mercoledì 19 maggio 2021

La brava gente del cinema italiano - Annamaria Rivera

 

Che il tema sia una pagina della storia coloniale italiana o che sia quello dell’immigrazione e del razzismo attuali, non poche produzioni cinematografiche nostrane sono (o piuttosto sono state) accomunate da una cifra comune, che salta agli occhi o almeno a quelli di chi abbia dimestichezza con le rappresentazioni dell’alterità. Intendo riferirmi all’esteriorità dello sguardo rivolto alle persone dette altre, l’irriflessa tendenza a oggettivarle secondo i propri cliché e categorie, in definitiva la difficoltà a immaginarle nonché rappresentarle come complesse e degne di rispetto al pari del Noi.

È doveroso aggiungere, tuttavia, che più recentemente si registra una certa inversione di tendenza, quantitativa ma per certi versi anche qualitativa. Da alcuni anni a questa parte, infatti, intorno al tema dell’immigrazione pure in Italia va delineandosi un genere, costituito tanto da film di finzione quanto da documentari. È soprattutto in questo secondo ambito che si colloca, mi sembra, il maggior numero di prove mature, interessanti, non conformiste. 

Per quel che riguarda il colonialismo, nonostante una tradizione, sia pur tardiva, di studi storici sul dominio coloniale italiano, assai debole e scarsa è stata – per qualche verso è tuttora – l’opera volta a decolonizzare la memoria pubblica, la quale continua a coltivare il cliché di un colonialismo italiano straccione, bonario e di breve durata, nonché il mito auto-assolutorio, a esso correlato, degli “italiani brava gente”

 

Quest’ultima espressione, divenuta assai comune, costituisce il titolo stesso del film del 1965 di Giuseppe De Santis, ove la ritirata dei soldati italiani, fino allora bloccati nelle steppe, è rappresentata come una sorta di via crucis e i soldati stessi come rispettosi, indulgenti, bonari nei confronti dei russi: all’opposto dei loro camerati tedeschi, raffigurati tout court come barbari e sanguinari.

Una tale rimozione o cattiva coscienza si è riflessa a lungo nella cinematografia italiana, in misura minore continua a riflettersi tutt’oggi. Uno dei pochi film ad aver affrontato il tema della memoria coloniale, non già brillantemente, ma almeno con un minimo di onestà, è Tempo di uccidere (1989) di Giuliano Montaldo, tratto dal romanzo omonimo di Ennio Flaiano del 1947. Per quanto non sia affatto un capolavoro, per lo meno cerca di prendere le distanze dalla retorica degli “italiani, brava gente”.

Allorché è stata la cinematografia altrui a narrare i crimini del colonialismo italiano, essa è stata occultata o censurata. Si pensi alla vicenda del Leone del deserto, film del 1981, voluto fermamente da Gheddafi: diretto da Mustafa Akkad, è incentrato su Omar el Muktar, il leader della resistenza libica contro il regio esercito italiano, il quale fu impiccato dopo un processo-farsa.

Come ho scritto altrove, rappresentati come oppressi anche allorché sono oppressori, quei soldati risultano tanto “umani” quanto i libici sono imbalsamati e semplificati nel loro irriducibile esotismo. Sono tanto complessi, tormentati, compassionevoli, perfino spassosi, gli italiani, quanto i tedeschi sono inflessibili, crudeli, duri, disposti a eseguire gli ordini più criminali.

Nonostante il cast eccezionale (da Anthony Quinn a Oliver Reed, da Rod Steiger a Irene Papas, da Gastone Moschin a Raf Vallone), il film fu bandito dalle sale cinematografiche italiane in quanto reputato da Giulio Andreotti come “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”. Addirittura, nel 1987, la Digos ne bloccò la proiezione che si svolgeva in un cinema di Trento, nell’ambito di un meeting pacifista. Il film sarà trasmesso in televisione ben ventotto anni più tardi, nel 2009, e solo grazie a Sky, non già alla televisione pubblica.

Perfino Mario Monicelli ha concesso qualcosa a convenzionali cliché orientalisti: mi riferisco a Le rose del deserto, film del 2006, l’ultimo del grande e amato maestro.

In continuità con l’iconografia orientalista è Aisha, l’unico personaggio femminile di rilievo: sottomessa e segregata nella prigione del velo e della tribù, misteriosa e seducente, proibita e desiderabile, una volta ripudiata, non può che finire dietro le sbarre di un postribolo… L’estraneità delle persone altre, se non la loro riduzione ad alterità assoluta sono rivelati, fra l’altro, da numerosi dettagli.  E non bastano i felici tocchi da Maestro, quale Monicelli era, i gustosi siparietti comici e i momenti di drammatica intensità, esaltati all’ottima interpretazione di Michele Placido, ad attenuare l’impressione che neppure questo film sappia sottrarsi del tutto alla vetusta retorica di “italiani, brava gente”.

così si rischia – forse involontariamente – di legittimare i vecchi miti del colonialismo italico dal volto umano, immune da razzismo e violenza, e dei poveri italiani trascinati in guerra da quel folle di Hitler. Si aggiunga che la retorica innocentista è aggiornata alla luce di problematiche e luoghi comuni del presente: nel film risuona incongruamente l’eco dei topoi correnti sulle “missioni umanitarie”, sull’islam misogino, sulla democrazia da imporre con la guerra.

Certo, il film di Monicelli s’ispira volutamente al Deserto della Libia di Mario Tobino e a un brano (Il soldato Sanna) de La guerra d’Albania di Giancarlo Fusco. Gli sceneggiatori, tuttavia, avrebbero potuto consultare qualcuna delle corpose e documentate opere storiografiche dedicate al colonialismo italiano in Libia. In tal modo avrebbero potuto almeno alludere, sullo sfondo della vicenda, ai crimini orrendi – le deportazioni, i lager, l’uso di gas letali, i massacri, il genocidio – di cui esso si è macchiato, invece di annacquare le responsabilità del regime mussoliniano attraverso il personaggio farsesco di un generale che ha preso sul serio la propaganda fascista. 

Lo stesso Monicelli, presentando questo suo ultimo film, aveva affermato: “Noi siamo gente generosa, che non si perde mai d’animo (…). Riuniti in esercito gli italiani sono sempre gli stessi: positivi, felici, ottimisti e se devono morire muoiono senza farla tanto lunga. Non vogliono essere né eroi, né missionari”.

In realtà, il solo fatto d’avanzare dubbiosamente un tal genere di critiche o interrogativi ti espone all’accusa di settarismo e pedanteria: nel nostro paese il diritto all’esercizio della critica, soprattutto in campo cinematografico, è, mi sembra, o almeno era, un diritto alquanto limitato. Quando poi si tratta di opere partorite da milieu “progressisti” – come si sarebbe detto un tempo – è ancora più arduo avanzarne: esiste anche, infatti, anche un conformismo di sinistra.

Quanto alla rappresentazione delle persone immigrate o rifugiate, mi sembra che, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, una parte del cinema italiano inizi a rivelare maggiore maturità politica: forse più nei documentari che nei film di finzione. In ogni caso, si affaccia una nuova generazione di cineasti impegnati, anche politicamente, a rappresentare immigrazione, asilo e temi connessi in modo realistico, privo di cliché e luoghi comuni. Si pensi, tra gli altri e le altre, ad Andrea Segre e ai suoi non pochi documentari, il primo dei quali è stato Lo sterminio dei popoli zingari, del 1998; ma anche a Mohsen Melliti, autore di un film quale Io, l’altro, del 2007, nonché di un romanzo sulla vicenda della “Pantanella” (Pantanella. Canto lungo la strada, Edizioni Lavoro, 1992).

In entrambi i casi (che non sono gli unici), essi compiono un’opera assai meritoria, tanto più per il fatto che, da qualche anno a questa parte, negli stessi ambienti antirazzisti i cliché e i luoghi comuni vanno moltiplicandosi. Dovrebbero preoccupare, inoltre, la tendenza a ignorare la lunga dimensione diacronica del neo-razzismo italiano; nonché il progressivo impoverimento o decadimento dell’analisi e della riflessione, quindi del linguaggio e del lessico. Ripeto: perfino in ambienti antirazzisti.

Come ho scritto altrove e più volte, per quanto dotto pretenda di essere, uno degli esempi più lampanti è costituito dall’attuale tendenza a usare ossessivamente il lemma odio: ricordo che la formula hate speech si ritrova abitualmente anche in documenti e rapporti ufficiali. Ed è adoperata quale presunto movente degli atti di razzismo, verbali e fattuali, ma anche, in fondo, per nominare il razzismo stesso, che invece – come non mi stanco di ripetere – è un sistema assai complesso: anzitutto, istituzionale, ma anche ideologico, politico, sociale, simbolico, mediatico…

Ma lo stesso si può dire di paura, quale presunto movente del razzismo, a sua volta spesso ricondotto a “guerra tra poveri”; per non dire dello slogan “restiamo umani” e di altri luoghi comuni simili…

A proposito di “guerra tra poveri”: spesso questa locuzione mendace (come se fra “nativi” e migranti vi fosse simmetria di potere) serve a denominare forme di razzismo, anche assai violente, che accadono in quartieri popolari. In realtà a istigarle e a guidare all’assalto il più delle volte sono gli appartenenti a formazioni di estrema destra quali CasaPound, Forza Nuova e altre affini.

Tutto ciò per non dire dell’abuso del lemma “integrazione”, la quale, come dovrebbe essere ben noto, non basta affatto a proteggere dal razzismo.

A tal proposito, un caso esemplare è quello del sedicenne Giacomo Valent. Il 9 luglio 1985, a Udine, egli fu ucciso con sessantatré coltellate da due suoi compagni di un liceo assai elitario. I due, neonazisti, avevano rispettivamente quattordici e sedici anni. Figlio di un italiano, funzionario d’ambasciata, e di una principessa somala, quindi socialmente più che “integrato”, Giacomo era deriso come “sporco negro”, ma anche per le sue idee politiche di sinistra. 

Per parlare dell’oggi, perfettamente integrato è anche Mario Balotelli, un autentico mito calcistico, approdato nella nazionale di calcio. Eppure, e non solo per causa del colore della sua pelle, è stato (ed è tuttora) oggetto di ripetute aggressioni, verbali o peggio.

Rimarco il “non solo” per ricordare che chiunque può essere razzizzato, come ben dimostra il caso dei/delle migranti albanesi, arrivati/e in Italia a partire dai primi anni ’90 del Novecento e presto divenuti/e capro espiatorio ideale e vittime di razzismo, anche estremo.  

Insomma, è come se non avesse lasciato alcuna traccia la gran mole di analisi e studi, alcuni assai pregevoli, prodotta nel corso dei decenni passati, soprattutto in Francia, ma anche in Italia, negli Stati Uniti e altrove. Infatti, perfino su giornali di sinistra può capitare d’imbattersi in articoli infarciti da lemmi quali razza e razziale (mai virgolettati). In uno di questi l’autore si diceva fermamente contrario al fatto che dalla Costituzione francese sia stata cancellata la parola “razza”: cosa per la quale in Italia si battono non pochi gruppi antirazzisti e la stessa Siac, la Società italiana di antropologia culturale, della quale faccio parte.

Infine: ricordo en passant che già verso la fine degli anni Trenta del Novecento, Franz Boas, fondatore dell’antropologia culturale, del quale i nazisti avrebbero messo al rogo i libri (“oltre tutto”, egli era d’origine ebraica), aveva criticato e decostruito lo pseudo-concetto di razza. E nel 1950 l’UNESCO, che si era costituita da poco, elaborò una Dichiarazione sulla razza secondo la quale non esiste alcun determinante biologico fondativo che possa legittimarla.

da qui

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