venerdì 26 luglio 2019

Midsommar – Ari Aster

il secondo album è sempre il più difficile, dice Caparezza, per Ari Aster il secondo film è davvero all'altezza di Hereditary, mutatis mutandis.
dura 140 minuti, ma non annoia mai, Ari Aster sa come si fa.
pare addirittura che ci sia una versione lunga un quarto d'ora in più, nel film in sala mancano, per paura di una qualche censura.
è una storia che può ricordare Wicker-man, di Robin Hardy, ma sareste fuori strada, o qualche film in cui gli antropologi sono dei saccheggiatori della vita e delle usanze degli altri, ma la fine sarà un po' diversa.
forse non vi ho detto niente del film, ma non serve sapere troppo in anticipo, andate al cinema e godetene tutti, non sarete delusi, ci scommetto - Ismaele


ps 1: segnatevi questo film, Glassland, un bellissimo film irlandese di Gerard Barrett, nel quale ci sono Tony Collette, protagonista di Hereditary, e Will Poulter, Jack Reynor, protagonisti di Midsommar, Ari Aster ha buoni gusti
ps 2: se si resta fino ai titoli di coda si vedranno una marea di nomi ungheresi, un'occhiata a Imdb e si scopre che il film non è girato in Svezia, ma in Ungheria.



Il terrore di Midsommar è lento, insinuoso, mellifluo, Ari Aster non vuole spaventarci bensì farci del male. 
Non vuole tagliarci in due con un colpo deciso di accetta, ma aprire una piccola ferita dentro di noi per poi infilarci un dito e continuare ad allargarla con una flemma insostenibile, guardandoci negli occhi mentre soffriamo per vedere che effetto fa.  
Se uno dei meriti maggiori per un autore è la capacità di raccontare delle storie, se davvero nel Cinema lo storytelling è ancora oggi l'aspetto fondamentale, allora secondo me siamo davanti ad un autore eccezionale. 
La storia che Aster ci racconta in Midsommar è stratificata, densa, carica, è un albero solido con dei rami lunghi e robusti, sui quali nascono le tante foglie che sono poi i suoi personaggi e i rapporti che si instaurano tra di loro e con lo spettatore. 
Il regista e sceneggiatore crea dal nulla una comunità intera con il proprio alfabeto e la propria lingua, con i propri rituali, le proprie credenze e le proprie tradizioni che solo tangenzialmente toccano la vera festa di metà estate che avviene in Svezia e si trasforma in qualcosa di oscuro e terribile, tutto alla luce del sole. 
L'inesorabile, spietata, infinita luce del sole. 
Ari Aster cesella Midsommar come farebbe un artigiano del legno alle prese con un grande tavolo pieno di intarsi, come farebbe un pittore emulo di Hieronymus Bosch alle prese con un affresco…

Un lutto devastante, una relazione morta che nonostante tutto continua e una malattia mentale che aleggia nelle paure di chi ormai si sente perso nel caos. Ancora una volta, Ari Aster parte da questi presupposti per Midsommar – Il Villaggio dei Dannati, ma a differenza di Hereditary – Le Radici del Male, l’oscurità fotografica e intima della protagonista Dani (Florence Pugh) e il piccolo mondo “stupido” del suo compagno Christian (Jack Reynor) & co. il quale, nonostante tutto, deciderà, malvista e compatita un po’ da tutti, di portarla con loro in Svezia, ospiti di una comune isolata che si dedica a una festività celtica per festeggiare la mezza estate ed eleggere la loro regina.
Un evento rituale arcano che si ripete ciclicamente e dove il giorno e la notte si confondono. Il buio scompare e ‘inizia’ il sole, andando diretti al punto senza perdere tempo. Coerentemente al precedente film, anche qui si racconta di un rito. Incessante, antichissimo e inevitabile. Le rune celtiche vanno a sostituire i sigilli demoniaci, mentre le danze fanno da cornice festosa al posto del lugubre dolore introspettivo e familiare di Hereditary. Tuttavia, il senso non cambia: l’inevitabile sta già accadendo e tutto è deciso fin dalle prime inquadrature (annunciato da disegni che continueranno ad anticipare ogni cosa nel corso dello svolgimento).
Ad Ari Aster non interessa tanto il “cosa” ma il “come” e questo discorso in Midsommar – Il Villaggio dei Dannati si fa ancora più estremo che nel lungometraggio del 2018. Tutto è già deciso e noi spettatori non possiamo che assistere e soffrire, divertirci, danzare ed essere in qualche modo partecipi. Dove nel precedente la scoperta di un “rito” in corso era il film stesso, qui siamo gentilmente ammessi come ospiti all’intera celebrazione…

…There’s an electric atmosphere in the village as superbly photographed by Pawel Pogorzelski, the music by Bobby Krli is pleasantly eerie, and the performance by Florence Pugh is riveting. It’s a bizarre and unnerving tale (not really scary) that smartly plays with us throughout in its nightmare sequences, its graphic sex scenes, its creepy wall paintings, its “breathing” trees scene, and its vibrant calls for old-styled vengeance. All this weird activity makes for a visually hypnotic watch, but one not suited for all tastes.

la violenza non arriverà mai nelle modalità attese, e anzi alle sue prime manifestazioni, gli studenti statunitensi la cui educazione umanistica e politicamente corretta non permette in nessun modo di dare un’interpretazione disdicevole, la accetteranno, certo turbati, ma chi sono loro per giudicare la tradizione pagana di un villaggio ai confini dell’Europa? Questa incapacità di prendere una posizione mascherata da buon senso è il carburante della storia, perché, come sempre, ai protagonisti gli elementi per sfuggire a quello che sembra inevitabile sono stati forniti fin dal loro arrivo. Sarebbe bastato che questi americani di città avessero abbandonato per un attimo la modalità-meraviglia da storia Instagram (Wow, un villaggio immerso nel verde! Wow, delle ragazze biondissime con una corona di fiori in testa!) e avessero guardato con più attenzione, tanto più che sono degli antropologi. Ma Aster è impietoso con loro, e non li salva da questa connotazione rozza, pur riprendendoli magnificamente, con immagini che riempiono gli occhi, con una luce perenne e artefatta (il lavoro del direttore della fotografia Chung-Hoon Chung è fantastico) e con una cura dell’inquadratura da Refn o Lanthimos, e cioè da grande autore.
E proprio questa è la sua pasta, quella di chi fa un film che per smania di categorizzazione viene definito un horror ma horror non è, che parla di una certa ottusità statunitense attraverso un gruppo di giovani dalla presupposta mentalità apertissima, che persegue la bizzarria senza strizzare l’occhio a nessuno e che non teme di avere degli idioti come protagonisti di un suo film. Un grande autore.

Aster si diverte ad alterare la percezione della realtà, soggetta all’umore della protagonista: le apparizioni repentine di un passato violento sono gli spettri inconsci che avvelenano la psiche di Dani, frutto di un trauma non ancora elaborato e forse impossibile da superare appieno. È proprio la purezza del suo dolore a renderla diversa dagli altri turisti, emblemi dell’americano medio che guarda al folclore straniero con indulgenza e paternalismo. Privata degli affetti, Dani ha bisogno di una famiglia alternativa che la accolga e si prenda carico della sua sofferenza, spartendola equamente come se fosse una propria responsabilità. Non a caso, la società di Midsommar poggia su due idee basilari: ciclicità e comunione. Da un lato c’è la visione circolare dell’esistenza, dove ogni ciclo vitale è in armonia con la natura, che pretende un tributo in cambio delle sue offerte; e dall’altro c’è la spartizione dei beni, dei sentimenti e degli stati emozionali, che diventano condivisi. Ogni passaggio cruciale per l’equilibrio del villaggio – come il concepimento di un figlio – diviene un rito di compartecipazione, in cui tutti sono chiamati a imitare l’impegno, la fatica e le reazioni di chi lo vive in prima persona. Analogamente, Dani può alleggerire il peso del suo enorme dolore, che viene distribuito fra le donne del posto in un liberatorio pianto collettivo.

Midsommar cerca di cambiare tutte le carte dell’horror, cerca di fare qualcosa di molto diverso partendo però dalla stessa tensione che di solito nelle storie dell’orrore porta alla paura. Il film alla paura non ci arriverà mai, volutamente, preferisce mettere quella sensazione ad un altro uso che tuttavia non è ugualmente soddisfacente. È molto molto difficile dire che un film realizzato bene come Midsommar sia un fallimento, che un film così perfetto nel mettere in pratica le sue intenzioni, così preciso nel ritrarre i suoi personaggi e così meticoloso nella realizzazione sia una delusione, ma è evidente che alla fine si rimane con l’amaro in bocca per tutto quel che poteva essere e non è stato.
Ari Aster ha la caratura del grande regista, sa bene come manipolare le scene o gli attori per fare in modo che anche minuscole azioni o piccoli eventi che si manifestano in secondo piano catturino l’attenzione dello spettatore e lavorino dentro di lui scatenandogli un dubbio improvviso…

Ari Aster va fortissimo in teoria. Vuole ambientare il film in una soleggiata estate? E allora lo inizia nella neve. Ma poi anche già questa cosa: un horror interamente ambientato nella soleggiata estate. Tiè! Contrasto! (non è ovviamente il primo ad aver avuto questa intuizione geniale ma non importa)
Ad Ari piacciono gli horror in cui ti importa qualcosa dei personaggi prima che si scateni l’orrore, e allora ci spende un’ampia mezzora sulla premessa, prima che tutti partano in gita per la Svezia a visitare un simpatico villaggio pagano e che ci sia quindi una specie di ulteriore “primo atto” in cui gli abitanti del villaggio pagano sembrano effettivamente simpatici…

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