venerdì 13 novembre 2020

Cinema e nonviolenza, una prospettiva ambientale. Prima parte: la filiera - Elena Camino

Un ciclo di incontri, dunque, per conoscere un cinema ‘diverso’? Si, ma forse non si tratta solo di questo. Collegare cinema e nonviolenza, se ci pensate, si può fare in tanti modi: si può riflettere sul prodotto finale, il film, e analizzare il tema trattato e la qualità del messaggio dal punto di vista delle componenti di violenza (diretta, strutturale, culturale) per capire se e come vengono proposte, esaltate o criticate. E in effetti questi aspetti sono stati ampiamente trattati negli incontri finora proposti da Dario Cambiano.  Si possono anche proporre e commentare film che portano messaggi di pace, che testimoniano lotte nonviolente…

Ma può essere interessante anche indagare su altri aspetti: per esempio sulle modalità di presentazione al pubblico: in una sala pubblica, in un circolo privato, o comodamente a casa in streaming.  Nella scelta della fruizione sono in qualche misura coinvolti anche gli utenti finali, che più o meno consapevolmente appoggiano oppure scoraggiano situazioni di violenza e di sfruttamento (per esempio delle condizioni di lavoro), oppure contribuiscono in diversa misura al consumo di energia e alla carbon footprint (1), condividendo in tal modo le pratiche insostenibili che stanno portando il nostro pianeta verso un nuovo assetto, che potrebbe risultare esiziale per l’umanità e per tanti altri viventi.

 

Violenza, nonviolenza, sostenibilità

Può essere utile – prima di proseguire – ricordare che oltre alla violenza diretta esistono altre forme di violenza: di queste si sono occupati, soprattutto negli ultimi decenni, molti studiosi e attivisti coinvolti in conflitti ambientali. Per esempio, Navas et al. (2) suggeriscono una comprensione multidimensionale della violenza, e individuano cinque categorie: la violenza diretta, strutturale e culturale (secondo lo schema di Galtung (3), già ricordato) cui aggiungono (a) la violenza ‘lenta’ proposta da Nixon (4) intesa come una distruzione ‘ritardata’ (nel tempo e/o nello spazio) della natura e delle persone (5); (b) la violenza ecologica, danno grave e permanente a socio-eco-sistemi, che alcuni definiscono anche con il termine di ‘ecocidio’ (6). 

L’estensione del concetto di violenza – dalla relazione tra esseri umani (individui o comunità) alla relazione che include le altre componenti del mondo che ci ospita (dal taglio del singolo albero all’avvelenamento di un fiume… fino alla fusione della calotta artica, con la perdita di habitat di alcune specie animali) – pone inevitabilmente in primo piano quello che fino poco tempo fa (e per alcuni ancora oggi) è stato considerato lo ‘sfondo’ inerte, lo scenario passivo e silenzioso nel quale tutte le azioni umane si realizzano: l’ambiente naturale.

Dalle ricerche scientifiche pubblicate fin dagli anni ’70 del 1900 sono emerse documentazioni di innumerevoli violenze esercitate su comunità umane e sull’ambiente: dallo scavo di enormi miniere a cielo aperto alla costruzione di grandi infrastrutture (dighe, aeroporti, impianti industriali); dall’appropriazione indebita di ampi territori sottratti a popolazioni native all’avvelenamento di terre e acque, c’è stato un succedersi di conflitti socio-ambientali che hanno accompagnato una sempre maggiore insostenibilità delle attività umane.  Un numero crescente di ricercatori-attivisti hanno raccolto e documentato negli ultimi anni più di 3.300 casi di conflitto socio-ambientale (EJAtlas – Global Atlas of Environmental Justice), classificandoli in base alle ragioni e tipologie di conflitto (per la terra, per le aree di pesca, contro inquinamenti, ecc.) e in base alle forme di violenza o nonviolenza manifestate.  L’inclusione dell’ambiente naturale nelle dinamiche conflittuali ha determinato l’inserimento di un nuovo filone nella produzione cinematografica, come vedremo nel prossimo articolo, e offre nuove prospettive di indagine sul tema ‘cinema e non violenza’.

 

Risposte nonviolente all’insostenibilità

Ma, tornando al tema dei conflitti ambientali, un aspetto molto interessante, e pertinente con la riflessione su violenza e nonviolenza, è il tipo e la qualità di risposta che le popolazioni indigene, le comunità locali, i gruppi di attivisti hanno dato finora per contrastare le varie forme di violenza di cui sono vittime. Da un’analisi elaborata sulla base dei casi raccolti nell’ EJAtlas nel 2015  emerge che le forme più frequenti di mobilitazione includono lettere di protesta, campagne pubbliche, formazione di reti per azioni collettive, coinvolgimento di Organizzazioni Non Governative (ONG) locali e internazionali. Dunque, in risposta ad attività violente, guidate da modelli socio-ambientali insostenibili, i conflitti provocano per lo più l’emergere di movimenti nonviolenti per la giustizia ambientale, le cui azioni mettono in luce usi impropri delle risorse, dannosi agli esseri umani e agli ambienti. Le azioni collettive di protesta e di resistenza nonviolenta possono inoltre contribuire alla transizione verso futuri più sostenibili. I riconoscimenti internazionali come il Goldman Environmental Prize, noto anche come ‘green Nobel’, o come l’Equator Prize dell’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo) testimoniano un’evidente connessione tra nonviolenza e sostenibilità.

 

La filiera della produzione filmica

Come avviene ormai per numerosi prodotti (dalle scarpe, al cibo, al telefono cellulare, all’auto) e processi (un viaggio,  un convegno, un’attività sportiva) è utile e conveniente seguire le tappe che ne illustrano il ciclo di vita, dal reperimento delle materie prime necessarie fino allo smaltimento finale dell’oggetto, o alla conclusione del processo.  Ricostruire le tappe consente di mettere in luce aspetti che rimarrebbero nascosti: in particolare – soprattutto nel caso di produzioni che veicolano informazioni, messaggi, spesso simboli di forte impatto culturale e sociale, come i libri, gli spettacoli teatrali, la musica – può essere utile investigare sul livello di coerenza tra modalità di confezione e messaggio del prodotto.

Questo discorso vale anche per il cinema: a monte del prodotto finale ci sono tante fasi del processo di ‘costruzione’ di un film in cui intervengono scelte dei finanziatori, dei produttori, delle maestranze, che possono essere analizzate nella prospettiva della violenza/nonviolenza e del grado di insostenibilità/sostenibilità socio-ambientale. 

Danni diretti alla location

Quando – analizzando le scene di un film – si include lo scenario, alcune forme di violenza emergono in modo esplicito, per esempio nell’allestimento di certe scene di  film d’azione,  come in The Blues Brothers, in cui fu distrutta una gran quantità di automobili.

Certo, in quel caso non si trattò di violenza verso le persone, ma di consumo di beni materiali per costruire i quali erano state utilizzate grandi quantità di energie e di materiali, che poi dovettero essere smaltiti: un impatto ambientale che poteva essere evitato, e che contribuì al degrado ambientale degli ambienti e dei viventi nell’area della location. Questo film non è certo l’unico in cui siano state utilizzate e poi buttate vie grandi quantità di oggetti (dai costumi di scena agli allestimenti per le scene).

Un danno diretto all’ambiente naturale, invece, è stato compiuto nell’allestimento dei set di numerosi film: quando Heinz Sielmann (fotografo e documentarista) girò il suo film in Congo nel 1960 (7), furono abbattuti moltissimi alberi nella foresta per consentire di avere luce sufficiente sul set (8). Per soddisfare le esigenze dei produttori e dei registi durante la produzione del film Mad Max sono state danneggiate le formazioni di dune sabbiose in Namibia.  Guy Castley, dell’Università australiana di Griffith, in un articolo del 2015 segnala una serie di danni che l’industria cinematografica ha ripetutamente causato nei luoghi naturali in cui vengono girate delle scene.

Sono stati segnalati anche altri esempi importanti di impatti negativi sull’ambiente: durante le riprese del film Pirates of the Caribbean: Dead Men Tell No Tales nel Queensland, in Australia, si sospetta che siano stati scaricati rifiuti chimici in grado di contaminare l’acqua locale; un appaltatore assunto durante la produzione di The Expendables 2 ha danneggiato un habitat di pipistrelli protetto nel 2011. Durante la produzione del film Titanic (1997), di fianco al villaggio di Popotla, in Messico, fu costruito un alto muro per impedire l’accesso al mare e tenere lontana la gente dal set (9). Inoltre il trattamento al cloro usato per l’acqua della location causò l’inquinamento delle acque marine circostanti, decimò l’industria locale di pesca di ricci di mare, e ridusse drasticamente la pescosità della zona.

Scene truccate del mondo naturale

Soprattutto nella storia della produzione dei film ‘naturalistici’, la crescente conoscenza scientifica sulle abitudini degli animali ha consentito di porre in atto pratiche di addomesticamento e di imprinting  che hanno interpellato la coscienza di produttori e spettatori sui risvolti etici di simili strategie.

Precauzioni e norme severe nell’uso di animali per riprese cinematografiche sono state fissate già molto tempo fa. Il Cinematograph Films (Animals) Act del 1937 stabiliva che “non può essere proiettato al pubblico nessun film che sia stato organizzato o diretto in modo tale da infliggere dolore o terrore ad alcun animale, o da averlo crudelmente incitato ad atti aggressivi” (10).  Tuttavia la crescente spettacolarizzazione delle scene naturalistiche, l’impegno finanziario per girare riprese in luoghi sempre più remoti e difficili, il tempo necessario per sorprendere situazioni di particolare fascino (molto apprezzate sembrano le scene di predazione!) rischiano di indurre le troupe a inserire qualche stratagemma, creando ad arte condizioni di ‘incontro ravvicinato’ – per esempio – tra predatore e preda. Un altro aspetto problematico, oggetto di discussione tra studiosi e cineasti, è quello dell’addestramento o della domesticazione di animali per poter girare particolari scene. è assai conosciuto il caso del film Il popolo migratore, molto apprezzato da critica e pubblico, che ha permesso di offrire al pubblico scene straordinarie di  uccelli in volo. I produttori si sono avvalsi della consulenza di scienziati esperti in Etologia, insieme ai quali hanno valutato le specie più adatte al progetto, le hanno allevate secondo i principi comportamentali elaborati nel corso degli anni Trenta dall’etologo Konrad Lorenz. L’autore e produttore Jacques Perrin, nelle interviste rilasciate, ha spiegato: “La strategia è stata quella di vivere a stretto contatto con molti di loro per almeno un anno, prima di iniziare a girare. Abbiamo scelto le uova, li abbiamo visti nascere e li abbiamo sottoposti al processo di “imprinting”. In questo siamo stati aiutati dallo straordinario contributo di molti studenti e ricercatori. Vestiti di giallo, con fischietti per i richiami, abbiamo svezzato gli uccelli e li abbiamo addestrati al volo, quasi come una madre. Li abbiamo fatti abituare alla nostra presenza e al rumore del motore dei deltaplani che abbiamo utilizzato per le riprese in aria. In qualche caso abbiamo perfino dormito con loro, nelle gabbie”. L’imprinting ha certamente interferito nella vita e negli orientamenti di questi uccelli: adattati a stare con gli umani, non sappiamo quale sia stato il loro destino dopo la conclusione delle riprese cinematografiche.

A volte – come ricorda Cristina Giacoma, docente di Etologia – gli animali possono essere attirati nei luoghi di ripresa con dei “trucchi”, come l’uso di esche alimentari. Questi trucchi, ovviamente, facilitano le riprese attirando l’animale a portata di obiettivo e facendogli esprimere il comportamento desiderato. Questi stratagemmi sono solo apparentemente innocui. Nel caso in cui vengano utilizzati su animali non abituati alla presenza umana, essi possono rappresentare un pericolo per il loro benessere e la stessa vita. Si tratta di interferenze nel comportamento che possono avere come conseguenza, ad esempio, l’alterazione di equilibri nel gruppo sociale o la trasmissione di malattie.

Viaggi planetari

Sempre più, negli ultimi decenni, la produzione cinematografica ha utilizzato una varietà di luoghi adatti come location, situati in aree del mondo anche molto diverse: riprendendo l’esempio del film Il popolo migratore, apprendiamo che il regista ha percorso in lungo e in largo i cinque continenti accompagnato da sei troupe cinematografiche, quindici operatori, dodici piloti e decine di consulenti. Tre anni di riprese e uno di montaggio. Oltre 450 persone coinvolte e un budget di circa 25 milioni di euro. Nessuno ha calcolato quanta è stata la produzione di gas con effetto serra emessa in tutti quegli spostamenti!

Come segnala Kyle Fitzpatrick in un recente articolo, la pre-produzione del film Jurassic World: Fallen Kingdom è iniziata nel 2015 e ha incluso lo scrittore del film che ha intrapreso un viaggio attraverso il paese per scoprire i dettagli della storia e un viaggio di lavoro di quattro settimane a Barcellona, dove il regista J. A. Bayona e lo scenografo Andy Nicholson hanno individuato elementi visivi come la scenografia e le inquadrature. Nel 2016 è iniziata la ricerca di location per le riprese a livello internazionale – con visite in Perù ed Ecuador – e alla fine sono stati costruiti enormi set su un palcoscenico in Inghilterra e alle Hawaii. La creazione del film ha richiesto spostamenti aerei di centinaia di membri dello staff in reparti come arte, costumi, effetti speciali e montaggio in vari luoghi in tutto il mondo, con l’emissione di una grandissima quantità di CO2 e la produzione di un’enorme quantità di rifiuti.

 

Una nuova sensibilità ambientale nella produzione

Negli ultimi decenni è molto aumentata la sensibilità degli operatori che operano nell’industria cinematografica, in parte grazie a nuove norme che devono essere rispettate, in parte grazie alla creazione di gruppi e associazioni che offrono consulenze e servizi per ridurre l’impatto ambientale.  Anche all’interno stesso di alcune case di produzione sono state avviate regole e procedure per rendere i prodotti più sostenibili: soprattutto chi produce film di denuncia e/o di salvaguardia dell’ambiente, cerca sempre di più di trovare coerenza tra i propri modi di lavorare e i messaggi che propone al pubblico.

Servizi di consulenza

Come osserva Emille O’Brien, fondatrice del servizio di consulenza Earth Angels, “immagina una scena che debba rappresentare un pranzo di gala: bisogna comprare i fiori, gli abiti, gli addobbi, la carta da parati… e anche cose che servono fuori dal set, come batterie, nastro adesivo, ritardanti di fiamma, corde e cibo e bevande, forniture per ufficio ed elettronica. E alla fine, sul set rimangono bottiglie d’acqua di plastica vuote, vassoi di cibo da catering non consumato che vengono gettati nella spazzatura, e interi set personalizzati che vengono caricati nei cassonetti”.

Earth Angels, che opera negli Stati Uniti, offre una rosa di servizi che vanno dalla riduzione dei consumi (economia circolare), alla collaborazione con associazioni locali per il recupero e riuso dei materiali, dalla scelta di impianti a basso consumo energetico a corsi di formazione per lo staff. Come Earth Angels, si stanno moltiplicando le ditte che offrono alle case produttrici di film e TV consulenze e servizi: Albert, per esempio, propone di lottare insieme contro il cambiamento climatico, riunendo le industrie del cinema e della TV per affrontare il nostro impatto ambientale e ispirare il pubblico dello schermo ad agire per un futuro sostenibile. Altri esempi sono citati da Maeve Campbell. L’Ontario Green Screen, che opera in Canada, è un’iniziativa di collaborazione tra governo, partner industriali, sindacati, corporazioni, associazioni di categoria e aziende, che si sforza di apportare cambiamenti duraturi nel settore e di consentire a individui, società di produzione e studi di fare scelte sostenibili.

La Green Production Guide, fondata nel 2010 con lo scopo di aiutare l’industria dell’intrattenimento a ridurre le emissioni di CO2 e l’impatto ambientale, è un consorzio delle maggiori compagnie di produzione di Hollywood. 

Insomma, dalle piccole associazioni indipendenti ai colossi dell’industria cinematografica, sembra vi sia una crescente consapevolezza della necessità di assumere maggiori responsabilità per contribuire a un futuro più sostenibile.

Incentivi e premi

Numerose iniziative sono state avviate negli ultimi anni per aiutare l’industria cinematografica a contribuire concretamente alla riduzione degli effetti serra. Sono state inventate delle ‘qualifiche di qualità’ che i produttori possono ricevere se rispettano una serie di regole di rispetto ambientale e di riduzione degli impatti in tutte le fasi  di costruzione dei film. Ne segnalo solo alcune, tra le tante ormai presenti.

L’Amministrazione Pubblica tedesca ha intrapreso, all’inizio del 2020,  un’iniziativa comune con il Green ShootingWorkingGroup: è stato messo a punto un programma che prevede l’assegnazione di un certificato di sostenibilità e la produzione di un centinaio di film su temi ecologici nei prossimi due anni – con elettricità verde, veicoli a basse emissioni, meno generatori diesel e meno viaggi aerei, uffici senza carta, ristorazione sostenibile, raccolta differenziata dei rifiuti e illuminazione a basso consumo energetico. 

GREEN FILM nasce dall’esperienza sviluppata in Italia dalla Trentino Film Commission che, dal 2017 mette a disposizione delle produzioni T-Green Film, un disciplinare mediante il quale i produttori possono dimostrare il loro approccio green e ricevere sia una certificazione di sostenibilità ambientale, sia un contributo economico per premiare il loro impegno per il rispetto dell’ambiente.

EcoMuvi, proposto dallo Studio Tempesta, è un disciplinare di sostenibilità per il cinema interamente certificabile: analizza tutte le fasi di produzione nei diversi reparti e per ciascuna propone pratiche attive di riduzione dell’impatto ambientale; questo processo agevola la transizione verso una maggiore sostenibilità della produzione audiovisiva sul lungo termine.  La prima eco-produzione italiana a livello internazionale è stato il film “Le Meraviglie” di Alice Rohrwacher, che ha seguito l’iter disciplinare EcoMuvi, l’unico disciplinare europeo di sostenibilità ambientale certificato per la produzione cinematografica. Grazie al sostegno del T-Green Film (Trentino Green Film), inoltre, è nato il primo fondo regionale italiano che premia e certifica le produzioni cinematografiche che lavorano nel rispetto dell’ambiente. 

Guide, articoli, libri

Sia a livello di ricerca, che nelle pubblicazioni divulgative si sono moltiplicate le informazioni sulla sostenibilità dell’industria cinematografica. Opuscoli disponibili su web forniscono indicazioni dettagliate sulle strategie da mettere in atto per una produzione cinematografica ‘verde’: oltre a quelli sopra citati, un altro esempio tra i tanti è Bigger Picture Research, una società inglese di consulenza che fornisce servizi di ricerca, valutazione e pianificazione strategica ai settori delle industrie creative, dell’arte e della cultura.

A livello accademico si trovano interessanti contributi di ricerca. Jonathan Victory, in un articolo pubblicato nel 2015, dopo aver evidenziato le sfide che l’industria cinematografica mondiale deve affrontare e aver segnalato alcune iniziative recenti all’interno dell’industria cinematografica internazionale, segnala il ruolo emergente di un membro della troupe (designato ‘eco-manager’) che dovrebbe sovrintendere alle iniziative ambientali sul set.

In un libro pubblicato nel 2012 i due Autori di Greening the Media (11) – prendendo in considerazione non solo le produzioni di film ma i media più in generale – smontano l’idea che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC) siano pulite ed ecologicamente benigne, e mostrano come la realtà fisica di produrle, consumarle e scartarle sia piena di ingredienti tossici, condizioni di lavoro velenose e rifiuti pericolosi. Ma, senza scoraggiarsi, propongono modi creativi per risolvere i problemi, sollecitando i lettori a partecipare all’opera di greening. Recentissimo, del 2019, è un libro scritto da Hunter Vaughan (12) sui costi nascosti dei film: l’Autore fa notare la natura ambivalente del prodotto cinematografico, che è contemporaneamente un mezzo potente per parlare di problemi ambientali, e nello stesso tempo una delle cause di tali problemi.

Percorsi educativi

Un interessante spunto per insegnanti ed educatori viene da un docente universitario americano, Craig Uhlin, che illustra la struttura di due lezioni che tiene abitualmente ai suoi studenti. Dopo aver parlato in classe di documentari naturalistici e di crisi ambientali, Uhlin introduce il tema della sostenibilità del mezzo, per riflettere insieme ai giovani dei modi in cui la produzione stessa di immagini è implicata nell’economia ‘lineare’ e nell’utilizzo dei combustibili fossili.

Come si vedrà nel prossimo paragrafo, un aspetto ambientalmente assai critico dell’uso dei media è la crescente possibilità di acquisire materiale audiovisivo ‘scaricandolo’ da internet in streaming. Lucas Hilderbrand, che fa parte di un gruppo di studiosi che si occupano di calcolare il carico ambientale di questa moderna tecnologia, in un breve articolo dal titolo ‘Cinema and Media Pedagogy in the Streaming Era’ osserva che – come docente – ha scarse capacità di modificare le fonti energetiche che alimentano le reti informatiche, né riesce a influenzare i responsabili al governo a regolamentare più rigidamente le emissioni di gas serra.  Quello che può fare è invece educare gli studenti, insegnando loro a capire e a misurare gli impatti ambientali dei media che utilizzano. E offre alcuni suggerimenti pedagogici, nella speranza di ispirare i colleghi a sviluppare a loro volta percorsi educativi autonomi.

 

Comodo vedere i film da casa…

I miglioramenti tecnologici, e l’estendersi delle infrastrutture permettono ormai di svolgere tantissime attività – lavorative e di intrattenimento – attraverso internet. Anche prima che la pandemia trasformasse le nostre abitudini, in molti apprezzavamo la comodità di guardarci un bel film standocene comodamente a casa. Dall’inizio di ottobre, con l’aumentare dei casi di COVID 19, sono cresciute le offerte di film da vedere in streaming, come si legge nel sito di Esquire: “The Best Movies of 2020 (So Far) Most of these you can stream from home right now. Here Are the 2020 Movies Streaming Online Early Due to the Coronavirus”.

Ma l’uso informatico dei media, oltre ad avere un costo economico, ha anche un costo ambientale.

In generale, la carbon footprint di ciascun utilizzatore di internet comprende diverse attività: oltre a scambiarsi mail, consente di  ascoltare musica in streaming, postare su twitter, acquistare un e-book, leggere le ultime notizie online, vedere film con Netflix (13)… I data center che ospitano siti di streaming (come Netflix, Youtube e Facebook) consumano in un anno circa l’1% dell’elettricità mondiale: una percentuale destinata rapidamente a crescere. Le fonti energetiche che alimentano i data center derivano ancora per l’80% dai combustibili fossili.

Secondo la Cisco (14) Annual Internet Report 2020, nel 2023 quasi due terzi della popolazione globale avranno accesso a Internet: 5,3 miliardi di utilizzatori, a confronto con i 3 miliardi del 2018. E il fascino della velocità incoraggerà sempre più gli utenti a dotarsi di strumenti utili (e di accettare l’installazione di infrastrutture sempre più numerose e vicine…).  Proprio il sito di Cisco fornisce alcuni dati significativi:  per eseguire il download di un film HD occorrono 20 minuti alla velocità di 10 Mbps; 9 minuti a 25 Mbps; solo 2 minuti a 100 Mbps. Ma queste velocità richiederanno sempre più energia per funzionare, e produrranno una crescente quantità di CO2.

Un gruppo di brevi articoli pubblicati pochi mesi fa da alcuni studiosi e studiose riguardano proprio gli effetti ambientali negativi dei media in streaming: uno riguarda la produzione di CO2, che in conseguenza alla pandemia (e alla chiusura di cinema e teatri) è aumentata pericolosamente; l’altro fattore riguarda gli effetti deleteri della crescente esposizione delle persone a più alti livelli di frequenze elettromagnetiche, favorita dalla scelta delle multinazionali dei media (e dei governi…) di sviluppare la tecnologia wireless 5G. Gli effetti negativi sono ben documentati, eppure quasi universalmente ignorati. Nonostante tutto ciò, continua a prevalere l’idea che i media digitali sono immateriali e non nocivi.

Un’azione – piccola ma efficace se moltiplicata per il numero di utenti! – di nonviolenza nei confronti dell’ambiente potrebbe essere quella di ‘download invece di stream’, e di connettersi al Wi-Fi invece che al sistema wireless 4G (o, peggio, 5G).

 

Che ‘natura’ propone il cinema?

Abbiamo esplorato alcuni aspetti della relazione tra cinema e ambiente, cercando di capire se e come la produzione stessa di un film può essere riconosciuta come violenta o nonviolenta nei confronti della natura.  Se ora spostiamo l’attenzione verso i messaggi, espliciti o nascosti, che un film invia al pubblico, si aprono altre interessanti prospettive di riflessione. In primo luogo, è difficile ormai inserire in una sola categoria i film ‘naturalistici’: oltre ai classici ‘documentari’, ci sono film che illustrano situazioni problematiche e denunciano danni ambientali; altri propongono aspetti e scenari catastrofisti. Altri ancora hanno l’obiettivo di suscitare iniziative di salvaguardia da parte del pubblico, oppure utilizzano le problematiche ambientali per proporre storie e situazioni complesse, o fantascientifiche. Un tema vasto, al quale proveremo ad avvicinarci alla prossima puntata, con l’obiettivo di indagare sulle componenti violente o nonviolente (esplicite o nascoste) dei contenuti e delle immagini.

 

Note

 (1) La carbon footprint è una misura che esprime in CO2 equivalente il totale delle emissioni di gas ad effetto serra associate direttamente o indirettamente a un prodotto, un’organizzazione o un servizio.

(2)  Navas, G., S. Mingorria, and B. Aguilar-González. Violence in Environmental Conflicts: The Need for a Multidimensional Approach.? Sustainability Science 13 (3): 649-660 (2018).

(3)  Galtung, J., Violence, peace, and peace research.? Journal of Peace Research 6 (3): 167-191 (1969).

(4)  Nixon, R. Slow Violence and the Environmentalism of the Poor. Cambridge: Harvard University Press (2011).

(5)  Il Centre for Science and Environment (CSE) con sede a Delhi, in India, aveva già introdotto, fin dagli anni ‘90 del secolo scorso,  il termine di ‘lento assassinio’ nel caso di avvelenamenti da polveri sottili nell’aria delle città, o da prodotti chimici tossici usati in agricoltura.

(6)  Concetto introdotto da Polly Higgins, avvocata scozzese: “la distruzione, il danneggiamento o la perdita su larga scala di uno o più ecosistemi di un determinato territorio, che sia per cause umane o altre cause, tale per cui il godimento pacifico dello stesso da parte dei suoi occupanti viene gravemente ridotto”. Sono in atto crescenti pressioni internazionali per considerarlo un crimine, perseguibile per legge.

(7) Lords of the Forest (meglio noto in USA con il titolo Masters of the Congo Jungle).

(8) Citato da Networks of Nature: Stories of Natural History Film-Making from the BBC Gail Davies, tesi di dottorato, University College London 1998.

(9) Vaughan Hunter, Hollywood’s Dirtiest Secret. The Hidden Environmental Costs of the Movies. Columbia University Press, 2019.

(10) Shelley Bradley, report on the Legal Consideration Regarding the Filming and Televising of Animals, Natural History Unit Library.

(11) Maxwell Richard and Miller Toby, Greening the Media, New York, NY: Oxford University Press, 2012.

(12) Hollywood’s Dirtiest Secret The Hidden Environmental Costs of the Movies, Columbia University Press, 2019.

(13) Netflix è una società operante nella distribuzione via internet di film, serie televisive e altri contenuti d’intrattenimento a pagamento.

(14) Un’azienda multinazionale specializzata nella fornitura di apparati di networking.

 

da qui

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