domenica 5 maggio 2019

Krotkaya (A gentle creature) - Sergei Loznitsa

alla moglie di un galeotto restituiscono un pacco che aveva mandato al marito, senza nessuna spiegazione.
allora parte per cercarlo, in quel mondo che si fa fatica a credere reale, se non lo vivi. 
una stupida burocrazia non le dà le risposte che cerca, e lei entra in vari gironi danteschi, al bordo dell'abisso.
e poi c'è un sogno...
straordinaria l'interpretazione dolente di Vasilina Makovtseva.
un film da non perdere, promesso - Ismaele





A Gentle Creature è un’opera forse troppo complessa per essere digerita alla fine di un concorso festivaliero, intenso come quello cannense. Programmaticamente estenuante come il viaggio che racconta. Una lenta discesa verso l’inferno. Tragica. Impietosa. E quel nero, così inaspettatamente lynchiano, disperatamente ciclico. Orribile. Magnifico.

Il film di Sergei Loznitsa, nonostante un’innegabile abilità tecnica ed originalità della costruzione narrativa, appare estraniante per un pubblico non completamene immerso nella realtà descritta, rivelandosi una sorta di raffinata simbologia di fatti che non si conoscono abbastanza a fondo da poterne cogliere ogni sfumatura. Un’opera che alterna il piano del reale con l’astrazione, sfociando in un’interminabile sequenza che anticipa un finale che è il caso di dirlo – dopo tutta la strada percorsa – non risulta accettabile.
Una buona prova di stile, condotta da un’attrice molto brava nell’esprimere lo smarrimento del suo personaggio, ma decisamente troppo personale per poter essere condivisa con il pubblico di un Festival Internazionale, o tantomeno trovare senso in una distribuzione cinematografica al di fuori del Paese di produzione.

…The pure hell of her situation is provided by the other people the woman has to encounter on her journey and at her’s journey’s end. The calvary consists in just listening to them, as they are squashed uncomfortably together in buses, trains, railway station waiting rooms and chaotic boarding houses where drink is the only anaesthetic against misery. The gargoyle faces that Loznitsa conjures are extraordinary, people laughing, singing, arguing, crying, leering – while the woman’s own face stays empty and still. She has to listen to their unbearably crass conversation, which is sometimes horrible, sometimes appallingly sad, sometimes very funny. There is an extraordinary guy presiding over a grotesque booze-up in their rooming house who claims once to have held a job as a newspaper crime correspondent and a children’s poet. Whatever the truth, he is now just another drunken lost soul in this Inferno.
And all the time there is a nightmarish tic or quirk in which we start to notice things repeating themselves – a woman who claims to be the sister of the identical woman we had seen earlier, recurring gossip about a woman called Zinka, stomach turning rumours about a body chopped up and left in a wood. The closer this woman gets to the impenetrable heart of the mystery, the more insistent this ominous patterning becomes.
A Gentle Creature has a gaunt sense of its own Russianness, and it has also a kind of Ancient Mariner address to the audience: it is gripping and absorbing in its way, although perhaps too conscious of its own metaphorical properties and opinion may divide as to whether its expressionist element works. Yet there is no doubt as to its power, and its severity.

…Cos'è molto belle nel film di Loznitsa: innanzi tutto una ambientazione accuratissima di dettagli, ma magicamente pressoché indefinita nel tempo e nello spazio: inizialmente troviamo una donna che raggiunge la propria umile casa accolta da un cane: potremmo trovarci nel 1770 come pure ad inizi '900; poi scorgiamo vecchi autobus che ci spostano verso i '50, poi altri dettagli di oggetti, vetture e circostanze che ci rivelano che, nonostante il macchinoso ingranaggio burocratico d'altri tempi, potremmo tranquillamente trovarci ai giorni nostri.
Altro elemento fantastico: la protagonista assoluta del film, Vasilina Makovtseva, sguardo perennemente atono di chi è consapevole di combattere una battaglia persa da principio, ma che non riesce ad arrendersi e a non continuare a tentare di venirne fuori: quella dell' attrice, risulta una prova tutt'altro che priva di spessore ed il suo il volto dolente, e' probabilmente il più emblematico e significativo di tutto il festival, al punto da non parermi uno sproposito pensare di poter premiare l'attrice come la migliore del Concorso…

…la « femme douce » se précipite inéluctablement vers sa propre perte avec un paradoxal immobilisme qui nous agace rageusement. Elle devient métaphore à mesure qu’elle s’enlise dans le labyrinthe d’une société malade, aveugle à sa réalité comme à son destin, caricaturée à outrance. Une représentation que Sergei Loznitsa nous crache au visage tout en nous étouffant en son sein.
Retrouvant Oleg Mutu à la photographie, le cinéaste parvient à impressionner la réalité dans laquelle il ancre sa fiction en une premier mouvement avant de nous emporter dans une univers de plus en plus baroque et surréaliste (le théâtre de la représentation). Optant le plus souvent pour une séquentialité des scènes, il oscille entre fixité et fluidité dans une logique radicalement frontale où la « femme douce » nous fait face (ou est-ce l’inverse). L’espace semble-t-il sauvage qu’au coeur de celui-ci chaque lieu clos, chaque intérieur, est investi d’une masse de gens, d’une foule qui atteste de déraisons tant des ces personnes que du système. La « femme douce », toujours, y est isolée, comme détachée du monde par le simple fait d’en questionner la logique. Un véritable cauchemar éveillé.

Le inquadrature sono riempite di oggetti, dettagli apparentemente insignificanti come lo possono sembrare le migliaia di parole che scorrono nella diegesi del film; è un lavoro dallo spettro cromatico (reale e figurato) quasi infinito, un ventaglio di umanità stretta in un alone di surrealtà che nel finale diventa onirismo felliniano allo stato puro.
C’è da dire che fino alle due ore si sfiora la perfezione e che la successiva sequenza onirica può risultare un po’ fuori luogo: del resto è in quei venti minuti finali che si incarna uno spiegazionismo di cui non si sentiva onestamente il bisogno, ma di contro vi sono elementi stilistici ed espedienti narrativi che sono delle vere e proprie chicche: una carrozza, un bosco dentro cui inoltrarsi (così simile al sottobosco umano in cui s’è inoltrata fino a quel momento la protagonista), una casa che sembra uscita da Cappuccetto rosso, un novello Rasputin a introdurre la malcapitata in un consesso che riunisce una società deformata, una fiera della vanità al contrario dove la nostra “gentle creature” è ancora una volta lasciata ai margini, vestita di un bianco virgineo che risalta ed evidenzia ancora più spaventosamente la violenza a cui la donna è soggetta (anche nel sogno).
Quello di Loznitsa è un cinema dove l’individuo è al centro di un’umanità che regredisce progressivamente, dove il protagonista è totalmente privato di quelle caratteristiche capaci di determinare l’andamento della narrazione. È un cinema ellittico, senza scampo, che non si pone nemmeno il problema di dover creare illusioni ma che mette in scena tutto il fatalismo contemporaneo mascherandolo d’assurdo.
E con questo meraviglioso lavoro il regista ucraino ci riesce perfettamente. •

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