i portoghesi erano andati via, loro facevano la rivoluzione dei garofani.
In Angola il Mpla, che era destinato a succedere ai portoghesi, si era trovato contro un esercito di mercenari, sostenuto dal Sudafrica (che poi invaderà l'Angola), a sua volta sostenuto dagli Usa (un famoso e potente stato canaglia, alleato, e sostenitore politico ed economico, degli stati canaglia che praticano l'apartheid, allora il Sudafrica, adesso Israele).
meno male che i cubani contribuirono alla lotta del Mpla.
il film racconta la storia di Ryszard Kapuscinski, delle sue amicizie, del suo coraggio, delle sue domande, di Carlota, di Farrusco.
è un film bellissimo, cercalo, non te ne pentirai mai - Ismaele
Kapuscinski, uno dei più grandi reporter di tutti i tempi, quello che
meglio ha saputo descrivere il processo di decolonizzazione dell'Africa, è il
protagonista di questa storia, ispirata al suo libro uscito postumo 'Ancora un
giorno'.
1975: la storia
dell'indipendenza Angolera, passata attraverso una brutale guerra civile
supportata da USA e URSS, è stata uno dei tanti teatri di quella guerra fredda
che aveva trovato il suo apice in Vietnam. Come in tante guerre civili la
'confusao', il caos, la fanno da padrone. Kapuscinski non ha timore di
immergervisi capo e collo, per provare a raccontare al mondo ciò che va
succedendo nel cuore dell'Africa. Ed è un viaggio prima di tutto emotivo,
raccontato attraverso straordinarie sequenze oniriche che ricordano la poesia
che trasudava un altro film d'animazione di scottante attualità, 'Valzer con
Bashir'.
Intervallate a immagini di
repertorio e interviste d'oggi, in un continuo gioco tra passato e presente,
tra realtà e possibilità, tra imparzialità del cronista e sua responsabilità
nei confronti della storia che sta raccontando, tra caos e controllo.
Un film davvero ben diretto,
dai temi alti, sperimentale nell'approccio narrativo e trascinante dall'inizio
alla fine.
…Ancora un
giorno è un film su come l’etica umana debba per forza scontrarsi
coi limiiti del giornalismo imparziale. E soprattutto su come un processo di decolonizzazione possa brutalmente
trasformarsi in una guerra civile. Un moto di liberazione in una
generale confuçao.
È in questo clima di disintegrazione che la stessa realtà pare
trasformarsi in un incubo lucido. Carrarmati e proiettili si sfibrano come
molecole di tempera sotto effetto dell’adrenalina e della paura. Vecchi banchi
universitari diventano schegge di memoria tra cui fluttuano vittime,
superstiti, protagonisti di una vita passata…
In appena 85
minuti un team di 200 esperti è riuscito a restituirci tutto ciò
con estrema e rarissima potenza narrativa. Ancora
un giorno ci si offre come una vigorosa istantanea a colori
sui modi di una guerra fratricida, sporca, e sui valori etici (quasi
autodistruttivi) di reporter d’eccezione. Il risultato è un documentario epico, spiazzante, unico nel suo
genere. Capace di mantenersi fedele a uno dei suoi assunti principali: «La povertà non può parlare quindi ha bisogno di
qualcuno che parli per lei». E di ridare dignitosamente voce a una
determinante ma impolverata pagina di storia mondiale.
…Uno dei
temi dominanti della poetica del Kapuściński narratore era la memoria. La sua penna e la sua
macchina fotografica potevano consegnare tracce di attimi che altrimenti si
sarebbero perse nel tempo.
Il momento chiave nel film su
questa tematica è l’incontro con Carlota,
affascinante guerrigliera del Mpla che deve portare il reporter
da Farrusco. È la migliore di tutto il contingente: ha una sua guerra privata per migliorare
l’educazione dei ragazzi angolani.
Sognava di fare l’infermiera per aiutare la gente. Chiede al reporter di fotografarla, per
trasmettere ai posteri il suo volto e quale fosse il suo posto nel mondo.
Durante la missione, la donna
capisce che il suo convoglio rischia di subire un’imboscata e ordina al
reporter di tornare indietro. Lei
non sopravviverà. Il senso di colpa e il senso di vuoto provocato
da questa perdita umanizzano ancora
una volta il reporter, rendendolo partecipe degli eventi, più che
semplice osservatore…
… La pellicola è il primo tentativo,
assolutamente riuscito, di traslare dalla prosa al grande schermo uno dei
capolavori del giornalista polacco. Stile encomiabile che con assoluta armonia
mescola graphic novel, interviste, riprese documentarie e immagini di
repertorio. Ma l’unicità del lavoro sta nel fatto che oltre ad essere un
preziosa testimonianza storica e un progetto energico, nuovo, e di ottimo
livello, è anche un manifesto professionale come pochi se ne sono visti negli
ultimi anni.
Attraverso il racconto dell’esperienza di
Kapuscinski, le sue riflessioni, i suoi pensieri, le sue domande senza
risposte, le sue frustrazioni, le sue volontà personali sospese tra l’etica ,
la dedizione professionale e le richieste del momento storico; viene descritto,
con una comprensibilità cristallina, una delicatezza a tratti liturgica e una
sensibilità umana rara, quello che è lo scopo di un reportage e il fine di
spingersi là dove non va nessuno: la volontà di conoscere, di ricercare l’uomo,
chiunque esso sia, e di immortalarlo sempre e per sempre.
Grandi nomi, numeri, vicende collettive, è
questo che tramanda la storia, sono invece i singoli, gli uomini e le donne di
ogni giorno, coloro verso i quali deve riporre la sua attenzione il cronista.
Senza pregiudiziali e catalogazioni ma con la volontà continua di stupirsi
altrimenti, nel momento in cui lo stupore viene meno, come riflette lo stesso
Kapuscinski nel film: ”Qualcosa, forse la parte più preziosa, è morta per
sempre in un uomo”…
…Jan Assmann, nel
suo libro La memoria culturale.
Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (1992),
distingue una memoria “comunicativa” – quella derivata dall’interazione
personale con un soggetto narrante che garantisce l’esperienza raccontata,
dunque una dimensione organica della
memoria – e una memoria “culturale” – quella affidata a processi di
estrinsecazione e oggettivazione del passato (all’interno di simboli, riti
sociali, istituzioni), dunque una dimensione mediale della mnemotecnica.
Documentare (in senso filmico) un’esperienza vuol dire
necessariamente proiettare uno dei due livelli sull’altro, far aderire il
soggettivo all’oggettivo, o viceversa. Il documentario classico sceglie
normalmente di partire dal primo tipo di memoria, il racconto personale,
trasformando quest’ultimo in un racconto “universale”, a più mani e a più
direzioni, oggettivandolo attraverso una tecnica che lo fissi in uno schema
narrativo esposto al suo “intorno”. Una tendenza strettamente contemporanea
sembrerebbe affidarsi, invece, ad un percorso inverso: quello cioè che parte da
una memoria già culturalmente oggettivata, un’immagine d’archivio ad esempio,
riadattandola ad un racconto ad essa estraneo, spesso di carattere intimo. In
entrambi i casi – e forse il secondo si sta dimostrando vincente – ciò che si cerca di fuggire è
la messa in scena della propria storia da parte di un soggetto chiuso entro i
limiti del suo punto di vista sugli eventi narrati…
…Ibridando il genere del reportage “puro” e quello
della narrazione, lo stile di Kapuscinski ha fatto sì che il suo nome rimanesse
nella storia del giornalismo mondiale (tanto da essere spesso inserito nelle
liste dei possibili premi Nobel). Se infatti Ancora un Giorno tiene incollati allo schermo mentre racconta i fatti della guerra, è
nel segmento finale che raggiunge il suo climax, quando Kapuscinski si trova a
fare i conti con l’etica professionale. Egli possiede delle informazioni che
potrebbero cambiare il senso del conflitto e si chiede dove finiscano i doveri
del giornalista e dove inizino quelli dell’essere umano. Quella ‘cosa’ la sa
solo lui, in tutto il mondo. Ha nelle mani lo scoop che ha inseguito per tutta
la carriera ed è conscio che potrebbe costare la vita a centinaia di persone.
Ripensa allora alle lezioni universitarie, nelle quali uno studente insinuava
che senza i giornalisti le guerre sarebbero diverse. Non vi spoileriamo nulla,
ovviamente. Vi diciamo solo che quel minuto di scena giustifica da solo il
proverbiale “prezzo del biglietto”.
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