Un ciclo di incontri, dunque, per conoscere un cinema ‘diverso’? Si, ma forse non si tratta solo di questo. Collegare cinema e nonviolenza, se ci pensate, si può fare in tanti modi: si può riflettere sul prodotto finale, il film, e analizzare il tema trattato e la qualità del messaggio dal punto di vista delle componenti di violenza (diretta, strutturale, culturale) per capire se e come vengono proposte, esaltate o criticate. E in effetti questi aspetti sono stati ampiamente trattati negli incontri finora proposti da Dario Cambiano. Si possono anche proporre e commentare film che portano messaggi di pace, che testimoniano lotte nonviolente…
Ma può essere interessante anche indagare su altri aspetti: per esempio
sulle modalità di presentazione al pubblico: in una sala pubblica, in un
circolo privato, o comodamente a casa in streaming. Nella
scelta della fruizione sono in qualche misura coinvolti anche gli utenti
finali, che più o meno consapevolmente appoggiano oppure scoraggiano situazioni
di violenza e di sfruttamento (per esempio delle condizioni di lavoro), oppure
contribuiscono in diversa misura al consumo di energia e alla carbon
footprint (1), condividendo in tal modo le pratiche insostenibili che
stanno portando il nostro pianeta verso un nuovo assetto, che potrebbe
risultare esiziale per l’umanità e per tanti altri viventi.
Violenza,
nonviolenza, sostenibilità
Può essere utile – prima di proseguire – ricordare che oltre alla
violenza diretta esistono altre forme di violenza: di queste si sono occupati,
soprattutto negli ultimi decenni, molti studiosi e attivisti coinvolti in
conflitti ambientali. Per esempio, Navas et al. (2) suggeriscono una
comprensione multidimensionale della violenza, e individuano cinque categorie:
la violenza diretta, strutturale e culturale (secondo lo schema di Galtung (3),
già ricordato) cui aggiungono (a) la violenza ‘lenta’ proposta da Nixon (4)
intesa come una distruzione ‘ritardata’ (nel tempo e/o nello spazio) della
natura e delle persone (5); (b) la violenza ecologica, danno grave e permanente
a socio-eco-sistemi, che alcuni definiscono anche con il termine di ‘ecocidio’
(6).
L’estensione del concetto di violenza – dalla relazione tra esseri umani
(individui o comunità) alla relazione che include le altre componenti del mondo
che ci ospita (dal taglio del singolo albero all’avvelenamento di un fiume…
fino alla fusione della calotta artica, con la perdita di habitat di alcune
specie animali) – pone inevitabilmente in primo piano quello che fino poco
tempo fa (e per alcuni ancora oggi) è stato considerato lo ‘sfondo’ inerte, lo
scenario passivo e silenzioso nel quale tutte le azioni umane si realizzano:
l’ambiente naturale.
Dalle ricerche scientifiche pubblicate fin dagli anni ’70 del 1900 sono
emerse documentazioni di innumerevoli violenze esercitate su comunità umane e
sull’ambiente: dallo scavo di enormi miniere a cielo aperto alla costruzione di
grandi infrastrutture (dighe, aeroporti, impianti industriali);
dall’appropriazione indebita di ampi territori sottratti a popolazioni native
all’avvelenamento di terre e acque, c’è stato un succedersi di conflitti
socio-ambientali che hanno accompagnato una sempre maggiore insostenibilità
delle attività umane. Un numero crescente di ricercatori-attivisti hanno
raccolto e documentato negli ultimi anni più di 3.300 casi di conflitto socio-ambientale
(EJAtlas – Global
Atlas of Environmental Justice), classificandoli in base alle
ragioni e tipologie di conflitto (per la terra, per le aree di pesca, contro
inquinamenti, ecc.) e in base alle forme di violenza o nonviolenza
manifestate. L’inclusione dell’ambiente naturale nelle dinamiche
conflittuali ha determinato l’inserimento di un nuovo filone nella produzione
cinematografica, come vedremo nel prossimo articolo, e offre nuove prospettive
di indagine sul tema ‘cinema e non violenza’.
Risposte nonviolente
all’insostenibilità
Ma, tornando al tema dei conflitti ambientali, un aspetto molto
interessante, e pertinente con la riflessione su violenza e nonviolenza, è il
tipo e la qualità di risposta che le popolazioni indigene, le comunità locali,
i gruppi di attivisti hanno dato finora per contrastare le varie forme di
violenza di cui sono vittime. Da un’analisi elaborata sulla base dei casi
raccolti nell’ EJAtlas nel 2015 emerge
che le forme più frequenti di mobilitazione includono lettere di protesta,
campagne pubbliche, formazione di reti per azioni collettive, coinvolgimento di
Organizzazioni Non Governative (ONG) locali e internazionali. Dunque, in
risposta ad attività violente, guidate da modelli socio-ambientali
insostenibili, i conflitti provocano per lo più l’emergere di movimenti
nonviolenti per la giustizia ambientale, le cui azioni mettono in luce usi
impropri delle risorse, dannosi agli esseri umani e agli ambienti. Le azioni
collettive di protesta e di resistenza nonviolenta possono inoltre contribuire
alla transizione verso futuri più sostenibili. I riconoscimenti internazionali
come il Goldman Environmental Prize, noto anche come ‘green Nobel’, o come
l’Equator Prize dell’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo)
testimoniano un’evidente connessione tra nonviolenza e sostenibilità.
La filiera della
produzione filmica
Come avviene ormai per numerosi prodotti (dalle scarpe, al cibo, al
telefono cellulare, all’auto) e processi (un viaggio, un convegno,
un’attività sportiva) è utile e conveniente seguire le tappe che ne illustrano
il ciclo di vita, dal reperimento delle materie prime necessarie fino allo
smaltimento finale dell’oggetto, o alla conclusione del processo.
Ricostruire le tappe consente di mettere in luce aspetti che rimarrebbero
nascosti: in particolare – soprattutto nel caso di produzioni che veicolano
informazioni, messaggi, spesso simboli di forte impatto culturale e sociale,
come i libri, gli spettacoli teatrali, la musica – può essere utile investigare
sul livello di coerenza tra modalità di confezione e messaggio del prodotto.
Questo discorso vale anche per il cinema: a monte del prodotto finale ci
sono tante fasi del processo di ‘costruzione’ di un film in cui intervengono
scelte dei finanziatori, dei produttori, delle maestranze, che possono essere
analizzate nella prospettiva della violenza/nonviolenza e del grado di
insostenibilità/sostenibilità socio-ambientale.
Danni diretti alla location
Quando – analizzando le scene di un film – si include lo scenario, alcune
forme di violenza emergono in modo esplicito, per esempio nell’allestimento di
certe scene di film d’azione, come in The Blues Brothers,
in cui fu distrutta una gran quantità di automobili.
Certo, in quel caso non si trattò di violenza verso le persone, ma di
consumo di beni materiali per costruire i quali erano state utilizzate grandi
quantità di energie e di materiali, che poi dovettero essere smaltiti: un
impatto ambientale che poteva essere evitato, e che contribuì al degrado
ambientale degli ambienti e dei viventi nell’area della location.
Questo film non è certo l’unico in cui siano state utilizzate e poi buttate vie
grandi quantità di oggetti (dai costumi di scena agli allestimenti per le
scene).
Un danno diretto all’ambiente naturale, invece, è stato compiuto
nell’allestimento dei set di numerosi film: quando Heinz
Sielmann (fotografo e documentarista) girò il suo film in Congo nel 1960
(7), furono abbattuti moltissimi alberi nella foresta per consentire di
avere luce sufficiente sul set (8). Per soddisfare le esigenze dei produttori e
dei registi durante la produzione del film Mad Max sono
state danneggiate le formazioni di dune sabbiose in Namibia.
Guy Castley, dell’Università australiana di Griffith, in un articolo del 2015 segnala una serie di danni che l’industria cinematografica
ha ripetutamente causato nei luoghi naturali in cui vengono girate delle scene.
Sono stati segnalati anche altri esempi importanti di impatti negativi sull’ambiente: durante le riprese del film Pirates
of the Caribbean: Dead Men Tell No Tales nel Queensland, in Australia,
si sospetta che siano stati scaricati rifiuti chimici in grado di contaminare
l’acqua locale; un appaltatore assunto durante la produzione di The Expendables
2 ha danneggiato un habitat di pipistrelli protetto nel
2011. Durante la produzione del film Titanic (1997), di fianco al
villaggio di Popotla, in Messico, fu costruito un alto muro per impedire
l’accesso al mare e tenere lontana la gente dal set (9). Inoltre il trattamento
al cloro usato per l’acqua della location causò l’inquinamento
delle acque marine circostanti, decimò l’industria locale di pesca di ricci di
mare, e ridusse drasticamente la pescosità della zona.
Scene truccate del mondo naturale
Soprattutto nella storia della produzione dei film ‘naturalistici’, la crescente conoscenza scientifica sulle abitudini degli animali ha consentito di porre in atto pratiche di addomesticamento e di imprinting che hanno interpellato la coscienza di produttori e spettatori sui risvolti etici di simili strategie.
Precauzioni e norme severe nell’uso di animali per riprese cinematografiche
sono state fissate già molto tempo fa. Il Cinematograph Films (Animals)
Act del 1937 stabiliva che “non può essere proiettato al pubblico nessun
film che sia stato organizzato o diretto in modo tale da infliggere dolore o
terrore ad alcun animale, o da averlo crudelmente incitato ad atti aggressivi”
(10). Tuttavia la crescente spettacolarizzazione delle scene
naturalistiche, l’impegno finanziario per girare riprese in luoghi sempre più
remoti e difficili, il tempo necessario per sorprendere situazioni di
particolare fascino (molto apprezzate sembrano le scene di predazione!)
rischiano di indurre le troupe a inserire qualche stratagemma, creando ad arte
condizioni di ‘incontro ravvicinato’ – per esempio – tra predatore e
preda. Un altro aspetto problematico, oggetto di discussione tra studiosi
e cineasti, è quello dell’addestramento o della domesticazione di animali per
poter girare particolari scene. è assai conosciuto il caso del film Il
popolo migratore, molto apprezzato da critica e pubblico, che ha permesso
di offrire al pubblico scene straordinarie di uccelli in volo. I
produttori si sono avvalsi della consulenza di scienziati esperti in Etologia,
insieme ai quali hanno valutato le specie più adatte al progetto, le hanno
allevate secondo i principi comportamentali elaborati nel corso degli anni
Trenta dall’etologo Konrad Lorenz. L’autore e produttore Jacques Perrin,
nelle interviste rilasciate, ha spiegato: “La strategia è
stata quella di vivere a stretto contatto con molti di loro per almeno un anno,
prima di iniziare a girare. Abbiamo scelto le uova, li abbiamo visti nascere e
li abbiamo sottoposti al processo di “imprinting”. In questo siamo stati
aiutati dallo straordinario contributo di molti studenti e ricercatori. Vestiti
di giallo, con fischietti per i richiami, abbiamo svezzato gli uccelli e li
abbiamo addestrati al volo, quasi come una madre. Li abbiamo fatti abituare
alla nostra presenza e al rumore del motore dei deltaplani che abbiamo
utilizzato per le riprese in aria. In qualche caso abbiamo perfino dormito con
loro, nelle gabbie”. L’imprinting ha certamente
interferito nella vita e negli orientamenti di questi uccelli: adattati a stare
con gli umani, non sappiamo quale sia stato il loro destino dopo la conclusione
delle riprese cinematografiche.
A volte – come ricorda Cristina Giacoma, docente di Etologia – gli animali possono
essere attirati nei luoghi di ripresa con dei “trucchi”, come l’uso di esche
alimentari. Questi trucchi, ovviamente, facilitano le riprese attirando
l’animale a portata di obiettivo e facendogli esprimere il comportamento
desiderato. Questi stratagemmi sono solo apparentemente innocui. Nel caso in
cui vengano utilizzati su animali non abituati alla presenza umana, essi
possono rappresentare un pericolo per il loro benessere e la stessa vita. Si tratta
di interferenze nel comportamento che possono avere come conseguenza, ad
esempio, l’alterazione di equilibri nel gruppo sociale o la trasmissione di
malattie.
Viaggi planetari
Sempre più, negli ultimi decenni, la produzione cinematografica ha utilizzato
una varietà di luoghi adatti come location, situati in aree del
mondo anche molto diverse: riprendendo l’esempio del film Il popolo
migratore, apprendiamo che il regista ha percorso in lungo e
in largo i cinque continenti accompagnato da sei troupe cinematografiche,
quindici operatori, dodici piloti e decine di consulenti. Tre anni di riprese e
uno di montaggio. Oltre 450 persone coinvolte e un budget di circa 25 milioni
di euro. Nessuno ha calcolato quanta è stata la produzione di gas con
effetto serra emessa in tutti quegli spostamenti!
Come segnala Kyle Fitzpatrick in un recente articolo, la pre-produzione del film Jurassic World:
Fallen Kingdom è iniziata nel 2015 e ha incluso lo scrittore del film
che ha intrapreso un viaggio attraverso il paese per scoprire i dettagli della
storia e un viaggio di lavoro di quattro settimane a Barcellona, dove il
regista J. A. Bayona e lo scenografo Andy Nicholson hanno individuato elementi
visivi come la scenografia e le inquadrature. Nel 2016 è iniziata la
ricerca di location per le riprese a livello
internazionale – con visite in Perù ed Ecuador – e alla fine sono stati
costruiti enormi set su un palcoscenico in Inghilterra e alle Hawaii. La
creazione del film ha richiesto spostamenti aerei di centinaia di membri dello
staff in reparti come arte, costumi, effetti speciali e montaggio in vari
luoghi in tutto il mondo, con l’emissione di una grandissima quantità di CO2 e
la produzione di un’enorme quantità di rifiuti.
Una nuova sensibilità
ambientale nella produzione
Negli ultimi decenni è molto aumentata la sensibilità degli operatori che
operano nell’industria cinematografica, in parte grazie a nuove norme che
devono essere rispettate, in parte grazie alla creazione di gruppi e
associazioni che offrono consulenze e servizi per ridurre l’impatto
ambientale. Anche all’interno stesso di alcune case di produzione sono
state avviate regole e procedure per rendere i prodotti più sostenibili:
soprattutto chi produce film di denuncia e/o di salvaguardia dell’ambiente,
cerca sempre di più di trovare coerenza tra i propri modi di lavorare e i
messaggi che propone al pubblico.
Servizi di consulenza
Come osserva Emille O’Brien, fondatrice del servizio di
consulenza Earth Angels, “immagina una
scena che debba rappresentare un pranzo di gala: bisogna comprare
i fiori, gli abiti, gli addobbi, la carta da parati… e anche cose che
servono fuori dal set, come batterie, nastro adesivo, ritardanti di
fiamma, corde e cibo e bevande, forniture per ufficio ed
elettronica. E alla fine, sul set rimangono bottiglie d’acqua
di plastica vuote, vassoi di cibo da catering non consumato che
vengono gettati nella spazzatura, e interi set personalizzati che vengono
caricati nei cassonetti”.
Earth Angels, che opera negli Stati Uniti, offre una rosa di servizi che
vanno dalla riduzione dei consumi (economia circolare), alla collaborazione con
associazioni locali per il recupero e riuso dei materiali, dalla scelta di
impianti a basso consumo energetico a corsi di formazione per lo staff. Come
Earth Angels, si stanno moltiplicando le ditte che offrono alle case
produttrici di film e TV consulenze e servizi: Albert, per esempio, propone
di lottare insieme contro il cambiamento climatico, riunendo le industrie
del cinema e della TV per affrontare il nostro impatto ambientale e ispirare il
pubblico dello schermo ad agire per un futuro sostenibile. Altri esempi
sono citati da Maeve Campbell. L’Ontario Green Screen, che opera in Canada, è un’iniziativa
di collaborazione tra governo, partner industriali, sindacati, corporazioni,
associazioni di categoria e aziende, che si sforza di apportare cambiamenti
duraturi nel settore e di consentire a individui, società di produzione e studi
di fare scelte sostenibili.
La Green Production Guide, fondata nel 2010 con
lo scopo di aiutare l’industria dell’intrattenimento a ridurre le emissioni di
CO2 e l’impatto ambientale, è un consorzio delle maggiori
compagnie di produzione di Hollywood.
Insomma, dalle piccole associazioni indipendenti ai colossi dell’industria
cinematografica, sembra vi sia una crescente consapevolezza della necessità di
assumere maggiori responsabilità per contribuire a un futuro più sostenibile.
Incentivi e premi
Numerose iniziative sono state avviate negli ultimi anni per aiutare
l’industria cinematografica a contribuire concretamente alla riduzione degli
effetti serra. Sono state inventate delle ‘qualifiche di qualità’ che i
produttori possono ricevere se rispettano una serie di regole di rispetto
ambientale e di riduzione degli impatti in tutte le fasi di costruzione
dei film. Ne segnalo solo alcune, tra le tante ormai presenti.
L’Amministrazione Pubblica tedesca ha intrapreso, all’inizio del
2020, un’iniziativa comune con il Green ShootingWorkingGroup: è stato messo a
punto un programma che prevede l’assegnazione di un certificato di
sostenibilità e la produzione di un centinaio di film su temi ecologici nei
prossimi due anni – con elettricità verde, veicoli a basse emissioni, meno
generatori diesel e meno viaggi aerei, uffici senza carta, ristorazione
sostenibile, raccolta differenziata dei rifiuti e illuminazione a basso consumo
energetico.
GREEN FILM nasce
dall’esperienza sviluppata in Italia dalla Trentino Film Commission che, dal
2017 mette a disposizione delle produzioni T-Green Film, un disciplinare
mediante il quale i produttori possono dimostrare il loro approccio green e
ricevere sia una certificazione di sostenibilità ambientale, sia un contributo
economico per premiare il loro impegno per il rispetto dell’ambiente.
EcoMuvi, proposto dallo
Studio Tempesta, è un disciplinare di sostenibilità per il cinema interamente
certificabile: analizza tutte le fasi di produzione nei diversi reparti e per
ciascuna propone pratiche attive di riduzione dell’impatto ambientale; questo
processo agevola la transizione verso una maggiore sostenibilità della
produzione audiovisiva sul lungo termine. La prima eco-produzione
italiana a livello internazionale è stato il film “Le Meraviglie” di Alice
Rohrwacher, che ha seguito l’iter disciplinare EcoMuvi, l’unico disciplinare
europeo di sostenibilità ambientale certificato per la produzione
cinematografica. Grazie al sostegno del T-Green Film (Trentino Green Film),
inoltre, è nato il primo fondo regionale italiano che premia e certifica le
produzioni cinematografiche che lavorano nel rispetto dell’ambiente.
Guide, articoli, libri
Sia a livello di ricerca, che nelle pubblicazioni divulgative si sono
moltiplicate le informazioni sulla sostenibilità dell’industria
cinematografica. Opuscoli disponibili su web forniscono indicazioni dettagliate
sulle strategie da mettere in atto per una produzione cinematografica ‘verde’:
oltre a quelli sopra citati, un altro esempio tra i tanti è Bigger Picture Research,
una società inglese di consulenza che fornisce servizi di ricerca, valutazione
e pianificazione strategica ai settori delle industrie creative, dell’arte
e della cultura.
A livello accademico si trovano interessanti contributi di ricerca.
Jonathan Victory, in un articolo pubblicato nel 2015, dopo aver evidenziato le sfide che l’industria
cinematografica mondiale deve affrontare e aver segnalato alcune iniziative
recenti all’interno dell’industria cinematografica internazionale, segnala il
ruolo emergente di un membro della troupe (designato ‘eco-manager’) che
dovrebbe sovrintendere alle iniziative ambientali sul set.
In un libro pubblicato nel 2012 i due Autori di Greening the Media (11)
– prendendo in considerazione non solo le produzioni di film ma i media più
in generale – smontano l’idea che le tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (ITC) siano pulite ed ecologicamente benigne, e mostrano come la
realtà fisica di produrle, consumarle e scartarle sia piena di ingredienti
tossici, condizioni di lavoro velenose e rifiuti pericolosi. Ma, senza
scoraggiarsi, propongono modi creativi per risolvere i problemi,
sollecitando i lettori a partecipare all’opera di greening. Recentissimo,
del 2019, è un libro scritto da Hunter Vaughan (12) sui costi nascosti dei
film: l’Autore fa notare la natura ambivalente del prodotto cinematografico,
che è contemporaneamente un mezzo potente per parlare di problemi ambientali, e
nello stesso tempo una delle cause di tali problemi.
Percorsi educativi
Un interessante spunto per insegnanti ed educatori viene da un docente
universitario americano, Craig Uhlin, che illustra la struttura di due
lezioni che tiene abitualmente ai suoi studenti. Dopo aver parlato in classe di
documentari naturalistici e di crisi ambientali, Uhlin introduce il tema della
sostenibilità del mezzo, per riflettere insieme ai giovani dei modi in cui la
produzione stessa di immagini è implicata nell’economia ‘lineare’ e
nell’utilizzo dei combustibili fossili.
Come si vedrà nel prossimo paragrafo, un aspetto ambientalmente assai
critico dell’uso dei media è la crescente possibilità di acquisire materiale
audiovisivo ‘scaricandolo’ da internet in streaming. Lucas
Hilderbrand, che fa parte di un gruppo di studiosi che si occupano di calcolare
il carico ambientale di questa moderna tecnologia, in un breve articolo dal titolo ‘Cinema and
Media Pedagogy in the Streaming Era’ osserva che – come docente – ha
scarse capacità di modificare le fonti energetiche che alimentano le reti
informatiche, né riesce a influenzare i responsabili al governo a regolamentare
più rigidamente le emissioni di gas serra. Quello che può fare è invece
educare gli studenti, insegnando loro a capire e a misurare gli impatti
ambientali dei media che utilizzano. E offre alcuni suggerimenti pedagogici,
nella speranza di ispirare i colleghi a sviluppare a loro volta percorsi
educativi autonomi.
Comodo vedere i film
da casa…
I miglioramenti tecnologici, e l’estendersi delle infrastrutture permettono
ormai di svolgere tantissime attività – lavorative e di intrattenimento –
attraverso internet. Anche prima che la pandemia trasformasse le nostre
abitudini, in molti apprezzavamo la comodità di guardarci un bel film
standocene comodamente a casa. Dall’inizio di ottobre, con l’aumentare dei casi
di COVID 19, sono cresciute le offerte di film da vedere in streaming, come si
legge nel sito di Esquire: “The Best Movies of 2020 (So Far)
Most of these you can stream from home right now. Here Are the 2020 Movies
Streaming Online Early Due to the Coronavirus”.
Ma l’uso informatico dei media, oltre ad avere un costo economico, ha anche
un costo ambientale.
In generale, la carbon footprint di ciascun utilizzatore
di internet comprende diverse attività: oltre a scambiarsi mail, consente
di ascoltare musica in streaming, postare su twitter,
acquistare un e-book, leggere le ultime notizie online,
vedere film con Netflix (13)… I data center che ospitano siti
di streaming (come Netflix, Youtube e Facebook) consumano in
un anno circa l’1% dell’elettricità mondiale: una percentuale destinata
rapidamente a crescere. Le fonti energetiche che alimentano i data center derivano ancora per l’80% dai
combustibili fossili.
Secondo la Cisco (14) Annual Internet Report 2020, nel 2023
quasi due terzi della popolazione globale avranno accesso a Internet: 5,3
miliardi di utilizzatori, a confronto con i 3 miliardi del 2018. E il fascino
della velocità incoraggerà sempre più gli utenti a dotarsi di strumenti utili
(e di accettare l’installazione di infrastrutture sempre più numerose e
vicine…). Proprio il sito di Cisco fornisce alcuni dati
significativi: per eseguire il download di un film HD occorrono 20 minuti
alla velocità di 10 Mbps; 9 minuti a 25 Mbps; solo 2 minuti a 100 Mbps. Ma
queste velocità richiederanno sempre più energia per funzionare, e produrranno
una crescente quantità di CO2.
Un gruppo
di brevi articoli pubblicati pochi mesi fa da alcuni
studiosi e studiose riguardano proprio gli effetti ambientali negativi dei
media in streaming: uno riguarda la produzione di CO2,
che in conseguenza alla pandemia (e alla chiusura di cinema e teatri) è
aumentata pericolosamente; l’altro fattore riguarda gli effetti deleteri della
crescente esposizione delle persone a più alti livelli di frequenze
elettromagnetiche, favorita dalla scelta delle multinazionali dei media (e dei
governi…) di sviluppare la tecnologia wireless 5G. Gli effetti negativi sono
ben documentati, eppure quasi universalmente ignorati. Nonostante tutto ciò,
continua a prevalere l’idea che i media digitali sono immateriali e non nocivi.
Un’azione – piccola ma efficace se moltiplicata per il numero di utenti! –
di nonviolenza nei confronti dell’ambiente potrebbe essere quella di ‘download invece di stream’, e di connettersi al Wi-Fi invece che
al sistema wireless 4G (o, peggio, 5G).
Che ‘natura’
propone il cinema?
Abbiamo esplorato alcuni aspetti della relazione tra cinema e ambiente,
cercando di capire se e come la produzione stessa di un film può essere
riconosciuta come violenta o nonviolenta nei confronti della natura. Se
ora spostiamo l’attenzione verso i messaggi, espliciti o nascosti, che un
film invia al pubblico, si aprono altre interessanti prospettive di
riflessione. In primo luogo, è difficile ormai inserire in una sola categoria i
film ‘naturalistici’: oltre ai classici ‘documentari’, ci sono film che illustrano
situazioni problematiche e denunciano danni ambientali; altri propongono
aspetti e scenari catastrofisti. Altri ancora hanno l’obiettivo di suscitare
iniziative di salvaguardia da parte del pubblico, oppure utilizzano le
problematiche ambientali per proporre storie e situazioni complesse, o
fantascientifiche. Un tema vasto, al quale proveremo ad avvicinarci alla
prossima puntata, con l’obiettivo di indagare sulle componenti violente o
nonviolente (esplicite o nascoste) dei contenuti e delle immagini.
Note
(1) La carbon footprint è una misura che esprime in
CO2 equivalente il totale delle emissioni di gas ad effetto serra associate
direttamente o indirettamente a un prodotto, un’organizzazione o un servizio.
(2) Navas, G., S. Mingorria, and B. Aguilar-González. Violence in
Environmental Conflicts: The Need for a Multidimensional Approach.? Sustainability
Science 13 (3): 649-660 (2018).
(3) Galtung, J., Violence, peace, and peace research.? Journal
of Peace Research 6 (3): 167-191 (1969).
(4) Nixon, R. Slow Violence and the Environmentalism of the
Poor. Cambridge: Harvard University Press (2011).
(5) Il Centre for Science and Environment (CSE) con
sede a Delhi, in India, aveva già introdotto, fin dagli anni ‘90 del secolo
scorso, il termine di ‘lento assassinio’ nel caso di avvelenamenti da
polveri sottili nell’aria delle città, o da prodotti chimici tossici usati in
agricoltura.
(6) Concetto introdotto da Polly Higgins, avvocata scozzese: “la
distruzione, il danneggiamento o la perdita su larga scala di
uno o più ecosistemi di un determinato territorio, che sia per cause umane o
altre cause, tale per cui il godimento pacifico dello stesso da parte dei suoi
occupanti viene gravemente ridotto”. Sono in atto crescenti pressioni
internazionali per considerarlo un crimine, perseguibile per legge.
(7) Lords of the Forest (meglio noto in USA con il
titolo Masters of the Congo Jungle).
(8) Citato da Networks of Nature: Stories of Natural History
Film-Making from the BBC Gail Davies, tesi di dottorato, University
College London 1998.
(9) Vaughan Hunter, Hollywood’s Dirtiest Secret. The
Hidden Environmental Costs of the Movies. Columbia University
Press, 2019.
(10) Shelley Bradley, report on the Legal
Consideration Regarding the Filming and Televising of Animals, Natural
History Unit Library.
(11) Maxwell Richard and Miller Toby, Greening the Media, New York, NY:
Oxford University Press, 2012.
(12) Hollywood’s Dirtiest Secret The
Hidden Environmental Costs of the Movies, Columbia University Press,
2019.
(13) Netflix è una società operante nella distribuzione via internet di
film, serie televisive e altri contenuti d’intrattenimento a pagamento.
(14) Un’azienda multinazionale specializzata nella fornitura di apparati di
networking.
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