Cinquant’anni sono molti, o forse si dovrebbe dire abbastanza, per valutare
un film o un libro. Non basta sopravvivere, si deve stabilire se il farmaco che
conteneva è ancora efficace. Con la velocità contemporanea il mezzo secolo si è
ridotto a una manciata di anni. Comunque deve passare del tempo. Non è soltanto
la corda estetica a suonare e a risuonare, conta anche il valore generazionale:
un fenomeno di identificazione collettiva talmente forte da trasformarsi in
mito. Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch) è uscito
nel giugno 1969, e rivederlo è piacevole per entrambi i motivi, estetici e
generazionali. È ambientato nel 1913, la ferrovia sta raggiungendo gli estremi
confini verso il Messico, iniziano a circolare le automobili, ci sono armi
fuori ordinanza per un classico western. L’avanzare inarrestabile del progresso
spinge questa storia di banditi verso il sud, nel Messico devastato da
rivoluzioni e controrivoluzioni. Più che di razzismo antimessicano si potrebbe
incolpare il film di apologia mitologica, con qualche licenza al luogo
comune.
Ritornando solo per un attimo agli anni della sua prima uscita trascrivo un
mio ricordo personale: The Wild Bunch, già negli anni ’70 e prima
delle proteste settantasettine, era film di culto tra estremisti di sinistra,
in particolare nei vari (si chiamavano così) Servizi d’ordine. Ci sarebbe da
riflettere su questa categoria allora diffusa e popolare (“il mio ragazzo è
prima fila del servizio d’ordine…”) ma qui ci interessa soltanto perché in
sintonia con il tema vero del film: la violenza. Il sangue sgorga a fiumi,
in The Wild Bunch. Ricordo che da ragazzini uscendo dal cinema contavamo
i morti ammazzati. Peckinpah annuncia la morte sin dai titoli di testa. Con una
morte insolita: quella di un temuto predatore. Uno scorpione viene sbranato
dalle formiche. Un divertimento per i bambini straccioni che appariranno in
quasi tutte le sequenze, sfondo costante di un mondo miserabile, ai confini
estremi da tutto, sprofondati da sempre nel caos.
Le immagini dei titoli di testa si trasformano all’improvviso in un fermo
immagine “disegnato”, in stile fumetto. E questa è la prima chiave interpretativa
del film, una vera dichiarazione di poetica, si sarebbe detto una volta. Lo
spettatore viene catapultato indietro nel tempo, torna ad essere l’adolescente
senza barba che divorava Tex Willer e sta al gioco. Ogni enormità è lecita. Se
al mondo non c’è altro che male allora l’unico valore è quello dell’essere
insieme. La banda si riassume in due facce, o meglio in due icone: William
Holden e Ernest Borgnine. Che trasmettono la sensazione di divertirsi come
matti nel gioco degli estremi inventato da Peckinpah. La violenza e la morte
sono subito ovunque. La cittadina di frontiera è squallida quanto basta. La
mobilitazione delle vecchine, con i canti dell’Esercito della Salvezza, ci dice
tutto del tasso alcolico generale.
“Chi si muove è morto” è la prima battuta di Pike/Holden. La rapina è una
trappola, e naturalmente scoppia una prima carneficina. Tutti sparano a
tutti, travolgendo donne e bambini. Si spara per un buon quarto d’ora.
Un’inquadratura per colpo, centinaia di inquadrature, una giostra di colpi, un
massacro. I cacciatori di taglie, che dovrebbero rappresentare la legge, sono
in realtà più farabutti dei banditi e noi facciamo il tifo per la Banda. I
bambini bruciano le formiche divoratrici, ridono. Sangue e morte dovunque. Quel
che resta della banda si allontana.
È il concetto di “Bunch” il cuore emotivo del film. Selvaggi ma pur sempre
Banda, Mucchio, Branco. Chi prende sottogamba i fenomeni giovanili
contemporanei dovrebbe riconsiderare la forza implicita nel concetto di
“Bunch”. L’unico uomo di qualche spessore tra i cacciatori di taglie è infatti
un ex membro del Mucchio: tema che tornerà con prepotenza in Pat
Garrett e Billy Kid. Dopo la strage, gli sciacalli scendono dai tetti e si
litigano le taglie da riscuotere.
Lontano, quel che resta della banda, fa i conti con le batoste prese. Sta
per scoppiare una lite. “Se non sappiamo stare insieme siamo peggio degli
animali” dice Pike. E all’improvviso si ride, la banda è riunita. Il capo è
sempre più dolorante per una sua antica ferita e qualcuno già lo mette alla
prova, ma Pike è un comandante naturale, forte e misterioso come si conviene.
Molti di loro sono morti nella sparatoria ma la morte è parte del gioco e
merita poche parole. Resta sempre la Banda. “Adesso vado a prendere il diavolo
per la coda” sono le ultime parole di uno di loro, sforacchiato da decine di
colpi. Fuggono verso il vicino Messico e si immergono in un mondo che è la loro
stessa materia. Anarchia, alcol, feste, orge, massacri, miseria. Hanno soltanto
due modalità: o sono rapinatori e assassini o si divertono come matti nelle
ammucchiate, sparando alle botti di vino par fare una bella doccia con le
ragazze. I bambini assistono sempre, sin da neonati, vengono anche allattati
per strada. Non ci sono spazi riservati, tutti vedono tutto.
Appare la sbirraglia del solito dittatore locale, il superfumettistico
Mapache, interpretato da Emilio Fernández. Nemico di Pancho Villa e si direbbe
del popolo in generale. Mentre la Banda si dissolve nella popolazione minuta
del villaggio, l’accordo che raggiungono con il potere del ridicolo generale
non è autentico. Di ogni potere è giusto diffidare. Inizia il gioco del più furbo.
Ma il più furbo è sempre Pike: “È il migliore”, dicono di lui i suoi nemici.
Anche la sua forza è espressione della banda, non potrebbe prescinderne. I
valori sono enunciati chiaramente: “Abbiamo cominciato insieme e insieme
finiremo”. Sono delle belve, certo, ma nascondono una follia particolare,
un’inquietudine, un passato.
Come in un fumetto partono dei rudimentali flashback su Pike, che quasi si
trasforma in eroe romantico. Sì, c’era una fanciulla, assai graziosa peraltro,
ma sposata: così Pike ha rimediato la fastidiosa cicatrice che lo tormenta.
Insomma, il segreto di Pike è una banale, truculenta storia di corna. Ma non
c’è soltanto il fumetto: nel film confluisce anche la grande letteratura
western, una letteratura che arriva sino a Cormac McCarthy, e a questo genere
alto è giusto che il film appartenga. Su una sceneggiatura di genere, ridotta
all’osso, si innesta con straordinaria bravura il valore aggiunto del Peckinpah
più visionario. Restano molte immagini negli occhi, cavalli e cavalieri che
rotolano in una duna di sabbia, per esempio. Una scena stupenda. L’intero film
è un trionfo Panavision. Il montaggio a tratti si mostra quasi con ingenuità
narrativa, ma poi sembra farsi da parte e si trasforma in frenesia visiva, in
musica, in allucinazioni.
I set di guerra sono sostanzialmente tre: il secondo è un assalto al treno.
Come sorride Dutch/ Borgnine quando spiana il Whinchester davanti ai soldati:
sembra il suo solito accattivante sorriso ma non lo è, avverte il suo
interlocutore che sta per sparargli in bocca. È soltanto un anticipo del finale
addirittura esplosivo: lo
scontro aperto nel villaggio messicano, che finirà in macerie. I
cattivi, che sin dall’inizio abbiamo cominciato a considerare i buoni della
storia, si trasformano addirittura in eroi. Anche se sono in pochi, il “Wild
Bunch” torna in azione contro un esercito intero, con il sorriso sulle labbra.
Il movente non è il denaro, ma la vendetta. Mapache ha torturato e ucciso uno
di loro. Non importa come andrà a finire, non importa se saranno tutti
sterminati dopo aver ammazzato decine, forse centinaia di nemici. Dopo il
passaggio dell’Apocalisse, sul villaggio ormai distrutto scendono gli sciacalli
pronti a riscuotere le taglie.
Sembra tutto finito. Ma in questo film anche la redenzione è a rovescio:
alla fine è il traditore diventato capo dei cacciatori di taglie a scegliere di nuovo la banda. Perché la banda
vince sempre. Quelli che erano soltanto figure secondarie hanno preso il posto
di Pike e degli altri morti: Pike non c’è più, ma il suo mito vive ancora nel
Mucchio.
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