. Nel suo delirio intriso di nostalgia fascista, Cobra si
riempie la bocca di termini quali onore, giustizia, fratellanza, rispetto, al punto
di credere davvero di rispettarne il senso fino in fondo. Forse non ha buoni né
cattivi, ACAB – All Cops Are Bastards,
ma sicuramente non ha vincitori: anche dovesse sparire dalla scena il trio di
amici, magari in una battaglia di fronte allo stadio in un’atmosfera surreale e
quasi onirica, si troverebbe subito qualcuno in grado di sostituirli, perché
dopotutto anche allo Stato conviene averli lì, in prima linea, a prendere sputi
e calci e a elargire manganellate.
In fin dei conti, si sa, tutti i poliziotti sono
bastardi. E c’è sempre qualcuno pronto a canticchiare “celerino figlio di
puttana”.
http://quinlan.it/2012/01/15/a-c-a-b-all-cops-are-bastards/
…A
suo agio tanto nelle inquadrature d'insieme, quando la telecamera allarga il
suo sguardo al mondo circostante, che in quelle ravvicinate, dove l'indagine si
sofferma su un battito di ciglia, Sollima si avvale di una fotografia dai
colori lividi, desaturati quanto basta per raffreddare una materia di per sé
incandescente, e di un dp che, nell'alternare lo stile
modaiolo della musica da classifica a quella acida e distorta realizzata dai
Mokadelic sottolinea di volta in volta la successione emotiva. Un plauso
speciale lo meritano però la direzione attoriale e le performance che
da Favino a Giallini, passando per Domenico Diele e Filippo Nigro sono il punto
di forza di un'opera che non ha paura di essere quello che è: un prodotto di
genere, senza infingimenti e con molto mestiere.
http://www.ondacinema.it/film/recensione/acab.html
…Se però l’aspetto puramente cinematografico di A.C.A.B. è
lodevole, e se il ritratto di una società al suo grado zero è forte, riuscito e
necessario, non possiamo non sottolineare come il film di Sollima nasca
da una contraddizione di fondo che ne ipoteca anche le qualità.
Perché quello che sulla pagina scritta di un
libro inchiesta è sconvolgente ma neutro nella sua proposizione, dato l’approccio
documentario e oggettivizzante, quando viene tradotto in materiale narrativo,
in un film che nelle dichiarazioni del suo stesso autore vuole essere un
prodotto di genere, ecco che i problemi si moltiplicano e le ombre si
allungano.
Non tanto perché la natura stessa della
narrazione impone un’adesione soggettiva a personaggi negativi, faccenda a
volte perfino necessaria, ma perché troppe delle azioni violente che vengono
rappresentate, dei mantra filo-fascisti e razzisti che vengono incessantemente pronunciati,
delle implicite “giustificazioni” fornite ai protagonisti del film - e perfino
ai loro antagonisti - dalla situazione di degrado generale e diffuso in cui si
trovano ad operare, rischiano di essere letti come legittimi e inevitabili.
E questi rischi finiscono con l'essere esaltati
dalla sorprendente faciloneria con la quale il film tira in ballo i fatti di
Genova per poi metterli velocemente sotto il tappeto per non affrontarli (salvo
ri-citarli implicitamente e non solo nel finale di Piazzale Maresciallo Diaz),
e per la facile scappatoia rappresentata dalla rottura del circolo della
violenza privata e dell’omertà da parte della giovane recluta.
A.C.A.B. quindi si addossa la responsabilità di (poter)
essere letto come un inno apologetico - e a tratti spettacolarmente compiaciuto
- a quella violenza, a quel razzismo e a quel fascismo che invece vorrebbe
condannare attraverso la loro rappresentazione.
Una responsabilità che, con i tempi che corrono,
non ci saremmo sentiti di affrontare.
https://www.comingsoon.it/film/a-c-a-b/48790/recensione/
…È un peccato che nell’aria aleggi la
voglia di rifarsi a scelte di racconto molto prevedibili, come l’ingresso
dell’ultimo arrivato o lo spirito di squadra, perché la confezione è al
contrario quella giusta: sporca senza essere sciatta, ben fotografata e con
un’ottima scelta dei colori. Da tempo non si vedeva un film italiano di questo
stampo, ma se la direzione stilistica può anche essere giusta, è una certa
ambiguità nei contenuti che lascia perplessi. Perché non mostrare l’incontro
con il ministro, limitandosi al classico politichino che non mantiene le
promesse? Perché insistere così tanto sui drammi personali necessariamente
banalissimi? Ma soprattutto, perché fingere di avercela con tutti, se poi si va
a cercare un finale consolatorio con un nemico che si vuole dipingere quasi
sovrannaturale?
http://www.cinefile.biz/acab-di-stefano-sollima
…Nessuno ha inneggiato al film, e nessuno
lo ha accusato di eccessiva violenza. Questo dovrebbe far pensare. Perché, in
realtà, alcune scene sono di una forza, di un eccesso, di una prepotenza, che
nessuno dovrebbe essere in grado di sostenere. E tutti, celerini e gente di
strada, avevano solo una cosa in comune: quel sentimento irrefrenabile di rancore, di odio, di intolleranza nei confronti
delle istituzioni. Politici, Parlamento, Stato, tutti vengono presi di mira,
come il nemico numero uno, perché – dal film si evince – i casi della vita
portano a concludere questo. Ora, così, si spiega anche perché ieri, durante il
minuto di silenzio sul campo dell’Olimpico, prima della partita, per la morte di Oscar Luigi Scalfaro,
la curva abbia fischiato tutto il tempo.
Ma le domande sono queste: perché il limite
entro il quale questi poliziotti usano la violenza è così poco decifrabile?
Perché tutti si ricostruiscono un senso dello Stato del tutto
personale? Chi guarderà il film? Da dove nasce, allo stadio,
questo rancore antico nei confronti delle forze dell’ordine: voglio dire, prima
dei casi sopracitati, anni Sessanta e Settanta, era lo stesso così?
https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/30/acab-non-e-un-film/187615/
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