lunedì 31 maggio 2021

ACAB - Stefano Sollima

opera prima di Stefano Sollima, con attori bravissimi, per una storia vista con gli occhi dei celerini.

hanno l'illusione del potere e dell'impunità, ma non sempre va a finire bene,

sono spesso fascisti, ma questo non risolve problemi, spesso ne apre.

erano quelli della scuola Diaz, e qualcuno capisce che sono usati, per motivi al di là della loro comprensione.

ma servono al Potere.

bel film, anche se essere d'accordo, a volte, con dei fascisti, spaventa un po', poi capisci che sotto la divisa sono poveri diavoli, come tanti.

buona visione - Ismaele


 

 

 

Dentro set e costumi (di ordine pubblico) che non si 'sentono' mai, incoraggiando la visione e la convinzione di quello a cui si assiste, i protagonisti in blu, azzurro e cremisi abitano una società violenta che 'sfratta' il superfluo, il brutto, il debole e chiede loro di esserne gli esecutori tutt'altro che immuni. Perché non tutti i poliziotti sono violenti e dediti alla repressione ma allo stesso modo sono scarsi gli anticorpi capaci di fronteggiare deviazioni sempre possibili in una professione delicata e irascibile come quella dei reparti mobili. La macchina da presa testimonia silenziosa le tensioni e lo stress che gli attori 'agenti' vivono in molte, troppe situazioni, trattenuti da quadri legislativi sempre ambigui in un originario modello di braccio armato del potere e impediti dai governi, nessuno escluso, a infilare la direzione di organo statuale garante dei diritti.
Sollima, senza dimenticare o scontare la mentalità nera di quella struttura operativa, che ha radici sprofondate in una giovane Repubblica costretta a fare i conti con una continuità pressoché integrale della polizia fascista, mette in piazza uomini biasimati e disapprovati, malpagati, male addestrati e nulla equipaggiati, che devono agire immediatamente, privilegiando l'efficacia ai valori democratici. Là fuori il controllo gerarchico si allenta e gli uomini restano soli con la paura di un 'nemico interno' e la libertà d'azione di fare il male, di fare male, di farsi male.

https://www.mymovies.it/film/2011/acab/

 

 

ACAB è tutto ciò che il cinema italiano non è mai riuscito ad essere di recente, ma è anche qualcosa che raramente si è visto in passato, e che solo il dimenticato (e dal titolo antifrastico) Io ho paura (1977) di Damiano Damiani era riuscito a mettere in scena con rischio, coraggio e abnegazione. ACAB, infatti, è il ritratto dal basso di un corpo di servitori dello stato che non rispetta le regole, che non accetta la legge che dovrebbe fare rispettare, che non crede nella politica e che si auto-divora in un conflitto ideologico che si consuma tutto all’interno della Destra. Né amici né nemici solo uomini, maschi, duri, spietati, e soli con la loro rabbia e frustrazione: lo stato non c’è, non è al loro fianco, ma si serve di loro usandoli come “spazzini sociali”. Gli ordini dei superiori vengono eseguiti a denti stretti, vomitando addosso ad essi tutta una serie di improperi, costruendosi lungo il servizio un modo personalissimo di agire e di comportarsi, perché quello che conta è solo il fine, il mezzo è secondario e diventa preminente solo nel momento in cui uno dei “fratelli” mette a repentaglio la propria carriera per una cazzata o quando uno dei “fratelli” tradisce (che qui vuol dire fare l’onesto, denunciare gli abusi e le violenze dei colleghi). È l’onesto che abbandona il gruppo, perché lui non rispetta le regole non scritte, non sottoscrive il grottesco “codice d’onore” di un corpo dello Stato che agisce, non dentro lo Stato, ma solo a fianco dello Stato…

https://www.rapportoconfidenziale.org/?p=18606

 

I tre uomini su cui si concentra la narrazione (interpretati da Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro e Marco Giallini, tutti in stato di assoluta grazia) sono soli, incapaci di uscire da un circolo vizioso che li costringe alla reiterazione coatta dello scontro: quando si riuniscono, anche dopo essersi allontanati, non è per reale senso di corpo, per automatica empatia, ma solo perché non hanno vie di fuga alternative, non le cercano, non le sanno trovare. A suo modo anche il percorso di formazione del giovane Adriano (molto bravo anche Domenico Diele) non può che concludersi, nonostante tutto, con la sua trasformazione in bastardo: un’accezione ribaltata stavolta dall’ottica dei celerini, ma sempre valida. Ambientato in una Roma nera come la pece, inospitale e vorace come non mai, ACAB è il film che mancava alla nostra cinematografia da troppo tempo: seguendo le movenze di un film di genere tout-court, trova la forza per fotografare la realtà, e ha il coraggio di non abbellirla, ma di sprofondarvi fin dentro le viscere.
Come i protagonisti della pellicola, anche gli spettatori non hanno la possibilità di uscire indenni dalla visione di un’opera così pulsante e furibonda, e Sollima li costringe a confrontarsi con la loro integrità morale: una sequenza come quella della “vendetta” sul gruppo di rumeni al parco è anche una sfida lanciata al pubblico sul significato della parola “giustizia”. Nel suo delirio intriso di nostalgia fascista, Cobra si riempie la bocca di termini quali onore, giustizia, fratellanza, rispetto, al punto di credere davvero di rispettarne il senso fino in fondo. Forse non ha buoni né cattivi, ACAB – All Cops Are Bastards, ma sicuramente non ha vincitori: anche dovesse sparire dalla scena il trio di amici, magari in una battaglia di fronte allo stadio in un’atmosfera surreale e quasi onirica, si troverebbe subito qualcuno in grado di sostituirli, perché dopotutto anche allo Stato conviene averli lì, in prima linea, a prendere sputi e calci e a elargire manganellate.
In fin dei conti, si sa, tutti i poliziotti sono bastardi. E c’è sempre qualcuno pronto a canticchiare “celerino figlio di puttana”.

http://quinlan.it/2012/01/15/a-c-a-b-all-cops-are-bastards/

 

…A suo agio tanto nelle inquadrature d'insieme, quando la telecamera allarga il suo sguardo al mondo circostante, che in quelle ravvicinate, dove l'indagine si sofferma su un battito di ciglia, Sollima si avvale di una fotografia dai colori lividi, desaturati quanto basta per raffreddare una materia di per sé incandescente, e di un dp che, nell'alternare lo stile modaiolo della musica da classifica a quella acida e distorta realizzata dai Mokadelic sottolinea di volta in volta la successione emotiva. Un plauso speciale lo meritano però la direzione attoriale e le performance che da Favino a Giallini, passando per Domenico Diele e Filippo Nigro sono il punto di forza di un'opera che non ha paura di essere quello che è: un prodotto di genere, senza infingimenti e con molto mestiere.

http://www.ondacinema.it/film/recensione/acab.html

 

Se però l’aspetto puramente cinematografico di A.C.A.B. è lodevole, e se il ritratto di una società al suo grado zero è forte, riuscito e necessario, non possiamo non sottolineare come il film di Sollima nasca da una contraddizione di fondo che ne ipoteca anche le qualità.
Perché quello che sulla pagina scritta di un libro inchiesta è sconvolgente ma neutro nella sua proposizione, dato l’approccio documentario e oggettivizzante, quando viene tradotto in materiale narrativo, in un film che nelle dichiarazioni del suo stesso autore vuole essere un prodotto di genere, ecco che i problemi si moltiplicano e le ombre si allungano.
Non tanto perché la natura stessa della narrazione impone un’adesione soggettiva a personaggi negativi, faccenda a volte perfino necessaria, ma perché troppe delle azioni violente che vengono rappresentate, dei mantra filo-fascisti e razzisti che vengono incessantemente pronunciati, delle implicite “giustificazioni” fornite ai protagonisti del film - e perfino ai loro antagonisti - dalla situazione di degrado generale e diffuso in cui si trovano ad operare, rischiano di essere letti come legittimi e inevitabili.
E questi rischi finiscono con l'essere esaltati dalla sorprendente faciloneria con la quale il film tira in ballo i fatti di Genova per poi metterli velocemente sotto il tappeto per non affrontarli (salvo ri-citarli implicitamente e non solo nel finale di Piazzale Maresciallo Diaz), e per la facile scappatoia rappresentata dalla rottura del circolo della violenza privata e dell’omertà da parte della giovane recluta.
A.C.A.B. quindi si addossa la responsabilità di (poter) essere letto come un inno apologetico - e a tratti spettacolarmente compiaciuto - a quella violenza, a quel razzismo e a quel fascismo che invece vorrebbe condannare attraverso la loro rappresentazione.
Una responsabilità che, con i tempi che corrono, non ci saremmo sentiti di affrontare.

https://www.comingsoon.it/film/a-c-a-b/48790/recensione/

 

È un peccato che nell’aria aleggi la voglia di rifarsi a scelte di racconto molto prevedibili, come l’ingresso dell’ultimo arrivato o lo spirito di squadra, perché la confezione è al contrario quella giusta: sporca senza essere sciatta, ben fotografata e con un’ottima scelta dei colori. Da tempo non si vedeva un film italiano di questo stampo, ma se la direzione stilistica può anche essere giusta, è una certa ambiguità nei contenuti che lascia perplessi. Perché non mostrare l’incontro con il ministro, limitandosi al classico politichino che non mantiene le promesse? Perché insistere così tanto sui drammi personali necessariamente banalissimi? Ma soprattutto, perché fingere di avercela con tutti, se poi si va a cercare un finale consolatorio con un nemico che si vuole dipingere quasi sovrannaturale?

http://www.cinefile.biz/acab-di-stefano-sollima

 

Nessuno ha inneggiato al film, e nessuno lo ha accusato di eccessiva violenza. Questo dovrebbe far pensare. Perché, in realtà, alcune scene sono di una forza, di un eccesso, di una prepotenza, che nessuno dovrebbe essere in grado di sostenere. E tutti, celerini e gente di strada, avevano solo una cosa in comune: quel sentimento irrefrenabile di rancore, di odio, di intolleranza nei confronti delle istituzioni. Politici, Parlamento, Stato, tutti vengono presi di mira, come il nemico numero uno, perché – dal film si evince – i casi della vita portano a concludere questo. Ora, così, si spiega anche perché ieri, durante il minuto di silenzio sul campo dell’Olimpico, prima della partita, per la morte di Oscar Luigi Scalfaro, la curva abbia fischiato tutto il tempo.

Ma le domande sono queste: perché il limite entro il quale questi poliziotti usano la violenza è così poco decifrabile? Perché tutti si ricostruiscono un senso dello Stato del tutto personale? Chi guarderà il film? Da dove nasce, allo stadio, questo rancore antico nei confronti delle forze dell’ordine: voglio dire, prima dei casi sopracitati, anni Sessanta e Settanta, era lo stesso così?

https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/30/acab-non-e-un-film/187615/


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