L’uomo che comprò la
luna, il film di Paolo Zucca che si sta
guadagnando l’attenzione del pubblico anche in Italia, è un film pericoloso.
Proprio per questo va visto.
Naturalmente la sua pericolosità dipende
dalla prospettiva sotto cui lo si guarda.
Comincerei da qui: i diversi livelli di
lettura.
La confezione dell’opera, il suo
involucro potremmo dire, è il genere “commedia all’italiana”, con risonanze
felliniane. Il tema centrale sembrerebbero gli stereotipi relativi alla
Sardegna.
Ed è vero. C’è anche questo. È uno dei
livelli di lettura possibili e, a naso, è anche quello che il pubblico italiano
fatica meno a percepire, ed anzi apprezza.
Una commedia leggera, agrodolce,
visionaria, a
contenuto “etnico”.
Il pubblico apprezza l’intreccio
surreale, le dinamiche tra i personaggi, la comicità tipica delle commedie
degli equivoci.
E va benissimo. Ma non c’è solo questo.
Un aspetto che mi incuriosisce molto è
se e quanto sia diversa la ricezione da parte del pubblico sardo rispetto a
quella del pubblico italiano.
Sul “se”, non ho dubbi. La ricezione è
diversa.
Probabilmente per il pubblico italiano
in fondo si tratta di una commedia che rilancia i più familiari cliché sui
sardi, a cui è abituato da tempo.
In questo senso, il rischio era di
rievocare e rinnovare la tendenza a compiacere lo sguardo dell’osservatore
esterno, tipica del nostro rapporto subalterno con l’Italia e con gli italiani.
Pericolo in buona parte disinnescato
dalla ben architettata problematizzazione proprio di questa dinamica
relazionale.
È uno dei motori narrativi del film.
La stessa assurdità di un “esame di
sarditudine”, presieduto e valutato da “esperti” italiani, dovrebbe suscitare
non solo l’ilarità ma anche qualche dubbio su una relazione tutt’altro che
pacificata ed esente da equivoci di vario genere.
Per il pubblico sardo, invece, gli
aspetti principali sono altri due.
Intanto è fondamentale che a fare
dell’ironia e dell’umorismo sulle nostre fissazioni identitarie sia uno sguardo
sardo.
Com’è giusto che sia, il nostro grado di
accettazione dell’ironia o dell’umorismo sul nostro conto cambia drasticamente
se essi provengono dall’esterno o se sono auto-riferiti.
Tanto meglio, poi, se ad essere messa
alla berlina è proprio la pretesa dei non sardi di sapere perfettamente cosa
sia “vero sardo” e cosa no.
La leggerezza e la capacità narrativa di
Paolo Zucca (e ovviamente delle due autrici del soggetto e della sceneggiatura, Geppi
Cucciari e Barbara
Alberti) consentono di giocare sul tema della “sardità” senza che questo risulti
mai offensivo, o volgare, o paternalistico (approccio figlio di una visione
“razziale”, in fondo).
Regia e scrittura esaltate poi dalla
recitazione efficace e “in parte” dei due protagonisti sardi principali, Jacopo
Cullin e Benito Urgu.
I quali per altro mettono in scena una
dialettica particolarmente intelligente tra le due anime della nostra diaspora.
Da un lato, la vergogna di sé e la
rimozione della propria appartenenza (il Kevin Pirelli/Gavino Zocheddu di
Jacopo Cullin).
Dall’altro l’auto-rappresentazione
identitaria stereotipata e ferma nel tempo, fino a diventare cliché
folkloristico (il Badore di Benito Urgu).
Nel film viene efficacemente
disinnescato – proprio perché enfatizzato parodisticamente – l’auto-razzismo
tipico del ceto medio istruito e intellettuale isolano, ma interiorizzato, tramite
un duraturo e profondo processo egemonico, dalla maggior parte dei sardi.
Possiamo ridere di noi stessi e del
nostro stesso mito identitario, insomma.
Ed è un riso liberatorio, perché fa
giustizia tanto del nostro complesso di inferiorità (paralizzante e patogeno),
quanto delle possibili pulsioni auto-esaltatorie (che non si sa mai dove
finiscono).
Già in questo c’è un pericolo,
attenzione. Ma non è tutto.
In realtà questo film ha anche una sua
carica politica notevole.
Ben mimetizzata e tenuta a freno il
tanto che basta a non farlo diventare uno stucchevole film “a tema”, o un
manifesto ideologico.
Sia chiaro, non lo è e non ci si
avvicina nemmeno.
Però è innegabile – e sfido a sostenere
il contrario – che un altro dei nuclei tematici dell’opera sia una fortissima
vena di riscatto storico.
Di cui la ribellione agli stereotipi
degradanti, cui per tanto tempo la maggior parte dei sardi ha aderito
acriticamente, è solo una premessa.
La potenza narrativa del film –
altrimenti classificabile, appunto, come commedia surreale con venature etniche
– risiede precisamente in questo livello di lettura più profondo.
Il cui segno più evidente è la trovata
delle anime dei nostri personaggi storici (“che hanno lottato per a giustizia”)
ospitate sulla Luna.
Luna, che, dunque, a buon diritto, anche
per questa ragione può essere legittimamente posseduta da un sardo, a dispetto
delle pretese statunitensi (con una significativa sequenza finale).
La stessa messa in scena del conflitto
tra Sardegna e USA (con la mediazione degli apparati di sicurezza italiani) è
una potente allegoria politica, nemmeno tanto mascherata.
La Sardegna – come pochissimi sanno
fuori dall’isola – è uno dei principali teatri di addestramento e
sperimentazione bellica della NATO, in Europa.
Cosa possa significare una
rivendicazione di libertà dalla prepotenza *che viene dal mare* (come
didascalicamente rappresentato nel film), per di più in nome della nostra
stessa storia e dei personaggi rilevanti che l’hanno animata, non è una presa
di posizione banale e contribuisce alla sensazione che questo film sia
pericoloso.
Gli stessi personaggi sardi scelti sono
estremamente indicativi della cifra politica che alimenta questo livello di
lettura meno visibile.
Da Ampsicora, ad Eleonora d’Arborea, da
Sigismondo Arquer a Giovanni Maria Angioy. E ancora, Paschedda Zau, Grazia
Deledda, Emilio Lussu, Nino Gramsci, forse (mi è stato suggerito ma non sono
riuscito a verificare) Michele Schirru.
Tutti lì, squadernati e presentati come
nodi di una lunga trama che attraversa i secoli, di cui però non siamo
consapevoli.
Per questi motivi si tratta di un film
pericoloso.
È pericoloso per chi si aspetta di
perpetuare la nostra condizione di subalternità contando sulla nostra passività
o addirittura sulla nostra adesione.
È pericoloso per chi ancora vorrebbe
usare la negazione di noi stessi e della nostra storia come strumento di
controllo e di dominio.
È pericoloso per chi usa e vorrebbe
continuare a usare la Sardegna per scopi e in nome di interessi esterni,
privati, ostili a chi ci abita, eticamente discutibili, politicamente
imbarazzanti.
È pericoloso anche per l’establishment
politico e culturale isolano, sempre così pronto a farsi docile intermediario
degli assetti di dominio grazie ai quali può prosperare, sia pure a discapito
della maggioranza dei sardi.
È pericoloso anche perché è un film che
ci insegna a non essere vittima noi stessi dei nostri complessi di inferiorità,
facili a trasformarsi nella reazione megalomane che ne è il reciproco inverso.
Tutto questo, servito con la semplicità
dello sguardo fanciullesco, che discerne il giusto dall’ingiusto senza troppi
filtri e senza troppe sovrastrutture.
Proprio perché così pericoloso, è un
film che bisogna vedere e di cui è necessario parlare.
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