Che il tema sia una pagina della storia coloniale italiana o che sia quello
dell’immigrazione e del razzismo attuali, non poche produzioni cinematografiche
nostrane sono (o piuttosto sono state) accomunate da una cifra comune, che
salta agli occhi o almeno a quelli di chi abbia dimestichezza con le
rappresentazioni dell’alterità. Intendo riferirmi all’esteriorità dello sguardo
rivolto alle persone dette altre, l’irriflessa tendenza a
oggettivarle secondo i propri cliché e categorie, in definitiva la difficoltà a
immaginarle nonché rappresentarle come complesse e degne di rispetto al pari
del Noi.
È doveroso aggiungere, tuttavia, che più recentemente si registra una certa
inversione di tendenza, quantitativa ma per certi versi anche
qualitativa. Da alcuni anni a questa parte, infatti, intorno al tema
dell’immigrazione pure in Italia va delineandosi un genere,
costituito tanto da film di finzione quanto da documentari. È
soprattutto in questo secondo ambito che si colloca, mi sembra, il maggior
numero di prove mature, interessanti, non conformiste.
Per quel che riguarda il colonialismo, nonostante una tradizione, sia pur
tardiva, di studi storici sul dominio coloniale italiano, assai debole
e scarsa è stata – per qualche verso è tuttora – l’opera volta a decolonizzare
la memoria pubblica, la quale continua a coltivare il cliché di un colonialismo
italiano straccione, bonario e di breve durata, nonché il mito
auto-assolutorio, a esso correlato, degli “italiani brava gente”.
Quest’ultima espressione, divenuta assai comune, costituisce il titolo
stesso del film del 1965 di Giuseppe De Santis, ove la ritirata dei soldati
italiani, fino allora bloccati nelle steppe, è rappresentata come una sorta
di via crucis e i soldati stessi come rispettosi, indulgenti,
bonari nei confronti dei russi: all’opposto dei loro camerati tedeschi, raffigurati tout
court come barbari e sanguinari.
Una tale rimozione o cattiva coscienza si è riflessa a lungo nella
cinematografia italiana, in misura minore continua a riflettersi tutt’oggi. Uno dei pochi film
ad aver affrontato il tema della memoria coloniale, non già brillantemente, ma
almeno con un minimo di onestà, è Tempo di uccidere (1989) di
Giuliano Montaldo, tratto dal romanzo omonimo di Ennio Flaiano del
1947. Per quanto non sia affatto un capolavoro, per lo meno cerca di
prendere le distanze dalla retorica degli “italiani, brava gente”.
Allorché è stata la cinematografia altrui a narrare i crimini del
colonialismo italiano, essa è stata occultata o censurata. Si pensi alla
vicenda del Leone del deserto, film del 1981, voluto fermamente
da Gheddafi: diretto da Mustafa Akkad, è incentrato su Omar el Muktar, il
leader della resistenza libica contro il regio esercito italiano, il quale fu
impiccato dopo un processo-farsa.
Come ho scritto altrove, rappresentati come oppressi anche allorché
sono oppressori, quei soldati risultano tanto “umani” quanto i libici sono
imbalsamati e semplificati nel loro irriducibile esotismo. Sono tanto
complessi, tormentati, compassionevoli, perfino spassosi, gli italiani, quanto
i tedeschi sono inflessibili, crudeli, duri, disposti a eseguire gli ordini più
criminali.
Nonostante il cast eccezionale (da Anthony Quinn a Oliver Reed, da Rod
Steiger a Irene Papas, da Gastone Moschin a Raf Vallone), il film fu bandito
dalle sale cinematografiche italiane in quanto reputato da Giulio Andreotti
come “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”. Addirittura, nel 1987, la
Digos ne bloccò la proiezione che si svolgeva in un cinema di Trento,
nell’ambito di un meeting pacifista. Il film sarà trasmesso in televisione ben
ventotto anni più tardi, nel 2009, e solo grazie a Sky, non già alla
televisione pubblica.
Perfino Mario Monicelli ha concesso qualcosa a convenzionali cliché
orientalisti: mi riferisco a Le
rose del deserto, film del 2006, l’ultimo del grande
e amato maestro.
In continuità con l’iconografia orientalista è Aisha, l’unico personaggio
femminile di rilievo: sottomessa e segregata nella prigione del velo e della
tribù, misteriosa e seducente, proibita e desiderabile, una volta ripudiata,
non può che finire dietro le sbarre di un postribolo… L’estraneità delle
persone altre, se non la loro riduzione ad alterità assoluta
sono rivelati, fra l’altro, da numerosi dettagli. E non bastano i felici
tocchi da Maestro, quale Monicelli era, i gustosi siparietti comici e i momenti
di drammatica intensità, esaltati all’ottima interpretazione di Michele
Placido, ad attenuare l’impressione che neppure questo film sappia sottrarsi
del tutto alla vetusta retorica di “italiani, brava gente”.
E così si rischia – forse involontariamente – di legittimare i
vecchi miti del colonialismo italico dal volto umano, immune da razzismo e
violenza, e dei poveri italiani trascinati in guerra da quel folle di Hitler.
Si aggiunga che la retorica innocentista è aggiornata alla luce di problematiche
e luoghi comuni del presente: nel film risuona incongruamente l’eco dei topoi correnti
sulle “missioni umanitarie”, sull’islam misogino, sulla democrazia da imporre
con la guerra.
Certo, il film di Monicelli s’ispira volutamente al Deserto della
Libia di Mario Tobino e a un brano (Il soldato Sanna) de La
guerra d’Albania di Giancarlo Fusco. Gli sceneggiatori, tuttavia,
avrebbero potuto consultare qualcuna delle corpose e documentate opere
storiografiche dedicate al colonialismo italiano in Libia. In tal modo
avrebbero potuto almeno alludere, sullo sfondo della vicenda, ai crimini
orrendi – le deportazioni, i lager, l’uso di gas letali, i massacri, il
genocidio – di cui esso si è macchiato, invece di annacquare le responsabilità
del regime mussoliniano attraverso il personaggio farsesco di un generale che
ha preso sul serio la propaganda fascista.
Lo stesso Monicelli, presentando questo suo ultimo film, aveva
affermato: “Noi siamo gente generosa, che non si perde mai d’animo
(…). Riuniti in esercito gli italiani sono sempre gli stessi: positivi,
felici, ottimisti e se devono morire muoiono senza farla tanto lunga. Non
vogliono essere né eroi, né missionari”.
In realtà, il solo fatto d’avanzare dubbiosamente un tal genere di critiche
o interrogativi ti espone all’accusa di settarismo e pedanteria: nel nostro
paese il diritto all’esercizio della critica, soprattutto in campo
cinematografico, è, mi sembra, o almeno era, un diritto alquanto limitato.
Quando poi si tratta di opere partorite da milieu “progressisti” – come si
sarebbe detto un tempo – è ancora più arduo avanzarne: esiste anche, infatti,
anche un conformismo di sinistra.
Quanto alla rappresentazione delle persone immigrate o rifugiate, mi sembra
che, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, una parte del cinema
italiano inizi a rivelare maggiore maturità politica: forse più nei documentari
che nei film di finzione. In ogni caso, si affaccia una nuova generazione
di cineasti impegnati, anche politicamente, a rappresentare immigrazione, asilo
e temi connessi in modo realistico, privo di cliché e luoghi comuni. Si pensi,
tra gli altri e le altre, ad Andrea Segre e ai suoi non pochi
documentari, il primo dei quali è stato Lo sterminio dei popoli zingari,
del 1998; ma anche a Mohsen Melliti, autore di un film quale Io,
l’altro, del 2007, nonché di un romanzo sulla vicenda della “Pantanella” (Pantanella.
Canto lungo la strada, Edizioni Lavoro, 1992).
In entrambi i casi (che non sono gli unici), essi compiono
un’opera assai meritoria, tanto più per il fatto che, da qualche anno a questa
parte, negli stessi ambienti antirazzisti i cliché e i luoghi comuni vanno
moltiplicandosi. Dovrebbero preoccupare, inoltre, la tendenza a
ignorare la lunga dimensione diacronica del neo-razzismo italiano; nonché il
progressivo impoverimento o decadimento dell’analisi e della riflessione,
quindi del linguaggio e del lessico. Ripeto: perfino in ambienti antirazzisti.
Come ho scritto altrove e più volte, per quanto dotto pretenda di
essere, uno degli esempi più lampanti è costituito dall’attuale
tendenza a usare ossessivamente il lemma odio: ricordo che la
formula hate speech si ritrova abitualmente anche in documenti
e rapporti ufficiali. Ed è adoperata quale presunto movente degli atti di
razzismo, verbali e fattuali, ma anche, in fondo, per nominare il razzismo
stesso, che invece – come non mi stanco di ripetere – è un sistema assai
complesso: anzitutto, istituzionale, ma anche ideologico, politico, sociale,
simbolico, mediatico…
Ma lo stesso si può dire di paura, quale presunto
movente del razzismo, a sua volta spesso ricondotto a “guerra tra poveri”;
per non dire dello slogan “restiamo umani” e di altri luoghi comuni simili…
A proposito di “guerra tra poveri”: spesso questa locuzione mendace (come se fra
“nativi” e migranti vi fosse simmetria di potere) serve a denominare
forme di razzismo, anche assai violente, che accadono in quartieri popolari. In
realtà a istigarle e a guidare all’assalto il più delle volte sono gli
appartenenti a formazioni di estrema destra quali CasaPound, Forza Nuova e
altre affini.
Tutto ciò per non dire dell’abuso del lemma “integrazione”, la
quale, come dovrebbe essere ben noto, non basta affatto a proteggere dal
razzismo.
A tal proposito, un caso esemplare è quello del sedicenne Giacomo
Valent. Il 9 luglio 1985, a Udine, egli fu ucciso con sessantatré coltellate da
due suoi compagni di un liceo assai elitario. I due, neonazisti, avevano
rispettivamente quattordici e sedici anni. Figlio di un italiano, funzionario
d’ambasciata, e di una principessa somala, quindi socialmente più che
“integrato”, Giacomo era deriso come “sporco negro”, ma anche per le sue idee
politiche di sinistra.
Per parlare dell’oggi, perfettamente integrato è anche
Mario Balotelli, un autentico mito calcistico, approdato nella nazionale
di calcio. Eppure, e non solo per causa del colore della sua pelle, è stato (ed
è tuttora) oggetto di ripetute aggressioni, verbali o peggio.
Rimarco il “non solo” per ricordare che chiunque può essere razzizzato,
come ben dimostra il caso dei/delle migranti albanesi, arrivati/e in Italia a
partire dai primi anni ’90 del Novecento e presto divenuti/e capro espiatorio
ideale e vittime di razzismo, anche estremo.
Insomma, è come se non avesse lasciato alcuna traccia la gran mole
di analisi e studi, alcuni assai pregevoli, prodotta nel corso dei decenni
passati, soprattutto in Francia, ma anche in Italia, negli Stati Uniti e
altrove. Infatti, perfino su giornali di sinistra può capitare d’imbattersi
in articoli infarciti da lemmi quali razza e razziale (mai
virgolettati). In uno di questi l’autore si diceva fermamente contrario al
fatto che dalla Costituzione francese sia stata cancellata la parola “razza”:
cosa per la quale in Italia si battono non pochi gruppi antirazzisti e la
stessa Siac, la Società italiana di antropologia culturale, della
quale faccio parte.
Infine: ricordo en passant che già verso la fine
degli anni Trenta del Novecento, Franz Boas, fondatore dell’antropologia
culturale, del quale i nazisti avrebbero messo al rogo i libri (“oltre
tutto”, egli era d’origine ebraica), aveva criticato e decostruito lo
pseudo-concetto di razza. E nel 1950 l’UNESCO, che si era costituita da
poco, elaborò una Dichiarazione sulla razza secondo la quale
non esiste alcun determinante biologico fondativo che possa legittimarla.
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