Già premio per la regia a Cannes 1994, torna proprio in questi giorni al cinema quello che è forse, almeno per ora, il capolavoro di Nanni Moretti, cioè Caro Diario, in versione restaurata dalla Cineteca di Bologna per il progetto “cinema ritrovato”. Parafrasando un po’ quel proverbio tedesco di kunderiana memoria, si direbbe che «una volta sola, non basta». E, in effetti, passano gli anni, ma quegli altri film che gridavano cose orrende e violentissime si sono imbruttiti, e, infatti, non li cerca più (quasi) nessuno; mentre questo film, che evidentemente già allora diceva cose giuste, è divenuto uno splendido ventisettenne, e vale davvero la pena di stare qui ancora a parlarne.
Era il 1993, e Nanni Moretti tornava al
cinema quattro anni dopo Palombella Rossa (1989) e tre anni
dopo il documentario La Cosa (1990), cioè i suoi due film
forse più esplicitamente politici, che si occupavano, rispettivamente, della
crisi d’identità che la “sinistra” italiana stava attraversando durante il
crollo del “baraccone sovietico”, e, in seguito, della cosiddetta “svolta della
Bolognina”, e cioè del conseguente momento di riorganizzazione strutturale e
ideologica della stessa, nella figura di Achille Occhetto, ultimo segretario
del PCI. In linea coi tempi, anche questo ritorno segnò per il cinema di Nanni
Moretti una sorta di “cesura”, che è proprio spiegabile a partire dalla scelta
operata dal regista di optare per uno stile “diaristico” di narrazione, e
quindi direttamente personale. Cinque anni più tardi, ovvero con Aprile,
Moretti avrebbe ulteriormente confermato questa sua scelta stilistica, tornando
a parlare in prima persona, e rendendo quindi definitiva la separazione tra
Nanni Moretti medesimo e quello che, fino a quel momento, era stato il
suo alter ego cinematografico, tale Michele Apicella,
personaggio di fantasia che variava di età e professione in ogni suo film, e
che, in sostanza, era il paravento dietro cui il regista romano decide ora di
non ripararsi più.
In un momento storico di generale
“ritirata strategica”, il gesto di Moretti si distingue per non essere, appunto,
l’ennesimo abbandono di campo e di responsabilità; si tratta, semmai,
esattamente dell’opposto, e cioè di mettersi finalmente, e forse per la prima
volta, autenticamente in bella vista, e di fare questo senza abbandonare la
dimensione pubblica, ma rifiutando decisamente quelle nuove e poco convincenti
retoriche che stavano già sostituendo (e, di fatti, avrebbero poi sostituito) i
vecchi ideologismi “spiccioli” di partito (ai quali, per altro, il nostro non
ha mai fatto concessioni, neppure nei momenti di maggiore sua “corrispondenza”
con lo spirito dei tempi). Cogliendo, dunque, questa occasione per spogliarsi
di tutta una serie di “retoriche” che, nel bene e nel male, avevano dominato il
discorso pubblico italiano fino ad allora, Moretti riesce, attraverso lo
stratagemma narrativo della “forma-diario”, a dismettere i panni del “noi”, e a
dare voce, probabilmente anche con una certa sua personale sensazione di
sollievo, al Nanni persona e non personaggio, quindi finalmente a un “io” che,
respirando, fa probabilmente tirare un respiro anche a buona parte di una certa
generazione.
Una scelta, pertanto, tutt’altro che
elitaria; nulla a che vedere con una ritirata sull’Aventino, o con lo
“snobismo” spesso rimproverato dal mainstream di sinistra a
questi intellettuali (non molti, in verità) che, proprio per non dare forfait,
hanno però deciso di proseguire la propria lotta da soli, in una sorta di
richiamo alla “responsabilità personale” di ciascuno. A voler ben vedere,
questo certo momento di “maturazione” personale, aveva avuto, nel dibattito
pubblico italiano di qualche anno prima, uno straordinario precursore, e cioè
il caso della rivista di critica che, a metà degli anni ’80, due intellettuali
fuori dal coro come Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli avevano avuto
il coraggio di pensare e, soprattutto, di realizzare in totale autonomia, e
che, buffa coincidenza o forse no, si chiamava proprio Diario, e
cesserà le sue pubblicazioni proprio nel 1993.
Moretti, con questo film, ci tiene
dunque a mettere in chiaro che «non siamo tutti complici», come viene subito
detto in una delle primissime scene. A conti fatti, sono “complici” solo quelli
che tacciono, e quindi acconsentono; e cioè quelli che non sanno fare i conti
con sé stessi, per riscattare sé stessi, ovvero quella maggioranza con la quale
Moretti sente che non potrà mai legare.
Volendo ora scendere, brevemente, nel
dettaglio, la cosa che forse caratterizza di più questo film è la sua
struttura, divisa in tre parti. A loro volta, questi tre episodi, che sono
rispettivamente il resoconto di tre diverse tipologie di viaggio, sono
ulteriormente suddivise in tante piccole tappe, che il nostro affronta, una
dopo l’altra, ogni volta rendendoci partecipe delle sue introspezioni.
Il primo episodio, intitolato In
Vespa, è forse il più iconico del film, e rappresenta, come poi suggerisce
il titolo, un “fuga” del nostro Moretti dal tedio della noia afosa di agosto, e
cioè un vero e proprio tour della Roma semi-deserta di
quell’estate, in Vespa ovviamente; questa, confessa a noi e al suo caro diario
Nanni, è «la cosa che mi piace di più». Tracciando una vera e propria mappa dei
quartieri di Roma, dal centro storico sempre più a raggiera, fino alla
periferia («Spinaceto, pensavo peggio!») il nostro osserva le case e i palazzi
cambiare di forma, stile e dimensioni, e, stimolato nel suo vagabondare da
questa vista, senza nemmeno accorgersene trasforma questa “fuga nello spazio”
in una vera e propria “fuga nel tempo” e, per cosi dire “nel passato”,
incominciando a farsi alcune domande relative a come è cambiata Roma negli
ultimi anni, e arrivando poi fino al lido di Ostia, e cioè nel luogo dove,
alcuni anni prima, era stato assassinato Pasolini. Ogni luogo è così associato
ad una domanda, ad un ricordo, ad un desiderio irrealizzato, per esempio quello
di visitare l’interno di tutte quelle case che, viste da fuori, lo
incuriosiscono, oppure ad un rimpianto, ad una occasione che è andata perduta,
per esempio la possibilità di comprare e ristrutturare un certo attico in centro.
Se il primo episodio era un viaggio
all’indietro, con tinte amarcord, il secondo viaggio, Isole, è
invece un continuo muoversi in tondo, senza mai arrivare a nessuna destinazione
definitiva, in una sorta di nicciano “eterno ritorno dell’identico”, quasi un
presente che non si estingue mai. In questo episodio, Nanni va sull’isola di
Lipari per trovare un amico, studioso dell’Ulisse di James Joyce.
Non serve certo un grande acume per notare l’evidente parallelismo tra il poema
omerico e quella vera e propria “odissea” che anche i nostri due protagonisti,
da lì a poco, avrebbero intrapreso, da Lipari a Salina, l’isola dove i figli
hanno reso schiavi i genitori attraverso il controllo delle linee telefoniche,
e poi a Stromboli, dove la minacciosa presenza del vulcano rende tutti più
ostili, passando poi molto brevemente per Panarea, dove la fantasia è al potere
e organizza splendide feste del cattivo gusto; in conclusione di questo giro
quasi completo delle Eolie, l’isola di Alicudi, la più selvatica e inospitale,
che farà scappare a gambe levate l’amico di Nanni, convinto detrattore dei
programmi televisivi, che rivaluterà però la comodità dell’elettricità e
dell’acqua calda, e persino della televisione.
L’ultimo episodio, Medici, è
quello più esplicitamente auto-biografico, ed è la riproposizione su schermo di
una vera e propria via crucis, che Moretti ha realmente vissuto. Si
tratta della cronaca fedele degli innumerevoli tentativi compiuti dal nostro
per risolvere un problema di intenso prurito che lo tormentava, e che, dopo una
interminabile sequela di visite mediche, diagnosi errate, terapie e medicinali
inefficaci, rimedi omeopatici e della nonna (e persino un tentativo di medicina
cinese), si rivelerà essere un tumore, dapprima giudicato incurabile, e poi
invece scoperto essere benigno. In questo ulteriore viaggio, che è tutto un
proiettarsi “nel futuro” attraverso le ricette per stare bene, le visite e gli
ambulatori che, freneticamente, si sostituiscono l’uno all’altro, Nanni
arriverà a momenti di profondo sconforto, sentendosi totalmente in balia di una
“salute” che dovrebbe ripristinarsi, ma che, di fatto, non si ristabilisce,
tendendolo ostaggio di un avvenire sempre più carico di divieti («È per il tuo
bene!») e sempre più svuotato del suo carattere di possibilità, almeno fino al
(per fortuna) lieto fine. La situazione paradossale in cui decine di
professionisti non sono riusciti a vedere quello che avevano sotto il naso, fa
trarre a Nanni due riflessioni, e cioè che i medici sanno parlare ma non sanno
ascoltare, e che, come dice qualcuno, bere un bicchiere d’acqua la mattina,
prima di colazione, è una cosa che fa molto bene alla salute; come a dire che
la scienza, qualche volta, va presa per dosi, un po’ come le cure che essa
prescrive.
In ultima battuta, se Caro
Diario ci ricorda qualcosa, è proprio quanto sia importante, specie in
certi momenti, guardare dentro di noi, per capire cosa succede fuori. Vale la
pena davvero, finché si può, andarlo a rivedere, specie di questi tempi. E
dopo? Dopo, il dibattito. Sì! Il dibattito, sì!
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