lunedì 30 novembre 2020

I démoni di Andzej Wajda - Francesco M. Cataluccio

  

“Wer der Dichter vill verstehen

Mus in dichters lande gehenn”

(Chi vuol capire il poeta

deve recarsi nel suo paese)

              W. GOETHE

 

Autore di quaranta film e di quasi altrettante regie teatrali ANDRZEJ WAJDA (Suwałki, 6 marzo 1926–Varsavia, 10 Ottobre 2016) è un artista difficilmente comprensibile senza conoscere la Polonia e la sua drammatica storia. Questo è il motivo per cui i suoi capolavori (come I dannati di Varsavia, 1957Ceneri e diamanti, 1958; Tutto in vendita, 1968Il bosco di betulle, 1970Le nozze, 1970Paesaggio dopo la battaglia, 1970; La terra della grande promessa, 1974; Le signorine di Wilko, 1974; L'uomo di marmo, 1976; Senza anestesia1978Korczak, 1990; Katyn, 2007) sono stati apprezzati nel mondo soltanto per i loro valori formali e per la denuncia politica, ma non hanno mai avuto il successo di pubblico che avrebbero meritato.

I film di Wajda attendono ancora di essere considerati nella loro complessa trama culturale, anzitutto letteraria. La metà dei suoi film infatti sono tratti da romanzi o racconti della letteratura polacca o russa e sono un'efficace fusione della storia con i romantici drammi nazionali e personali, la pittura e le immagini dell’arte polacca.

Wajda ha forse incarnato e interpretato, come nessun altro intellettuale polacco, l’autocoscienza del suo paese. Le sue opere sono sempre sorte da una personale riflessione e denuncia di un particolare momento della storia della Polonia e hanno puntualmente suscitato accese discussioni e polemiche. È stato certamente uno dei più grandi registi del dopoguerra. Un regista molto letterario.

Ricordo una delle nostre chiacchierate quando, alla fine di maggio del 1988, l’Università di Bologna, tra sbuffi di ermellino, mantelle color menta e cilindri appartenenti a teste assai più larghe, conferì al cinquantanovenne Wajda la laurea honoris causa in Lettere. Nel discorso di ringraziamento il regista polacco accusò l’Occidente di dimenticare che l’Europa non si ferma al muro di Berlino “dove si ergono barriere di filo spinato e Cerberi al guinzaglio abbaiano spaventosamente a ogni alba, quando si spengono I riflettori che sorvegliano la cosiddetta frontiera della pace”. Togliendosi gli occhiali e dando alla sua voce un tono di fierezza, ribadì che “l’Europa, nella nostra coscienza polacca, esiste come unità spirituale che, attraverso i secoli, è stata creata e cementata dai suoi grandi scienziati, scrittori e artisti”. Disse che Dostoevskij aveva pronosticato l’arrivo di un tempo in cui l’inizio sarebbe stato la totale derisione di tutto e concluse citando una frase di Antonio Labriola: “La libertà di parola non consiste nella libertà di tacere”.

Oltre al discorso di ringraziamento, Wajda si era preparato anche una lezione sul suo autore preferito: Fëdor M. Dostoevskij. Ma non gliela fecero tenere, sostenendo che quello che aveva detto era più che sufficiente. Così lo scrittore russo divenne il protagonista di un suo monologo mentre passeggiavamo sotto i portici di Bologna, tra scrosci d’acqua da una parte e file di manifesti annuncianti la visita del Papa, ritoccati nei modi più volgari, dall’altra. Ogni tanto ci fermavamo per dar modo a Wajda di cavar di tasca il suo inseparabile quadernetto e disegnare le cose più svariate: statue, variopinte biciclette, volti, file di prosciutti appesi. E io ne approfittavo per trascrivere il più velocemente possibile, sul mio bloc-notes a quadretti, quello che lui aveva detto.

Come tutti i polacchi, Wajda aveva un rapporto controverso con Dostoevskij: “Anzitutto perché è russo. Ho molti amici laggiù, ma non posso dimenticare, ad esempio, che mio padre, ufficiale di carriera, fu assassinato nella primavera del 1940, a Katyn, assieme ad altri quattromila prigionieri polacchi, dalle forze di sicurezza sovietiche. Poi, perché parla sempre male e con disprezzo dei polacchi (e i polacchi sono suscettibili!)”.

Nello scontro tra i polacchi e i russi, come nel caso dell’ultima tragica insurrezione del 1863, Dostoevskij vedeva infatti “la guerra tra due cristianesimi, l’inizio della futura guerra tra l’ortodossia e il cattolicesimo o, in altre parole, tra il genio slavo e la civiltà europea”. Ci è lontano, diceva Wajda, perché non è legato all’Europa come noi polacchi. Non a caso Milan Kundera, quando, a Praga, gli proposero di scrivere sotto pseudonimo un adattamento dell’Idiota, disse che avrebbe preferito morire di fame piuttosto che mettere mano a quest’opera di gesti eccessivi, di profondità putride, di una sentimentalità aggressiva, dove i sentimenti acquistano un valore assoluto. E per protesta si rimise a leggere Jacques le fataliste di Diderot. Però Wajda riteneva che la grandezza di Dostoevskij consisteva proprio nel non lasciare indifferenti: o lo si ama o lo si deve odiare. E, tutto sommato, lui lo amava molto. Glielo fece conoscere, negli anni cinquanta, un “giovane scrittore arrabbiato” polacco: Marek Hłasko – autore, tra l’altro, della bella raccolta di racconti L’ottavo giorno della settimana (Einaudi 1959), che morì suicida in Germania nel 1969. 

“Marek sapeva quasi tutti I demoni a memoria. Mi propose di farne una riduzione, magari per il teatro. Ma non riuscivo a raccapezzarmi tra tutti quei personaggi. Per fortuna mi capitò tra le mani una lettera di Dostoevskij a una certa signora Obelonskaja che voleva fare un adattamento de I fratelli Karmazov, dove egli le consigliava di scegliere qualche frammento, qualche idea, qualche personaggio, e su questi costruire una nuova opera. Questa è l’unica strada che può aver successo. Non ce n’è un’altra. E l’adattamento di Camus mi sembrò esser fatto secondo questo spirito. C’è inoltre un altro aspetto che autorizza il suo trasferimento sulle scene: Doestoevskij è il teatro. Per lui, infatti, l’essenza dell’uomo è la menzogna. E il mestiere dell’attore è una continua menzogna. Inoltre Dostoevskij è dialogo, discussione. Il teatro è ormai l’ultimo luogo dove la gente ascolta i dialoghi e attraverso il dialogo con gli attori crea un magico senso di comunità”.

Di Dostoevskij, Wajda mise in scena, a varie riprese, per il Teatr Stary di Cracovia: I demoniDelitto e castigo (“di tutte le regie che avevo visto mi era sembrato che i registi si fossero sempre concentrati sul delitto e non avessero lasciato alcun spazio al castigo. Il castigo, invece, inizia nello stesso momento del delitto”), e L’idiota.

Quest’ultimo spettacolo, secondo me il suo capolavoro, si intitolava in realtà Nastazja Filipowna (1977) e si concentrava soltanto su dall’ultimo capitolo dell’ Idiota. Andrzej Wajda (che poi lo traspose anche per il cinema con l’attore giapponese Tamasaburo Bando: Nastazja, 1994) allestì una semplice scena dove i due protagonisti, il principe Myškin e Parfen Rogožin si incontrano sul cadavere di Nastas'ja/Nastazja. Due attori soltanto (i bravissimi Nowicki e Radziwiłowicz), una candela, un’icona, una vecchia scrivania, due sedie. Il miracolo del teatro e della parola di Dostoevskij erano tutti lì. Gli attori recitavano, improvvisando varie parti del romanzo, assemblando le frasi come sotto l’effetto di una scossa elettrica, rischiarati soltanto dalla candela davanti a un’icona: un piccolo segno luminoso che stava a ricordare l’esistenza di una, seppur flebile, speranza, un’alternativa al male e, allo stesso tempo, mostrava la sua buia potenza.

Infervorato a parlare di Dostoevskij e dei suoi spettacoli teatrali (del film I demoni, uscito allora a Parigi, e accolto assai freddamente, non volle dire niente), Wajda disse una cosa che sembrava contraddire quanto aveva sostenuto in precedenza e dimostrava la complessità del suo rapporto con lo scrittore russo: “Nel suo libro su Dostoevskij, Mackiewicz si chiede perché egli sia uno scrittore più europeo degli altri, pur essendo il più russo. Sono d’accordo con la sua risposta, credo che questa sia la chiave: perché i suoi romanzi, molti dei quali cominciano con un motto evangelico, in quei casi rappresentano il tentativo di costruire storie di quell’idea tratta dai Vangeli. Questo legame di Dostoevskij con i Vangeli ce lo rende attuale”… 

Un tema che stava molto a cuore a Wajda era quello della Decadenza. Come molti altri intellettuali polacchi viveva la tragica cadenza della storia del proprio paese come il segno di un lento scivolare dell’Occidente verso l’Abisso. Un abisso però senza clamori, del quale a mala pena ci accorgeremo. Come nella poesia del Premio Nobel Czesław Miłosz Canzone sulla fine del mondo: “Il giorno della fine del mondo/ L’ape gira sul fiore del nasturzio,/Il pescatore ripara la rete luccicante./nel mare saltano allegri delfini/(…) E chi si aspettava folgori e lampi./ Rimane deluso./E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,/Non crede che già stia avvenendo…/”.

Pur essendo attentissimo e partecipe delle vicende politiche della Polonia (dopo 1989 fu addirittura senatore per il raggruppamento legato a Solidarność), Wajda a volte si esprimeva davvero come il figlio di un’altra epoca. A proposito della traduzione polacca del mio libro sull’Immaturità, mi scrisse sorprendentemente: “I giovani non maturano più perché manca loro una rigida educazione militare!”. Per spiegare i problemi del suo litigioso paese, diceva spesso con rammarico: “Purtroppo sta definitivamente scomparendo la generazione di prima della guerra, che aveva fatto buone scuole, conosceva il latino, credeva nei valori, aveva il culto della verità…”. 

Aveva il mito di Józef Konrad Korzeniowski. Quest’ultimo sarebbe poi Joseph Conrad che, pur non avendo scritto neppure una riga in polacco, viene considerato sulle rive delle Vistola come un campione della loro causa, un nemico della Russia e delle idee rivoluzionarie che negano la libertà individuale e sono legate a una “logica orientale” (si veda in proposito il libro di Conrad molto amato da Wajda: Sotto gli occhi dell’Occidente, del 1911).

Wajda, come tutti quelli della sua generazione, si era formato nel culto dei valori conradiani: “Nel 1966 un famoso produttore americano mi propose di girare un film tratto da Cuore di tenebra. Non se ne fece niente. Coppola ha poi girato Apocalypse now e credo che abbia trovato la formula giusta per fare un film da Conrad: soltanto allontanandosi dal modello dello scrittore si può creare una situazione nella quale si può dire ciò che Conrad aveva espresso. Io forse avevo letto troppo quel libro. Non so se sarei stato in grado di farne un buon adattamento. Però Coppola l’ha letto troppo poco, ha dimenticato di leggersi la fine. E invece Conrad aveva scritto quel romanzo proprio per la fine. È lì la cosa più importante: Marlowe (nel film mi sembra si chiami Willard) torna a Londra, va dalla fidanzata e le dice che Kurtz è un uomo a posto. Così si comporta un vero gentleman, un polacco! 

Nessun altro si comporterebbe così. Se Coppola avesse fatto tornare Willard e dire al figlio di Marlon Brando che suo padre era uno perbene, avrebbe sconvolto tutta l’America! Da Conrad ho invece girato, nel 1976, La linea d’ombra, che è un libro sul passaggio all’età adulta. La linea d’ombra è quell’incerto tratto che separa l’adolescenza luminosa dell’età matura che invece è in ombra. Nel film ho cercato di descrivere quel momento, terribile e meraviglioso allo stesso tempo, un momento di grande paura in cui bisogna prendere delle decisioni da cui dipende la vita degli altri. I soggetti dei romanzi di Conrad sono molto lontani da noi, ma c’è in lui un particolare moralismo, una prospettiva esistenziale che è molto vicina a una certa tradizione spirituale polacca”.

Di un testo letterario, Wajda riusciva a scoprire la “cassa di risonanza”, il filo che esalta la vicenda e mette in luce tutto il suo valore simbolico ed emblematico. In due film in particolare Wajda è stato capace di rendere con le immagini quell’atmosfera che nei racconti, da cui sono tratti, era appena suggerita o non espressa appieno. Si tratta de Il bosco di betulle (1970) e Le signorine di Wilko (1979), tratti di due racconti del grande poeta e scrittore Jarosław Iwaszkiewicz (1894-1980) (in italiano: Le signorine di Wilko, Ponte Sisto, Roma 2010). 

Così li spiegò Wajda, durante un’intervista autunnale che gli feci nel giardino della sua bella villetta nel vecchio quartiere di Żoliborz, a nord di Varsavia: “Sono due film sulla morte. Sull’impossibilità di tornare nello stesso posto, alla stessa situazione, allo stesso clima. L’unico scampo che c’è alla morte è l’amore, l’unica grande forza che possa contrapporsi all’istinto di morte. Su questa contrapposizione , che un po’ forza il discorso di Iwaszkiewicz, ho giocato tutto Il bosco di betulle. Andai a prendere in prestito al Museo Nazionale di Varsavia il quadro del pittore ‘decadente’ Jacek Malczewski, intitolato Thanatos. 

Volevo che quella donna con la falce della morte stese appesa alla parete della casa della guardia forestale dove abitano i protagonisti. Mentre questo è un film primaverile, Le signorine di Wilko è un film sull’autunno della vita. Ebbi la fortuna di girarlo in uno degli autunni polacchi più belli degli ultimi decenni. Il Tempo ha nel film una grande importanza. In fondo Iwaszkiewicz ha molti punti in comune con Proust”.

Troppo preoccupato delle immagini, Wajda sosteneva di non potersi occupare delle sceneggiature. Raramente le scrisse lui. Quando in un romanzo o in un racconto trovava un’idea che lo colpiva, cercava lo stesso autore, o uno sceneggiatore di professione, e chiedeva loro di scrivergli i dialoghi. Spesso da romanzi mediocri riusciva a fare film bellissimi, come nel caso de La terra della grande promessa (tratto da La terra promessa, 1898, del Premio Nobel Władysław Reymont) o Cenere e diamanti (1948, dall’omonimo romanzo di Jerzy Andrzejewski).

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domenica 29 novembre 2020

November - Rainer Sarnet

Rainer Sarnet conosce una storia straordinaria e prova a farcela vedere. 

inizio a guardare e resto a bocca aperta, vedo il film due volte in due giorni.

chi ha visto molti film dice che anche Rainer Sarnet cita molti altri film, ma nessuno crea dal niente, dopo la Bibbia e Omero chi non li ha letti e non li ha citati, anche senza volerlo consciamente (ma anche la la Bibbia e Omero non sono citazioni di citazioni?).

un bianco e nero straordinario ci racconta una storia d'amore, in un mondo dove l'amore non è necessario, per quasi tutti mangiare è l'esigenza vitale, ci si fa aiutare da dei robot primitivi, per i servizi dei quali si è disposti a vendere l'anima, tutto il resto viene dopo.

dentro il film ci sono mille suggestioni, mille immagini, mille invenzioni, e tutto si tiene, e niente è di troppo.

se vi volete bene cercate questo gioiellino, sarà una cosa diversa e inattesa - Ismaele

 

 

 

Un film unico, incredibile, pazzesco per me.

Siamo in Estonia, moltissimi anni fa.

Una piccola comunità contadina che porta avanti stancamente le proprie vite.

Un bianco e nero di impressionante bellezza per un film che racconta di spiriti fatti di vecchi utensili domestici, di un Diavolo burlone che vive nel bosco, di morti che tornano nella terra per cenare insieme ai vivi, della Peste che arriva sotto forma di caprone ma viene inizialmente beffata dai paesani, di ostie che diventano pallottole e di tante altre magnifiche storie, tradizioni popolari, credenze. Ma tutto inserito in un contesto reale, la gente convive tranquillamente con questo.

Ma la cosa più straordinaria è che un film così particolare, così pieno di cose, così assurdo, alla fine sia praticamente un film che racconta di una storia d'amore, anzi, un film che racconta dell'Amore Universale. E lo fa soprattutto con un pupazzo di neve che vi scioglierà il cuore.

Immenso…

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…Sarnet crea un’opera d’arte che avvolge completamente lo spettatore all’interno del suo paesaggio: il suono della pioggia, il fruscio delle foglie, lo scricchiolio della neve.

La fotografia di Mart Taniel bagna November di uno splendido bianco e nero, definito da bellissime e affascinanti composizioni tanto da far sembrare il film ultraterreno e allo stesso tempo reale. La sceneggiatura stratificata è un’interpretazione metaforica di alcune emozioni universalmente semplici, dove le tradizioni cristiane si scontrano con i riti pagani. Dal film emerge con precisione le contraddizione che caratterizzano la società estone. Il paese è fiero di essere una delle nazioni più atee d’Europa, eppure la superstizione e il soprannaturale sono i motori principali che si colgono visionando il film.

La povertà e la pressione nel dover sopravvivere in una simile società riduce i contadini al mero materialismo cinico ed a una ossessiva sete di guadagno, lasciando poco spazio a sentimenti più teneri o spiritualmente aperti. La maggior parte di questi ha venduto l’anima al diavolo con qualche oscuro patto e non ha più molto da aspettarsi ne da pretendere dalla propria vita.

Ed in questa marmaglia chiassosa e sporca che lentamente ci trascina con sé, possiamo però scorgere un barlume di speranza attraverso il romanticismo e il desiderio di amore, sebbene quest’ultimo peni a sopravvivere in questi tempi bui. Una piccola e fievole luce può essere vista attraverso le anime dei due protagonisti innamorati, essi desiderano l’irraggiungibile arrivando a vendere le loro anime nel tentativo di conquistare la persona amata, pur fallendo tragicamente. Perché l’amore è l’unica cosa immune alla manipolazione umana, magica o satanica e non può essere posseduto ne ingannato.

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…A incarnare la dimensione dello spirito slegata dalla materia, del desiderio svincolato dal bisogno, troviamo invece tre figure di giovani, che sostanziano il versante mélo del film, vero filo conduttore della dimensione emotiva del racconto: Liina (Rea Lest) ama Hans (Jörgen Liik), mentre questi a sua volta ama la figlia del barone (Jette Loona Hermanis), nel rilancio continuo di una brama perennemente inappagata. Lungi dall’indulgere nella descrizione dei meccanismi della seduzione, Sarnet preferisce indagare il mistero dei volti, dei gesti, delle posture, attraverso un certosino lavoro espressivo di tipo luministico, da cui ciascuno dei vertici del triangolo emerge nelle proprie peculiarità sentimentali e psicologiche. Hans personifica la forza vitale e diurna della giovinezza, tramite la spensierata leggerezza dei movimenti e la limpidezza con cui il suo volto è reso prevalentemente senza ombre, mentre Liina si colloca sul versante della notte, dell’attesa paziente, della passione repressa, giocata sui chiaroscuri perennemente contrastati che arabescano il suo viso. La giovane baronessa, dal canto suo, incarna a un tempo l’enigma dell’eterno femminino e, più prosaicamente, l’inaccessibilità del benessere, sintetizzati dall’incedere algido e solenne della sua figura fra le comode stanze della villa padronale: una persona e uno spazio preclusi a chi vive così prossimo, eppure così distante, sotto il cielo funesto della necessità.

Sarnet non è interessato all’approccio da documentario etnografico, quanto piuttosto alle dinamiche espressive del racconto fantastico, rese dall’irrompere del surreale o del grottesco nel quotidiano, dall’impari duello fra emozione e ineludibili esigenze di sopravvivenza, fra romantici languori individuali e concreti bisogni collettivi. November si configura come una sontuosa Symphonie fantastique, in cui la poesia dell’immagine si divora la prosa della narrazione e in cui ogni elemento visuale e sonoro converge a formare una tessitura percettiva di rara suggestione. Se a osservare sono altri occhi, un altro cinema è ancora possibile.

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…Torniamo alla regia di "November" per accennare alla potenza visiva e descrittiva degli spiriti maligni (i Kratt) fatti con utensileria di casa e teschi meravigliosi nella loro maligna stregoneria (ma non scordiamo il Kratt poeta...) e per sottolineare la genialità di fotografia e location entrambe cupe opprimenti, claustrofobiche per poi aprirsi improvvisamente in squarci esterni luminosi quanto malinconici. Assolutamente geniale come il sottile sapore di humor che condisce il calderone.

Lo spettatore non si aspetti un fantasy- horror bensì la trasposizione cinematografica di una vera e propria "maledizione". Film coraggioso, inquietante, acuto nelle sue denunce e, in fondo in fondo, creativo nella sua speranza (flebile) che l'amore possa rinascere dalle sue stesse ceneri.

Da cineteca.

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Se le vicende non sono poi così avvincenti rispetto alle premesse, è giusto sottolineare la bellezza estetica di un film che ipnotizza lo sguardo inquadratura dopo inquadratura. “November” è una gioia per gli occhi, Rainer Sarnet mostra un talento indiscutibile dietro la mdp che ravviva persino quella staticità di fondo presente nelle varie interpretazioni attoriali. Basato su un romanzo di Andrus Kivirähk (best seller in patria), quella di Sarnet è un’opera sull’amore e sulla possibilità di far sbocciare questa passione in un’epoca buia di oscurantismo e superstizione: un aspetto (melo)drammatico che si fonde con elementi da puro horror sovrannaturale, un tormento dell’anima immerso nel cinema fantastico d’autore. Una scommessa non facile da vincere eppure portata a termine in maniera personale e mai scontata, nonostante qualche citazione presa in prestito da “Hard To Be A God” (2013) di Aleksey German e da tutta quella scuola di derivazione ex sovietica legata a questo tipo di immaginario. E’ anche interessante notare l’apparente contrapposizione tra un costante materialismo (l’utilizzo del kratt per rubare) e un alone incontrastato di magia e spiritualità, due poli che finiscono per attrarsi vicendevolmente, poiché in queste terre di nobili e contadini ciò che conta è ottenere o preservare la ricchezza, un obiettivo che accomuna tutti in maniera trasversale. A proposito di benestanti, non è sfuggito ai nostri occhi il personaggio del barone interpretato da Dieter Laser, ovvero il folle Dr. Heiter di “The Human Centipede” (2009). Una presenza curiosa all’interno di una pellicola narrativamente discontinua ma meritevole di visione anche solo per alcune immagini di grandissimo impatto. Una fiaba nera poetica e surreale.

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Quello che conta è che livore, gelosie, infatuazioni attecchiscono ovunque vi sia un essere umano senziente, anche nella fangosa cittadina di November; ottenere quello che si vuole significa essere disposti a trattare con chiunque. Faust ce lo insegnò bene.

 

Quello che non lascerà mai la mente dello spettatore del film sono, certo, la bizzarria dei fatti rappresentati, ma in special modo la fotografia che li dispone e illumina: uno straordinario bianco e nero di una nitidezza rara, un'illuminazione mai paga di controluci che ammanta ogni cosa di un alone che riluce.

Illuminazione teatrale, sensazionalistica, senza peró diventare pacchiana.

Primi piani e smorfie contratte klimoviane e commento musicale, ora rockeggiante, ora etnico, che confonde il giudizio di chi assiste a questa sciarada di stregoneria, black humour e sporco romanticismo.  

 

Pensate alle fiabe originali dei Fratelli Grimm, alla loro grottesca drammaticità: ninne nanne in confronto a ciò che in Estonia raccontano ai bambini…

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Sarnet costruisce un film visivamente ed emotivamente unico, attraverso un bianco e nero stupefacente che ci riporta indietro alla perfezione dei quadri di Dryer e di Bergman e che in tempi recenti è stato realizzabile solo da Haneke ne Il nastro biancoNovember è inoltre valorizzato da un cast di volti genuini e meravigliosi, dai sorrisi dei due giovani protagonisti, quelli più sdentati degli anziani al ghigno del Barone del luogo (Dieter Laser, protagonista del primo The Human Centipede). Le sensazioni di tragedia imminente e malinconia si avvertono in tutto lo scorrere del racconto fino alla bellissima sequenza finale, quel bacio subacqueo che niente ha da invidiare a quello già iconico de La forma dell’acqua e che amaramente certifica l’impossibilità di essere felici in un mondo dove le persone continuano a derubarsi a vicenda e dove addirittura un kratt, quell’essere magico animato da Satana, è condannato a servire gli uomini fino a cozzare fatalmente con l’irrealizzabilità delle loro aspirazioni.

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sabato 28 novembre 2020

venerdì 27 novembre 2020

L'Alligatore - Daniele Vicari, Emanuele Scaringi

i giorni scorsi su Raiplay sono apparsi tutti gli episodi dell'Alligatore.

a partire dai romanzi di Massimo Carlotto si sono materializzati i suoi personaggi, la regia di serie A, come gli attori.

mi aspettavo qualcosa di buono, in realtà è tutto ottimo.

io, al posto vostro, se vi volete bene, non perderei un minuto, Raiplay vi attende, non ve ne pentirete, promesso - Ismaele


 

 

 

 

QUI si possono vedere i quattro episodi (ciascuno diviso in due parti) dell’Alligatore

 

 

 

Tra un criminale dalla pistola facile come Beniamino e un ossessivo pacifista come Max, si capisce che la banda messa in piedi dall'Alligatore per portare avanti questa sua nuova attività ha tutte le caratteristiche per essere fuori dal comune. Eppure funziona! Funziona per l'abilità degli interpreti per costruire le dinamiche tra loro (con menzione speciale per il rapporto costruito tra Martari e Thomas Trabacchi, che regala un favoloso Rossini); funziona per la scrittura sofferta che sorregge la storia e l'adatta con intelligenza dai romanzi di Massimo Carlotto. Funziona soprattutto per il look e le atmosfere messe in piedi da Daniele Vicari (e il co-regista Emanuele Scaringi) nel trascinarci in giro per i territori del nord est, tra location suggestive e splendidamente fotografate, toni da noir e sonorità blues.

Nel sintetizzare la recensione de L’Alligatore, non possiamo che ritenerci soddisfatti per la fiction messa in piedi da Daniele Vicari partendo dai romanzi di Massimo Carlotto: l’Alligatore trasposto con sofferta intensità da Matteo Martari è un personaggio affascinante che si accompagna da una banda alla sua altezza e si muove tra i territori del nord est italiano tra atmosfere suggestive da noir e la forte componente blues delle musiche.

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Massimo Carlotto lo ha creato.

Igort, in Alligatore Dimmi che non vuoi morire, ne ha mostrato una prima versione.

Daniele Vicari e Emanuele Scaringi lo hanno reso tangibile.

L’Alligatore, serie tv tratta dalla celebre saga di romanzi, è finalmente diventata una meravigliosa realtà.

Il lavoro, che vede lo stesso scrittore padovano tra gli sceneggiatori, è infatti un piacere per gli occhi di appassionati (soprattutto) e non.

Districandosi tra gli scritti dedicati a Marco Buratti e la sua banda (nove romanzi e una graphic novel), L’Alligatore riesce a dare un’ampia visione di quanto riportato su carta dal 1995 al 2017.

Gli otto episodi, difatti, non solo riprendono tre romanzi della saga (La verità dell’AlligatoreIl corriere colombiano e Il maestro di nodi) ma riescono a rappresentare magistralmente tutto quel mondo noir tracciato negli anni.

Il punto di forza della serie tv è, senza dubbio, dato dalla perfetta amalgama tra riproposizione delle singole storie e la costruzione di una serialità interna.

In pratica, le avventure dell’Alligatore e la sua banda, pur essendo collegate tra loro, presentano una struttura particolare. Ogni storia è autoconclusiva – il che permette di leggere facilmente tutta la saga in ordine sparso, partendo chiaramente dal primo romanzo – e si ricollega ad uno specifico caso trattato dai protagonisti.

Vicari e Scaringi considerando proprio da questo presupposto, sono riusciti nel duplice obiettivo di riadattare quanto prodotto e collegarlo magistralmente attraverso una sottotrama che prende piede dal primo episodio.

A ciò va aggiunta l’ottima fotografia.

Un’ambientazione come quella in cui vive l’Alligatore non può che essere particolare. E in questo il reparto è stato più che impeccabile.

Le ombre, i vari torni di luce, il contrastro tra luci e ombre e il tenebroso scenario in cui si muovono i protagonisti sono tutto ciò che serviva ad un’atmosfera come quella descritta da Carlotto.

Magnifica, inoltre, è l’interpretazione degli attori…

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La serie ha atmosfere noir e caratteristiche narrative che la inquadrano in una provincia italiana, solo apparentemente tranquilla. Ma in grado di risvegliarsi all’improvviso e di mostrare la propria carica esplosiva in molti settori.

La sceneggiatura, inizialmente procede per flash back per ricordare al telespettatore come il protagonista è finito in carcere. Per non aver voluto svelare il nome di una persona che era con lui. La potenza del racconto cerca di estrinsecarsi attraverso atmosfere buie, quasi Marco Buratti fosse inserito in un grosso budello nel quale si muove a volta a fatica, a volte tranquillamente.

Che la storia non sia facile da raccontare è chiaro fin dalle prime inquadrature. Tutte richiamano al classico noir della provincia italiana del Nord. Ad avere spessore luminoso sono le immagini dei paesaggi della zona circostante Padova, dove la serie è stata girata.Gli esterni, ripresi da un’ottima fotografia, conferiscono colore e luminosità a tutta la vicenda raccontata, altrimenti racchiusa in una sorta di gabbia oscura.

Ma tutto è voluto, studiato a tavolino per rendere le atmosfere dei romanzi di Carlotto che, per L’Alligatore, si è ispirato ad episodi della sua stessa vita. Il tutto, però, rimaneggiato da una sceneggiatura che non segue, nei contenuti, quanto, invece, è scritto nei romanzi.

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L’Alligatore si muove tra le ombre del padovano, in quel Veneto di piccole vetrine e immensi retrobottega, che lo scrittore Luigi Meneghello descrisse come “una regione dove le contraddizioni continuano ad autogenerarsi in un flusso costante di opacità e splendore”. Il Veneto di Massimo Carlotto, sincero e spietato, ma mai macchiettistico. Un’epifania che lascia nel lettore la consapevolezza di ritrovarsi all’interno di quella “cartina al tornasole dell’Italia, nella quale la ricchezza, la bellezza, lo specchiarsi della realtà viaggiano su un’autostrada che non sempre intercetta le strade comuni”, scriveva Goffredo Parise.

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martedì 24 novembre 2020

Moretti - Tommaso Labranca

 

Si sta trasformando il dibattito su un tema maledettamente serio come il razzismo nella solita farsa. Per una volta, però, non siamo solo noi italiani a sfidare il senso del ridicolo, visto che una catena di supermercati svizzera ha deciso di ritirare i mitici Moretti solo perché si chiamano così. Ai Moretti Tommaso Labranca dedicò un suo Collateral nel 2011, urgente e formidabile oggi più di ieri.


C’è un confine tra Lombardia e Canton Ticino che è più inutile di ogni altro confine perché viene a interrompere politicamente una unità geografica e culturale che ha per nome Insubria. Chi ha avuto in sorte di vivere presso quel confine negli anni 70 avrà tra le sue madeleine spirituali le visite fatte in Svizzera con il papà che doveva fare il pieno, attratto dal costo inferiore del carburante. Come già sapete, benché oggi la trasferta non convenga più, ci torno per evitare di sponsorizzare pulciosi registini. Ma anche per rivivere quei momenti infantili che mi entusiasmavano e che ritrovo intatti. La Svizzera è un grande Paese, benché molti italiani l’avversino senza in realtà conoscerlo. La sua natura montanara unita all’isolamento volontario hanno fatto sì che la Confederazione affronti sempre con una certa diffidenza il mutamento. Si sono create così bolle extratemporali in cui pare non esservi stata alcuna trasformazione negli ultimi quarant’anni. I Piccadilly, per esempio. Se in Italia i distributori di benzina sono accompagnati dagli Autogrill (luoghi meravigliosi in cui si raccoglie il superfluo più irrinunciabile), da Chiasso in poi le pompe di carburante si stagliano contro lo sfondo dei rutilanti Piccadilly Market. Si tratta di negozi in cui vengono venduti prevalentemente cioccolato in ogni possibile formato e gusto, sigarette (persino aromatizzate al cognac) e liofilizzati della Maggi introvabili da noi. Questi tre prodotti creano un aroma penetrante e indimenticabile, quel parfum de Piccadilly che già all’ingresso del negozio ti fa tornare a quando il papà, felice di aver risparmiato sul pieno, era disposto a comperarti i moretti. Nel 1998 la Svizzera permise la libera vendita della canapa non a scopi stupefacenti. Anche dietro pressioni italiane, la legge fu però modificata nel 2003. I micidiali moretti sono invece ancora venduti liberamente. Io impazzisco per i moretti perché sono la negazione del cioccolato radical chic, quello fomentato da certi film, quello venduto in certe antipatiche cioccolaterie dove tutto è bio, equo solidale, cacao al 99 per cento. I moretti sono invece la massima espressione dell’artificio alimentare e del politicamente scorretto: prendono il nome dalla faccina di bimbo nero che appare al centro della stagnola gialla, rossa, blu o verde in cui sono avvolti. Il colore diverso della stagnola non è segno di gusti differenti dei moretti. È solo un vezzo collezionistico. Ma in questa fase alla stagnola si fa poca attenzione. La si toglie rapidamente ed ecco spuntare la deliziosa cupola di cioccolato. Uso questo termine per convenzione, visto che non ho ancora capito di cosa si tratti in realtà. È una sostanza di particolare resistenza tanto che quando d’estate i moretti venivano nascosti in torridi bagagliai insieme a oggettistica di piccolo contrabbando, non si scioglieva mai, al massimo si raggrinziva. Il neofita del moretto si riconosce dal morso che sferra alla cupola. Errore! Il moretto si gusta al meglio applicando il metodo Hannibal. Con una lieve pressione del dito lo si preme al vertice, si rimuovono con delicatezza le prime schegge di cioccolato e si scopre così il contenuto della scatola cranica. La fragile parete di cioccolato dei moretti contiene una massa candida. Forse è panna, in realtà è qualcosa a metà tra la manna che nutrì gli Ebrei nel deserto e le sostanze aliene. Qualunque cosa sia, va prelevata con il dito indice che poi si porterà golosamente alla bocca. I bocconi migliori sono quelli in cui alla (diciamo) panna si mescolano le schegge del (diciamo) cioccolato. Quando non sarà rimasto più un solo fiocco bianco, si passerà a divorare le pareti di cioccolato. Ma l’esperienza non è finita qui perché c’è ancora da gustare il compatto fondo biscottato di questa delizia per la gola e per l’anima. Il neofita dei moretti si riconosce perché butta via il biscotto. Ma quella è gentaglia magari abituata anche a buttare i coni dei gelati. A questo punto si prende la stagnola, la si stende con molta cura e la si conserva, dividendola in base al colore. Serviranno a testimoniare quanti moretti si sono mangiati, quasi fossero tacche su una colt. P.S.: se avete letto pazientemente tutto questo Collateral credendo di trovare una recensione all’ultimo film di Nanni Moretti, mi spiace di avervi deluso. In fondo di Moretti con la maiuscola si parla così tanto in questi giorni che vi meritavate una pausa. Con merenda.

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lunedì 23 novembre 2020

O Ornitólogo - João Pedro Rodrigues

il regista di Odete colpisce ancora.

il film inizia un po' come "Un tranquillo weekend di paura", di John Boorman, una gita in canoa in un paesaggio incontaminato, che male può succedere?

e invece un incubo dopo l'altro accoglie Fernando.

e anche lui passerà il suo tranquillo weekend di paura, fra la vita e la morte, la follia e i travestimenti.

il film sta nella corrente abbastanza diffusa di folklore e natura, cita, ma non copia.

un film che merita molto, dove tutte le stranezze sono verosimili.

buona visione - Ismaele




…Nel finale, il film eccentrico, onirico-esistenzialista come una parabola oltraggiosa, pruriginosa ma anche pura nella sua onesta' di fondo, perde un pò di lucidità fino a rischiare di deragliare con l'intervento nel bosco di figure amazzoni, valchirie a seno nudo e parlata latina che rendono l'idillio fino a quel momento ricreato, un pò troppo forte o grottesco per risultare completamente sostenibile.

Ma, a parte ciò, il film è un ulteriore prezioso tassello di una carriera - quella di Joao Pedro Rodrigues - da cineasta che procede tramite coraggiose ed ardite metafore, a denunciare ipocrisie e intolleranze da parte di chi si proclama giusto e retto, e commette atrocità e violenze indicibili a danno di chi invece non sa fingere né comportarsi da opportunista.

Sul finale la figura del l'ornitologo, interpretata contenance fisicità dal bell'attore Paul Hamy, muta come in una sorta di metamorfosi bunueliana e assume le sembianze dello stesso Joao Pedro Rodrigues: fantastico!

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With an approach that borrows a few stylistic constituents from Thai director Apichatpong Weerasethakul, this is all about belief and self-discovery. 
The adventure can be as much tortuous as the paths of faith itself and yet sin and repentance are not taken seriously here. Some viewers will find “The Ornithologist” pretentious and philosophically boring while some others will see it as an avant-garde cult film of haunting expression. It will all depend on your openness and state of mind.

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Resulta imposible (o por lo menos un servidor se ve incapaz) de analizar este largometraje de una manera tradicional y justificada. Es preferible dejarse llevar por sensaciones o impresiones. Indagar o seguir un sendero para abandonarlo, perdiéndose en un punto de fuga perpendicular que abre otro camino a seguir. ¿Caprichoso y gratuito? Por supuesto. Así funciona la narración del filme y así la sigue de manera ejemplar la fotografía de Rui Poças. Nos encontramos ante una película rodada íntegramente en exteriores, donde se explorará tanto la agonía como el éxtasis del ornitólogo titular. A partir de un incidente natural que lo aislará de cualquier posibilidad de entorno (y retorno) conocido, llegará su asimilación del santo de las personas y objetos perdidos o abandonados. La blasfemia que busca la entrega total y pagana a la diversión más desbocada…

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El resultado final, es una mezcla entre lo pagano y lo sagrado, entre lo humano y lo animal, entre lo lógico y lo poético… Una travesía de dos horas de duración que nos seducirá a través de una fotografía hermosa del bosque selvático y unos actores que interpretan a unos personajes de una forma única, extraña y muy poco convencional. No resulta sorprendente tras verla, que Rodrigues se alzara con el premio a mejor director en la pasada edición de Locarno.

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La santificación de un ser pasa, necesariamente, por una transformación. Es un rito de paso que busca lo extraordinario en lo ordinario; elevar lo conocido a algo superior. Es, en definitiva, un viaje alucinógeno y alucinante para con uno mismo, por lo menos en el sentido más metafísico de recorrido. Es lo pagano catolizado pero, a la vez, ver lo pagano en lo católico.

João Pedro Rodrigues nos santifica en tres actos; en tres estados: ser primis, ser mutatio y ser absoluta.  Nos muestra un viaje alucinógeno al centro de la naturaleza donde nosotrxs, como humanos, no estamos centrados, hay otros habitantes, otros seres. Observamos la permeabilidad del ser. Permeabilidad entendida como cambio absoluto y constante. Nos enseña los caminos que hay que recorrer, o no. Eso depende de cada uno.

‘O ornitólogo’ es una oda a la santificación. A la santificación contemporánea, entendida como un proceso constante, que todxs realizamos. Un proceso, en sí, subversivo. Pues no se trata de una espiritualidad católica. Trata de una espiritualidad basada en el cambio, en lo líquido. Es, en definitiva, una obra maestra audiovisual sobre la santificación subversiva.

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Es este un viaje inclasificable, surrealista y onírico, quizás la explicación esté en que, tras el accidente, nada sea real. Que Fernando esté incosnciente, o muerto, o que haya viajado a una dimensión paralela… Así podría explicarse con cierta lógica lo que ocurre. Como esos personajes que aparecen un par de veces con nombres distintos; o ese grupo de amazonas que cazan desnudas y a caballo; o que no sólo sea el ornitólogo el que mire a los pájaros, sino los pájaros a Fernando (vemos sus miradas subjetivas en varias ocasiones); o que (de golpe) Fernando se transmute en San Antonio de Padua, tornándose así en una cinta hagiográfica…
Mezcla entre la poesía y la lógica, Rodrigues crea una película hipnótica, con una bella fotografía y que, a pesar de su rareza, te atrapa, porque, como dice el protagonista casi al final, “no importa lo extrañas que parezcan las cosas, si son reales nos la tenemos que creer”.

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El Ornitólogo no sólo es un maravilloso ejemplo de cine silvestre, sino también, en palabras del propio Joao Pedro Rodrigues, una “hagiografía blasfema”: el camino de la santidad está lleno de pecado y voluptuosidad. Como en El Fantasma, película repleta de fantasías sadomasoquistas (escatología, violación, rubber), aquí el director también deja lugar a la exposición de sus inquietudes más íntimas: él también soñó con ser un ornitólogo.

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sabato 21 novembre 2020

La pacifista - Miklós Jancsó

un film distrutto dalla critica, ma non così male, in fondo, forse a suo tempo c'erano troppi pre-giudizi, forse perché protagonisti erano dei fascisti.

gli spazi sono pochi, sembra quasi un film di impianto teatrale.

Monica Vitti giganteggia, anche senza la sua voce (viene doppiata, chissà perché), con Pierre Clementi che non sfigura, basta loro due per dare un giudizio positivo al film.

buona visione - Ismaele



QUI il film completo in italiano (non guardate i sottotitoli in spagnolo, fanno pena)


 

 

Una giornalista televisiva, Barbara, politicamente non impegnata ma che si professa genericamente pacifista, svolge il suo lavoro in una città in fermento per la contestazione giovanile da una parte, le violenze degli estremisti dall'altra. Vittima ella stessa, durante uno dei suoi servizi, di alcuni giovani motociclisti - che le strappano il registratore e le bruciano l'automobile - Barbara è però turbata, soprattutto, da una misteriosa e sfuggente presenza: quella di un giovane che la segue dappertutto, apparendo e sparendo all'improvviso. Riuscita, finalmente, a parlargli, Barbara scopre che egli non ha cattive intenzioni nei suoi riguardi, ma è invece innamorato di lei. Membro di un'organizzazione di estremisti, i quali gli avevano ordinato di compiere un delitto politico, il giovane teme, non avendo avuto il coraggio di uccidere, le reazioni dei suoi compagni. Questa, infatti, non tarda a venire e il giovane paga la sua disobbedienza con la morte. Rivoltasi, invano, alla polizia, Barbara - presa ormai nella spirale della violenza - lo vendica uccidendo il capo degli estremisti.

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Politicizzato al massimo (si sentono canzoni comuniste, tra le quali riconosciamo la famosa "Contessa" di Pietrangeli). Non male l'interpretazione dei due personaggi (Clementi e Monica Vitti) ma film che francamente non lascia il segno. Insipido, diciamo mediocre.

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Un film sostanzialmente reazionario, insomma, che non rende giustizia a un autore impegnato come l'ungherese Jancso e che penalizza allo stesso modo la carriera di interpreti dotati e di primo livello quali la stessa vitti e soprattutto di Pierre Clementi, qui coprotagonista. Girato interamente in Italia, La pacifista sfoggia una serie di collaboratori tecnici del Belpaese; vale la pena citare l'operato di Giorgio Gaslini per la colonna sonora e quello di Carlo Di Palma per la fotografia, entrambi encomiabili; quest'ultimo era all'epoca il compagno della Vitti. Quanto a lei, aggiungere che per l'ennesima volta anche in questa sfortunata pellicola dimostra di essere un'attrice dalle potenzialità smisurate potrebbe apparire superfluo. Ma vale la pena di correre tale rischio.

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Extraparlamentare e (quasi) extratemporale. Lodevole l'originalità delle intenzioni: raccontare lo scontro tra opposti estremismi politici con un linguaggio assolutamente non naturalistico. Il risultato... un guazzabuglio fanta-politico, condito da dissertazioni filosofiche e teologiche. Potenza narrativa, minima. Vitti e Clementi molto al di sotto della loro media.

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Il film segna l'inizio della parabola discendente di Jancsò dopo essersi rivelato al mondo con pellicole ben più interessanti e riuscite. Come in passato la matrice della pellicola è politica, ma qui lo stile sobrio e rigoroso dell'ungherese è solo un lontano ricordo. Siamo invece dinanzi ad un pasticcio di grandi proporzioni che si prende troppo sul serio anche se prova a smorzare questo aspetto con qualche coloritura ironica non sempre riuscita. Meglio lasciar perdere anche i "discorsi" politici, spesso risibili e raffazzonati. La Vitti e Clementi sottotono. Bruttura d'autore.

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mercoledì 18 novembre 2020

Il fabbricante di gattini (Katzelmacher) - Rainer Werner Fassbinder

chissà l'effetto che ha fatto ai suoi tempi un film così diverso dagli altri film che si vedevano in giro.

un po' teatrale, un po' ripetitivo, abbastanza cattivo da scandalizzare il tedesco che viveva alle spalle degli immigrati, milioni e milioni negli anni '60.

la storia è quella di alcuni giovani un po' vitelloni, tristi, ubriaconi, che trattano le ragazze come fossero oggetti da scopare, e nulla più.

appare Jorgos (interpretato da Fassbinder), un immigrato greco, di poche tedesche parole, scambiato per un italiano dai giovani tedeschi.

solo Marie lo considera, e quei tedeschi annoiati, sempre alla ricerca di soldi, si risvegliano dal torpore perché in Jorgos hanno trovato un nemico.

ma come si fa a raccontare un film così?

guardatevelo, non ve ne pentirete - Ismaele

 

 

 

QUI il film completo, con sottotitoli in italiano

 

 

Inizio di stile documentaristico, quasi godardiano, forse esagerato, che proietta lo spettatore nel vuoto che questi giovani tedeschi vivono tutti i giorni. Giovani senza speranze e senza ambizioni che non fanno altro che pensare a perdere il loro tempo dietro a donne di facili costumi. Questa routine viene interrotta da un elemento estraneo al loro ambiente, uno straniero che sembra diverso da loro e che pagherá per il fatto di essersi intromesso nella loro esistenza vacua.
Uno dei primi film di Fassbinder, in cui si produce anche in veste di attore, che tratta in modo poco velato del tema della xenofobia che ancora attanaglia la Germania del tempo. Ma non solo. Si parla anche di invidia, di pettegolezzi che infangano, di gioventú bruciata.
Epiche quelle passeggiate con sottofondo di piano.

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Cibo, soldi , sesso , chiacchiere svuotate di senso, un vegetare più che vivere in attesa degli eventi.
Però quando questo particolare (dis)ordine precostituito viene "alterato" dalla presenza di un immigrato greco che vuole solo lavorare per mandare i soldi a casa, questa gioventù(per modo di dire, sono tutti trentenni o giù di lì)  ariana si ricompatta dietro lo scudo della xenofobia arrivando a pestare il giovane greco all'apice di un crescendo di pettegolezzi e falsità dette sul suo conto.
Girato in un bianco e nero molto contrastato e con una fotografia molto nitida è un film a cui è difficile avvicinarsi per la particolare struttura(evidente l'influenza godardiana) ma una volta entrati nella lunghezza d'onda di questa generazione piegata e disillusa , Il fabbricante di gattini lascia intravedere il talento accecante di Fassbinder in una disamina generazionale in cui prevalgono amarezza e accenti grotteschi.
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Ogni personaggio, in Il fabbricante di gattini, è chiuso con i suoi pensieri, isolato da un contesto invero vuoto e privo di significato, fatto di un arredamento sobrio e quasi assente su sfondi sempre bianchi chiari come in accecanti oblii. E l'arrivo dello straniero, interpretato proprio da Fassbinder, colora per un attimo le vite dei personaggi facendo focalizzare l'attenzione su di sé senza alcuna intenzione né interesse, facendo, in fondo, fare tutto a loro e alle dicerie svolazzanti che amano provocare e si deformano in bugie inclassificabili. Cosicché la vita, divenuta successione di inutili e "letali" riflessioni, si appiattisce in quadri di duro sarcasmo e abbacinante minimalismo, in cui è proprio il mantenimento dell'immobilità della mdp a dare paradossalmente "movimento" a uno stile apparentemente sobrio ma scoppiettante, straniante, sperimentale nel momento in cui gioca con i silenzi, tramortisce con le onnipresenti voci e avvolge nelle inestricabili intersezioni della figurale cecità umana.

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Katzelmacher è un’espressione bavarese spregiativa con cui venivano chiamati i lavoratori immigrati dell’Europa meridionale. L’appellativo allude alla loro presunta intensa prolificità, mentre l’etimologia corretta indica il “fabbricante di cazze“, artigiano proveniente per lo più dalla Val Gardena, specializzato nella produzione di mestoli (Gatzeln) in legno e in rame. Un’ulteriore etimologia deriva dallo svizzero-tedesco e individua specificatamente i lavoratori italiani (soprattutto del Sud) molto presenti dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’70 in tutta la Svizzera interna, con contratti stagionali. L’accezione è riferita appunto all’attitudine ad avere molti figli (Katzenmacher significa, infatti, “fabbrica gatti“).

Cominciare dal titolo, per parlare del secondo lungometraggio di Rainer Werner Fassbinder (il primo era L’amore è più freddo della morte, 1969), Katzelmacher (Il fabbricante di gattini), è utile per comprendere quanto disprezzo già serbava a ridosso degli anni ’70 la piccola borghesia della Germania Federale nei confronti dell’altro, di chi veniva percepito come non appartenente al proprio ordine di simbolico di riferimento. Nel film di Fassbinder il Katzelmacher (da lui stesso interpretato) viene appellato con termini assai dispregiativi, quali, per esempio, “negro” e “comunista”; fin dalla sua prima apparizione è visto come un elemento di disturbo, un pericolo che dev’essere estirpato, che non si esita a calunniare, pur di ridurlo a sacrificabile capro espiatorio…

…Con Katzelmacher Fassbinder inaugurava una nuova modalità di fare cinema, contrassegnata dalla possibilità di produrre opere a bassissimo costo e con grande velocità di esecuzione, a dimostrazione di come a fronte di un’idea di cinema (e non un cinema di idee) fosse possibile sganciarsi dai circuiti convenzionali, raggiungendo comunque risultati egregi. Un film, l’opera seconda del regista tedesco, da vedere e rivedere, su cui non smettere di tornare a meditare.

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Un'arguta critica alla società xenofoba, questo il secondo film di Fassbinder, forse troppo godardiano e ridondante in certi punti, ma riuscitissimo.
Ritratti curati e particolareggiati di trentenni nullafacenti tedeschi alla fine degli anni '60. La mancanza di ogni valore, interesse, aspirazione concreta, sensibilità, trova sfogo attraverso lo stigma per un immigrato greco (Fassbinder, eccezionale nel ruolo), in un crescendo di pettegolezzi e luoghi comuni beceri e insensati, uniti tra loro da sequenze a volte davvero geniali, perchè combinate in modo da dare un'idea di moltiplicazione e aumento dell'intensità, fino alla parte finale che ovviamente non svelo.
Scenografie volutamente asettiche, scevre di qualunque elemento di calore e conforto.
Grottesco e amaro, vale davvero la visione anche se ammetto che lo stile quasi documentaristico può risultare un pò indigesto soprattutto nella prima parte.

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Scopertissimo apologo antifascista, Il fabbricante di gattini, nella sua apparente banalità, nella sua rivendicazione di uno stile asciugato sino alla decolorazione di ambienti, anime e psicologie, è opera totalmente fassbinderiana, abitata da un’ironia ed una disperazione che, a volte, diventano indistinguibili. La telecamera inquadra i personaggi nella loro fissità e quasi li inchioda ad una vita che, infestata da elementi e manufatti interiori di bassa lega, si constata pervasa da noia e pochezza assolute. Il tocco di Fassbinder sta nell’ingenerare un senso di pietas verso le meschinità e le piccole corruzioni, nel lambire le disperazioni con un tocco di umorismo nerissimo e surreale (le voci che si rincorrono incontrollate e perlopiù false sulle caratteristiche del greco, le passeggiate delle varie coppie nel quartiere, a mostrare ed ostentare un impettimento che è semplice ansia di riconoscibilità sociale), nel lasciare che parlino, più che le immagini, dialoghi di pochezza programmatica in grado di rendere palpabile il disagio esistenziale di una società tedesca alla deriva.

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le cinéaste refuse tout drame ou tragédie et la bastonnade qui devait être l’acmé du film n’en est qu’un épisode sordide qui ne résout rien. Si la fin engage des projets (partir en Grèce, s’engager dans l’armée), on a des doutes sur leur réalisation tant leur quotidien poisseux les englue. Vision pessimiste, certes, aride, certes, qui fait par moments penser à une vision d’un enfer sans religion, sartrien si l’on veut. On pourra aussi y voir ce qui deviendra un leitmotiv dans la suite de sa carrière, la condamnation d’une société de petits bourgeois qui, comme le disait Flaubert, « pensent bassement », mais sans émotion ni grand discours. À sa manière lente et minimaliste, cette œuvre tout en retenue peut néanmoins toucher, bien qu’étouffante et singulièrement aride. Elle rend compte aussi à la fois d’un début d’un grand cinéaste et d’une certaine conception moderne du cinéma, exigeante mais passionnante.

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It should be noted that Fassbinder had to rely on state funding to make his films, and he can certainly be challenged for biting the hand that feeds him. The filmmaker’s attitude is that he’s an outsider and that even though outsiders are needed to bring new life to the stagnant German culture, they are never welcome. In order for Fassbinder to achieve success in this milieu, he aped the Hollywood director by organizing his own production base and made it function like the American studio system. As in most of his early films, Fassbinder fills the screen with despair and his subject matter themes always seem to be about the exploitation of feelings. Here, he does this in a highly stylized and artistic manner by examining the dynamics among couples from both “without” and “within” themselves. This film was the winner of the German Film Awards as outstanding feature film.

As in all Fassbinder films, there are slogans spoken by the characters or flashed across the screen. This film opens with the crawl: “It’s better to make new mistakes then to perpetuate old ones.” A bunch of aimless youths hang out in their neighborhood street and interact with each other in such a disarmingly comfortable way as only intimates can. The men act bored, macho and abusive toward the women; the women unhappily yearn for love and walk together arm in arm conveying a false sense of solidarity while talking harshly about the others and their own delusional aspirations…

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