mercoledì 30 ottobre 2024

Un maledetto imbroglio - Pietro Germi

ispirato a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda, a cui piacque il film, Pietro Germi è regista e protagonista del film.

le investigazioni del commissario Ingravallo sono difficili, ma lui e la sua squadra sono all'altezza.

ottimi interpreti ti tengono legato alla poltrona, provare per credere.

buona visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

Pur ispirandosi solo nell'assunto iniziale al capolavoro di Gadda, il film, grazie all'ottima regia di Germi, è perfettamente riuscito nel disvelare miserie e decadenze della borghesia romana e nel saper riproporre in celluloide il tono del geniale romanzo. Splendida la prova attoriale dello stesso Germi, che dà vita ad un personaggio (quello del commissario) che non si dimentica e che verrà "bissato" nel primo film di Damiani (Il rossetto). Un film sottolutato, cui non sono stati tributati gli onori che avrebbe meritato.

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Germi dà vita al primo poliziesco italiano, descrivendo con occhio distaccato una realtà quotidiana costituita di personaggi dalla coscienza più o meno sporca. Germi stesso interpreta una figura di commissario dal polso ferreo e fortemente caratterizzata, anche dal punto di vista fisico: astuto, occhiali scuri, metodi rudi e inquisitori, indagatore instancabile e distaccato e con una fidanzata che trascura (elemento tipico dei futuri poliziotteschi). Buon intreccio e ottimi interpreti.

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Un film giallo, per funzionare bene, deve non solo riservare al finale i fuochi d'artificio più alti e coreografici, ma anche saper dosare strada facendo ritmo e tensione nella giusta misura, come un'alchimia dove una dose eccessiva (o una troppo scarsa) di un ingrediente finisca per far saltare tutta la bontà di una ricetta. Pietro Germi, regista ed interprete senza fronzoli (quasi un Eastwood da Italia post-bellica) era così forse l'autore più indicato per uno dei primi polizieschi italiani, un film dove non ci sono tempi morti, distrazioni, vuoti narrativi, e tutto sembra procedere all'unisono verso l'inevitabile colpo di scena finale. Ottimo l'amalgama tra gli attori, soprattutto il team di poliziotti che non fa nessun torto al romanzo ispiratore, "Quer pasticciaccio brutto di via Merulana", tanto che lo stesso Gadda (pur riconoscendo le parziali distanze rispetto al romanzo) finì per apprezzare la giusta commistione di humor nero e tensione.

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…Alfredo Giannetti, Ennio De Concini e lo stesso Pietro Germi adattano molto liberamente lo stravagante, innovativo romanzo "sperimentale" di Carlo Emilio Gadda, "Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana", concentrandosi sulla vicenda noir e sul reticolo variegato di personaggi coinvolti, tra l'ispettore cinico e astuto come un incallito, spietato predatore, e i vari indiziati, tutti in qualche modo un po' colpevoli o portatori di una verità proibita che, qualora svelata, porterebbe a mettere a repentaglio la loro già fragile posizione.

Per Germi è nuovamente l'occasione per dedicarsi a dipanare scenari di malessere da vita di coppia, che finiscono per creare dei mostri, o comunque ad alimentare un disagio tra conviventi che finisce talvolta per spingere ad azioni inimmaginabili. La verità poi, verrà a galla quasi per caso, grazie ad una fatale e risolutiva, brillante intuizione di Ingravallo stesso, uomo duro, sin spietato, ma brillante e tenace come uno squalo, e sarà molto più semplice e quasi naturale rispetto al polverone che l'indagine riuscirà a sollevare, facendo emergere la condizione precaria e moralmente discutibile di ogni personaggio in qualche modo vicino alla vittima.

Da considerarsi come una cosa a parte o parallela rispetto all'elaborato, audace romanzo di Gadda, il film di Germi rimane un noir stupendo, capace di trattenere lo spettatore, arricchendo l'indagine di personaggi complessi ed emotivamente sfaccettati come è estremamente difficile trovare in un giallo o noir fine a se stesso, concentrato esclusivamente o quasi sul suo mistero portante…

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lunedì 28 ottobre 2024

Parthenope – Paolo Sorrentino

Già dal titolo si capisce che la protagonista del film non poteva non essere Napoli, filmata in modo innamorato e indimenticabile da Sorrentino.

La storia viene raccontata da Parthenope (Celeste Della Porta da giovane, Stefania Sandrelli da anziana), una storia d'amore che ricorda a tratti Jules e Jim di François Truffaut. 

Nella seconda parte del film appaiono due interpreti (e interpretazioni) memorabili, il professore universitario Silvio Orlando e il vescovo Peppe Lanzetta.

Silvio Orlando è il maestro di Parthenope, il professore che la sceglie come successore, e ha un segreto, un figlio malato, e lo mostra a Parthenope (il figlio ha qualche somiglianza con Charlie, il professore super obeso di The Whale).

Peppe Lanzetta è perfetto per il suo ruolo, il vescovo alle prese con il sangue di san Gennaro.

Un film che è una gioia per gli occhi, tra l'altro.

Buona (partenopea) visione - Ismaele

 


 

 

 

Che Sorrentino ci abbia abituato alla dismisura, è un dato di fatto. Che Sorrentino abbia un universo intimo e che spesso questo universo resti aggrappato al suo interno pur illudendosi di darsi completamente al pubblico, è un altro incontestabile dato di fatto. Che poi Sorrentino abbia una qualità visiva eccezionale, che parte proprio da quell’universo intimo, da quella particolare propensione a vedere le cose attraverso un filtro tra il levigato e il mostruoso, tra luci iperrealistiche scintillanti e l’oscurità grottesca di Francisco Goya, è altrettanto incontestabile.

Parthenope è questo. È un distillato di Sorrentino, che torna ancora a Napoli e la omaggia attraverso la parabola esistenziale di una donna attraente, amata da tutti ma che poco si concede, pur dispensando a chiunque la sua attenzione. Parthenope, interpretata dalla pressoché esordiente Celeste Della Porta, è creatura immersa in sostanza metaforica, è la ovvia prosopopea (non la superba presunzione, la figura retorica) di una città che nasce dall’acqua per sedurre, per soffrire, per convivere con i fantasmi rimossi del passato e per allontanarsi inesorabilmente da se stessa, continuando a coltivare il proprio rifiuto affascinato e nostalgico…

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Paolo Sorrentino non è nuovo all’utilizzo della metafora e del simbolismo. Con E’ stata la mano di Dio aveva già percorso le strade di Napoli, che però erano principalmente scenario alla vicenda personale di Fabietto, il protagonista, e poi si è scoperto alter ego del regista stesso. Con Parthenope, Sorrentino rimane a Napoli ma fa della città un personaggio nel corpo e nel viso splendido di Celeste Della Porta. La prima parte del film è più legata al classico viaggio di formazione, che si esaurisce e conclude (forse) di fronte al primo grande dolore di questa giovane donna. Da quel momento in poi che non specifichiamo ma che sarà chiaro a chiunque vedrà il film, Parthenope prende una strada accidentata, quella appunto metaforica e simbolica in cui la fanciulla si fa città e, man mano che procede nella sua ricerca di senso della vita, entra in contatto con ogni aspetto di Napoli stessa.

Parthenope entra in contatto con l’ambiente dell’arte, e si avvicina alla recitazione, arrivando a ricevere consigli da una grande attrice, una diva di origini napoletane che nel look e nei modi ricorda vagamente Sofia Loren. Si avvicina all’occultismo e alla magia della fede folkloristica tipica della città: il Miracolo e il Tesoro di San Gennaro, il Vescovo intermediario tra la città e il popolo, che vuole “fottere” la città per il suo tornaconto. Entra addirittura in contatto con le viscere mafiose del capoluogo campano, quando assiste a un “matrimonio” tra famiglie di camorra. Si immerge nell’ambito accademico, aspetto forse meno noto di Napoli, ma importante e significativo a livello internazionale, dopotutto è a Napoli l’Università più antica d’Europa, la Federico II. E’ lì che Parthenope “si ferma” e mette radici. Il riprendere canonico del racconto monografico di questa non più giovane donna la ritrova docente in via di pensionamento, mentre dice addio alla sua cattedra di Antropologia…

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sabato 26 ottobre 2024

Musica per vecchi animali – Stefano Benni

anche Stefano Benni ha girato un film, tratto dal suo libro Comici spaventati guerrieri.

partecipa Dario Fo, e lascia il segno, ma anche gli altri attori sono bravi.

vedere per credere - Ismaele



QUI o QUI  si può vedere il film completo 




 

Un film che lascia meravigliati, in pochi sono capaci di apprezzare a pieno quest'opera.

In un futuro catastrofico indefinito, un professore in pensione, un giovane meccanico ed una bambina ribelle, si ritrovano ad intraprendere un viaggio in una città distopica e surreale, mossi ognuno dalle proprie motivazioni. 

Un capolavoro dimenticato, mal distribuito ai tempi e non capito dalla critica, un film d'autore pieno di poesia, simbologie e fantasia, scenografia e location suggestive, una colonna sonora meravigliosa, senza parlare degli attori protagonisti perfetti con una lode ad un Dario Fo adorabile. Per gli italiani finché i film autoriali complessi li fanno altri oltre confine va tutto bene, quando è un italiano a farlo a parte Fellini, deve essere disprezzato e trattato con prevenuta superficialità.

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Un film originale che non riesce però a conservare la leggerezza e l'aura favolosa del romanzo da cui è tratto (Comici spaventati guerrieri). Benni non si dimostra all'altezza dell'incarico della regia, ma dissemina qua e là qualche battuta carina. Direi che dividerei il film in tre parti: l'inizio è spiritoso, allegro, spigliato; poi c'è una parte intermedia che risente dell'appesantimento della storia che perde l'avventura e l'azione; nel finale si riscatta perché raggiunge toni surreali e grotteschi ben gestiti.

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Un film di certo grottesco, fuori dagli schemi... ambientato in un atmosfera surreale e ricco di un mix di ingredienti: comicità, avventura, rischio, ricerca.
Film con cadenza simboliche, fantasiose, da scoprire.. Difetta un pò nel ritmo, ma è piacevole soprattutto per l'interpretazione dei personaggi e per il loro carattere tragi-comico. Toccante la scena finale.

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…La predilezione per il monologo e il modo quasi fumettistico di costruire i dialoghi (frasi ad effetto, tono di voce quasi sempre alto, ritmi serrati) fanno di lui uno dei migliori scrittori in circolazione, ma sul grande schermo trasmettono un senso di artefazione e di dispersione che non funziona.
Il film somiglia più ad un racconto aiutato dalle immagini e interpretato da attori eccellenti che parlano e si muovono come a teatro e ne sembrano consapevoli.

Forse la razionalità esce sconfitta da certe scene e la realtà, pur essendo vicinissima alla nostra, è talmente estremizzata da richiedere uno sforzo di fantasia perché l'opera risulti gradevole.
Ma anche se il film non parla direttamente al cervello, vi posso assicurare che arriva dritto al cuore.

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giovedì 24 ottobre 2024

Vai e vem (2002) - João César Monteiro

l'ultimo film di João César Monteiro.

João interpreta se stesso, la sua vita da anziano, ripetitiva, ma felice.

prende sempre l'autobus e fa i suoi giri.

poi (ri)appare il figlio.

per gli estimatori di João César Monteiro un film da non perdere.

buona visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo, con sottotitoli in portoghese

 

 

Vedovo e con un figlio in prigione perché condannato di rapina e duplice omicidio, Joao Vuvu vive in un appartamento di uno dei quartieri più antichi di Lisbona fra libri e dischi. Joao passa gran parte delle sue giornate percorrendo sempre lo stesso tratto di strada, sull'autobus numero 100. Il suo precario equilibrio viene di colpo meno quando il figlio viene scarcerato.

https://www.cinematografo.it/film/vai-e-vem-g4l4ld9y

lunedì 21 ottobre 2024

All We Imagine as Light - Amore a Mumbai – Payal Kapadiya

arriva dall'India un film che racconta le avventure di tre donne, che devono sempre subire le scelte degli uomini.

vivono in una megalopoli, Mumbay, dove lavorano, nell'ultima parte del film si spostano in un villaggio, nella campagna, con ritmi umani.

le loro storie sono apparentemente quelle di donne libere, ma i rapporti sociali e i vincoli familiari le costringono in ruoli che (ormai) non desiderano più.

le scene a Mumbay sono scure, e buie e notturne.

per chi guarda ci vuole un po' a entrare dentro il film, di notte tutti i personaggi sono neri.

al festival di Cannes il film ha vinto il gran premio della giuria, non esiste solo il cinema di Hollywood.

buona (indiana) visione - Ismaele


 

 

Le storie di Prabha (Kani Kusruti) e di Anu (Divya Prabha) sono intrecciate: sono infermiere e vivono sotto lo stesso tetto. Prabha ha un marito, partito per recarsi in Germania dopo il matrimonio, scomparso del nulla per anni, e che improvvisamente si rifà vivo inviandole un pacco. Una donna introversa, chiusa nelle proprie emozioni e in un pudore che si manifesta in ogni suo gesto. Anu è giovane, più aperta ed impegnata in una relazione impossibile con Shianti per la loro diversa confessione religiosa, lei induista, lui appartenente ai seguaci del profeta Maometto, cioè musulmano. Un problema, tuttavia non sufficiente a tenerli lontani da una passione che non riescono a consumare mai fino in fondo…

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Magnifiche, sin commoventi, le tre figure di donne irrequiete al centro della storia. Figure femminili protese sempre ad ostentare dignità e pudore, anche quando si tratta di commettere timide azioni di protesta e sfogo come prendere a sassate cartelloni pubblicitari a dimensioni cubitali.

"All we imagine as light" stempera la drammaticità di situazioni private davvero complesse da risolvere, attraverso la saggezza che rende dignitose e maestre di vita tre figure di donne umili, ma anche strenuamente integerrime e determinate nel portare a termine ognuna il proprio destino, entro un contesto che le ha costrette per troppo tempo a subire condizionamenti sociali o di terzi, apparentemente insormontabili.

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...All We Imagine As Light è la dimostrazione che nell'arte ciò che conta non è tanto il cosa - perché la storia che racconta è semplice e non particolarmente originale - quanto il come: ed è nel "come" che Kapadia si dimostra una regista eccezionale, capace di cogliere ogni sfumatura dell'universo narrato, ogni luce, ogni sguardo, ogni dettaglio, ogni piccolo spostamento dell'anima. Le corrispondono in bravura le due attrici protagoniste, Divya Prabha nei panni di Anu e soprattutto Kani Kusruti, la cui intensità recitativa fa di Prabha un magnete irresistibile, e un grido soffocato che è impossibile non ascoltare.

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domenica 20 ottobre 2024

La pecora nera - Luciano Salce

qualche anno fa, in Viva la libertà, Tony Servillo interpreta due fratelli gemelli, il politico e il fratello fuori controllo, che poi lo sostituisce.

nel 1968 Vittorio Gassman interpretava i due fratelli gemelli Agasti, Mario, il politico in ascesa, e Filippo, il fratello poco di buono che appare e porta scompiglio.

non è un film perfetto, ma Luciano Salce e Vittorio Gassman sono una garanzia.

buona (gemella) visione - Ismaele

 

 

Il doppio speculare in un film ha un solo fine, dimostrare quanto le parti in fondo si assomiglino. Così lo zelante onorevole Agasti, il "buono", è un egotico che lascia sfiorire la moglie; il gemello Filippo sarà anche furfante ma è un geniale uomo di mondo. E Salce, regista mai scontato, al connubio aggiunge una nuance machiavellica: la volpe nella politica italiana è di gran lunga preferita al leone (quantomeno al ministero degli esteri). Commedia non spiacevole però ridondante, che vive di marchingegni morali e, certo, del mattatorismo qui persino duplicato di Gassman.

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Film di difficile reperibilita' in Rete ( ma comunque un'unica copia la si trova ...) e devo dire che e' anche godibile in vari pezzi con un inizio strampalato per il povero e furbo Gassman e con un andirivieni di sequenze agro-dolci e velatamente sexy che fanno di questa Pellicola un qualcosa di positivo nel Panorama Cinematografico abbastanza insipido anni '60.

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venerdì 18 ottobre 2024

Anima nera - Roberto Rossellini

Vittorio Gassman incontenibile come al solito, ma un po' meno.

è innamorato della giovane moglie, che riesce a tenerlo a bada.

siamo in pieno boom economico, prendere a prestito soldi, magari da uno strozzino, è facile, restituirli un po' meno.

non è un film perfetto, Roberto Rossellini l'avrà girato per qualche obbligo, manca qualcosa.

buona (innamorata) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

  

 

Come è noto, alla metà degli anni Sessanta Roberto Rossellini, pur essendo nel pieno dell'attività e acclamato come Maestro a livello mondiale, decise che ne aveva abbastanza del cinema e proseguì la sua produzione artistica soltanto tramite documentari biografici, regie televisive e lavori di evidente scopo didattico. Questo Anima nera, tratto da un testo teatrale di Giuseppe Patroni Griffi con una sceneggiatura scritta dallo stesso regista insieme ad Alfio Valdarnini, rappresenta l'ultimo lungometraggio espressamente cinematografico girato da Rossellini; secondo molte voci, anche di presenti sul set, Rossellini però seguì molto poco la lavorazione del film, lasciando spesso e volentieri le cose in mano ad assistenti e interpreti. Sulle ragioni di questa crescente insofferenza per Cinecittà e più in generale verso il mezzo artistico che lo aveva reso grande e celebre, e che lui stesso aveva nobilitato con opere del calibro di Roma città aperta (1945), Paisà (1946) o Europa 51 (1952), si potrebbe discorrere a lungo e probabilmente senza arrivare a una risposta certa; sicura è invece la disaffezione verso Anima nera, pellicola che avrebbe meritato maggiori cure e che, nonostante la travagliata realizzazione, riserva comunque un discreto fascino...

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giovedì 17 ottobre 2024

Il marito - Nanni Loy, Gianni Puccini

Alberto Sordi è sempre un gigante, che sia vedovo, scapolo o sposato non cambia la bravura di Alberto Sordi.

questa volta si innamora di una violoncellista, nel "pacchetto" sono comprese la suocera e la cognata, oltre che il complesso musicale di musica da camera della moglie.

la musica è un po' pallosa per il marito, e la suocera e la cognata sono odiose, povero marito.

un film da non perdere, vedere per credere.

buona (coniugale) visione - Ismaele



 

 

Afflitto anche dalle difficoltà economiche dei suoi parenti, Alberto è sull'orlo del baratro, quando una vedova benestante, sembra prendere a cuore le sue sorti finanziarie,non del tutto "disinteressatamente".Tuttavia mentre sta per partire in sua "compagnia",la moglie ,mangiata la foglia,s'inventa un malore inesistente,mandando all'aria il "progetto" non del tutto ortodosso di Alberto, che dunque, sarà costretto a cambiare lavoro e a diventare rappresentante di dolciumi,dopo un divertentissimo scontro in ospedale con consorte e suocera.

Alberto Sordi è stato uno dei migliori attori di tutti i tempi,soprattutto il più versatile,unico il suo istrionismo, che gli consentiva di interpretare con successo qualsiasi personaggio,coprendo una gamma immensa di tipologie umane e sociali.Attore drammatico,brillante, ma soprattutto comico e in questa veste, ha prodotto le cose migliori. Questo film, gli consentì di gigioneggiare alla grande, come solo lui sapeva e riusciva a  fare.

Commedia divertentissima.

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Splendida commedia. Veloce, con dinamiche chiare, lascia a pensare parecchio sull’istituto del matrimonio. Sordi è in una delle sue vette; inoltre cura soggetto e sceneggiatura, e lo fa assieme a grandi del genere, come Sonego, Maccari e Scola e ai due registi, gente di livello come Puccini e soprattutto Loy. Da un florilegio di questo tipo facilmente poteva nascere un prodotto molto ben riuscito, come questo: non c’è una battuta fuori posto.

Il film ha il merito di far emergere bene l’insopportabilità di certe donne: invadenti, petulanti, capricciose, arroganti. Fanno di tutto, pur di ottenere ciò che vogliono: la protagonista si finge malata sempre all’occorrenza, per dar fastidio al marito e intralciarne i piani, quando non collimano con i suoi.

Il matrimonio come gabbia: un tema pirandelliano, qua ripercorso con più brio ma non minore autenticità…

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mercoledì 16 ottobre 2024

I quattro dell'apocalisse - Lucio Fulci

un film sorprendente, sembra un film a episodi, in realtà è una storia unica, con i quattro disperati e un'ultima parte sorprendente e commovente.

appare anche Tomas Milian, nel ruolo di un cattivissimo.

non perdetevi questo film, sceneggiato anche da Ennio De Concini, se mai capitasse, per sbaglio. in qualche canale tv.

buona (maschile) visione - Ismaele


 

 

Fulci segue le orme di Sam Peckinpah e dei suoi western rivoluzionari ed anarchici: addio antiche faide tipicamente a stelle e strisce tra indiani e cowboy; basta duelli frontali a mezzogiorno in punto, baciati dal sole a picco e coperti dalla polvere e dal sudore; basta lotte di liberazione in favore del popolo messicano e alla loro causa rivoluzionaria; addio trielli e piani messicani tesi, adesso si dà voce agli emarginati, alle figure che da sempre popolano il sottobosco western ma che non hanno mai avuto ruoli alla ribalta. Il protagonista, Stubby, è l’antieroe guascone e romantico, che da perfetto baro bugiardo compie, attraverso l’arco narrativo del film, il suo viaggio interiore fino a trasformarsi in un eroe atipico, un “cavaliere pallido”, un giustiziere solitario dalla morale ambigua che prende il sopravvento sull’antagonista effettivo della pellicola, Chaco, caratterizzato da Milian come una sorta di rockstar maledetta dotata di un fascino perverso e magnetico tanto da rubare la scena al personaggio di Stubby/ Testi, almeno finché i due compaiono insieme.

La sceneggiatura fu scritta da Ennio De Concini, che si ispirò ad una serie di racconti del 1868 pubblicati da Francis Brett Harte con il titolo di The luck of roaring camp.

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…La scena per me più bella non è però legata a torture, spari o morte, ma al loro opposto. La nascita di Lucky, che la prostituta Bunny porta in grembo, è un momento emozionante, il momento che rende il film morte e vita insieme. Il villaggio di montagna, abitato solo da uomini in cerca d'oro con più di un problema con la giustizia alle spalle, si stringe attorno al parto, i freddi e disillusi minatori ritrovano la loro umanità e un sincero affetto verso il neonato che li porterà ad adottarlo. 
Un western che fonde così bene tanti aspetti, sfumature e contorni non può passare inosservato, né essere bollato come prodotto di scarso valore. Anzi, è un film da scoprire e custodire. Non a caso inserito nella retrospettiva sul western all'italiana tenutasi a Venezia.

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Imperfetto, erratico, indeciso; eppure il film possiede una sua indubbia malia. A causa, forse, di quelle languide melodie folk? Per la simpatia che ispirano i personaggi, tutti emarginati o diseredati o freak? Oppure per i temi del viaggio e della perdita che soffondono la storia d'una tenera malinconia? Fulci non risparmia scene forti, ma tutto è ammorbidito, come se lo si osservasse dalla lontananza del ricordo. Adeguati tutti gli attori; un plauso alle presunte seconde linee dei Lastretti e Corazzari, volti degni del western maggiore.

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Un giocatore d'azzardo, una prostituta, un alcolista, un nero medium sono in prigione e sfuggono allo sterminio dell'intera cittadina. Inizia poi il viaggio dei quattro, lungo il quale incontrano Chaco (Milian), un messicano apparentemente amico. Il film è uno spaghetti western brutale e psichedelico (musiche simil-primi Pink Floyd) e deve molto al carismatico Milian (non doppiato), che interpreta un messicano sadico fatto di pejote. Nella versione censurata sono tagliati lo stupro e lo sceriffo scuoiato vivo. Un piccolo diamante grezzo.

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Il West di Lucio Fulci è un west malinconico ma sognante, delirante quanto dolce. Allo stesso tempo sa essere incantevole come un sogno, come un altrove che tutti vorremmo, ma sa anche essere spietato e triste come un’inferno dal quale scappare. Anche la colonna sonora e le sue canzoni anacronistiche, incidono sul film come in poche altre occasioni, e sanno creargli quel lirismo difficile da raggiungere, senza però scadere nella retorica di una grammatica ricattatrice. Come in “Pat Garret and Billy the Kid” del Maestro Peckinpah, omaggiato da Fulci nella iperrealistica sparatoria iniziale a Salt Flat, anche ne “I Quattro dell’Apocalisse” ci troviamo in un west malinconico, e come in tutte le malinconie c’è un qualcosa di sensuale che richiama l’abbandono dei sensi, i piaceri dell’alcova più intima e segreta. Quei sogni ad occhi aperti, dell’adolescenza più sognatrice, dove le passioni e le pulsioni sessuali sono irrefrenabili e ci si sente sempre come ubriachi buttati sotto il sole di luglio. C’è un piacere, un orgasmo silenzioso e lento, che pervade tutte le scene, tutte le inquadrature, grazie alla sapiente fotografia e alle intuizioni registiche di Fulci stesso.
“I Quattro dell’Apocalisse” è un sogno che vira nell’incubo più volte, ma preserva sempre lo status di altrove onirico in cui tutto e possibile, e in cui ogni sensazione è provabile.

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Molto buono: Lucio Fulci realizza un western in cui il Mito dell'West (classico o post-leoniano che sia) viene smitizzato, a partire dai personaggi.

I/la quattro dell'Apocalisse indicati/a dal titolo, infatti, non possono essere considerati eroi/na, e l'omissione del termine "cavalieri" sembra quasi evidenziare tale aspetto: infatti i/la protagonisti/a di questa opera sono un ubriacone, un nero mezzo pazzo, una prostituta incinta e un baro appena scarcerati/a. 

 

A loro si oppone, per carisma e ferocia, il personaggio di Chaco, un personaggio tanto carismatico quanto sadico: in alcuni momenti sembra quasi una sorta di figura messianica (la scena in cui droga i/la protagonisti/a ricorda, almeno al sottoscritto, una sorta di "eucarestia" blasfema, accentuata dai movimenti 'manuali' della macchina), in altri rivela una spietatezza quasi inumana (la scena in cui si mostra il risultato della strage della carovana cristiana incontrata precedentemente dal quartetto è spiazzante, specialmente per la presenza di vittime infantili), ma alla fine, di fronte all'approssimarsi della Morte, è la codardia e la bassezza che prendono il sopravvento, ridimensionando notevolmente quello che può essere considerato l'unico personaggio davvero "mitico" (in quanto è l'unico che segue davvero i codici dettati dal Genere) del film.

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lunedì 14 ottobre 2024

ricordo di Giorgio Ferrari

 


Addio a Giorgio Ferrari: nel suo "Vicoletto" tanti film indimenticabili - Massimiliano Rais


Addio a Giorgio Ferrari che amava il cinema e le sale consacrate alla settima arte. Aveva 67 anni, era nato a Cagliari. Ha contribuito allo sviluppo della cultura cinematografica nella Città del Sole.

Il suo avamposto è stato "Il Vicoletto”, la piccola sala in via San Giacomo, nel quartiere di Villanova, lo spazio destinato alle pellicole di qualità, nel solco di scelte originali, spesso alternative a quelle degli spazi più grandi.

Prime visioni e retrospettive, Il Vicoletto, nato alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, ha sempre regalato belle sorprese agli spettatori. Il critico cinematografico Gianni Olla, custode di tante memorie in celluloide, in un articolo pubblicato sulla rivista Cinemecum, ricorda che «oltre alla sempre presente Cineteca sarda, garante non solo dei dibattiti ma anche di una qualità filmica basata sui classici della Settima arte, nacquero piccoli cineclub “resistenti” come Il glorioso Vicoletto di Giorgio Ferrari che si appoggiava al catalogo della San Paolo o alla normale distribuzione commerciale».

Ferrari era il grande cerimoniere. Nel suo regno si muoveva con passo felpato, signorilità e aplomb. Impegno totalizzante: dalla consegna delle tessere, secondo lo spirito del cineclub, alla gestione delle apparecchiature per la proiezione sino al garbato ed elegante saluto agli spettatori al termine del film.

Lo animava il grande amore nei confronti del cinema, passione che ha arricchito la sua vita e che in tempi più recenti lo ha portato a fondare il Greenwich d’essai in via Sassari, che continua ad essere, in un ambito che ha subito negli ultimi anni vorticosi cambiamenti, un punto di riferimento per tantissimi cinefili in linea con l’esperienza del Vicoletto.

Giorgio Ferrari, che ha ricevuto in dono una voce molto adatta per la recitazione, è stato anche attore teatrale. È ancora vivo il ricordo della sua Mandragola portata in palcoscenico, nei primi anni Ottanta, con spettacoli destinati agli studenti. Schivo, per lui era meglio costruire che apparire. Non ci sono sue foto sul web. Nell'immagine pubblicata sui social dal figlio Andrea, musicista, leader del gruppo Carovana Folk, si mostra sorridente.

Non resta che ringraziarlo per l'impegno, per le scelte felici e per i bellissimi film visti, anche più volte per afferrarne tutti i significati, nel grande schermo suo Vicoletto.

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Dalla propaganda nazista al film maledetto di Jerry Lewis - Federico Greco

 

domenica 13 ottobre 2024

Iddu - L'ultimo Padrino - Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Elio Germano e Toni Servillo (bravissimi) sono i due protagonisti del film, e tutti gli attori e attrici sono in ottima forma.

la storia è quella di Matteo Messina Denaro, che vive come un sorcio, perdendo potere e prestigio.

il boss si fida di Catello, con la morte sempre vicina.

i due sono personaggi tragici, senza futuro.

sembra una storia del passato, è solo dell'altroieri.

pizzini e puzzle sono il lavoro e la passione e il tormento di Matteo Messina Denaro.

un film cupo, oscuro, nel quale i due protagonisti hanno un rapporto quasi come quello di un padre con un figlio.

e poi c'è la polizia, e i servizi segreti, che proteggono il boss, nel film come nella realtà.

un film che riesce a coinvolgere, senza deludere.

buona (mafiosa) visione - Ismaele



 

Iddu è un’opera che, pur non priva di difetti, riesce a distinguersi grazie alla straordinaria qualità delle interpretazioni e a una regia coraggiosa, capace di mescolare realtà e finzione, creando una riflessione profonda sulla condizione umana e sulle maschere che ognuno indossa. Nonostante le sue criticità, il film merita attenzione per l’originalità del suo approccio e per la capacità di offrire un ritratto inedito di una delle figure più enigmatiche e controverse della storia contemporanea italiana.

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Fatto sta che nella visione di Grassadonia e Piazza, la Sicilia è una terra in cui la linea genealogica è impazzita, i padri hanno abdicato e i figli hanno smarrito la rotta. La trasmissione è stata spezzata o meglio è stata inquinata dalle logiche malate del sopruso e del potere, quelle della mafia e delle istituzioni oscure e corrotte. Come sempre la loro scrittura rimodella il dato di realtà, la storia, con la forza dell’invenzione. Ma se in Sicilian Ghost Story la chiave fantastica era una specie di rivolta contro l’orrore della cronaca, qui la deformazione romanzesca piega verso il grottesco, in un’ironia che si fa sarcasmo e che disegna una galleria di maschere ottuse e inquietanti. Però non è un semplice ritorno a registri e schemi di certo cinema politico italiano. Perché lo sguardo di Grassadonia e Piazza ha un’originalità autentica, sa costruire la tensione nei momenti dell’azione, ma soprattutto gioca su una molteplicità di prospettive: un realismo di fondo che si coniuga a una specie di astrazione nella gestione degli spazi, del décor, dei costumi e dei colori, che si stratifica di simboli, di rimandi a un orizzonte mitico, ancestrale. Certo, a differenza del film precedente, non sembra esserci molto margine di sovversione. E qualcosa, ogni tanto, sembra andare verso l’eccesso, sfuggire dalle mani. Eppure in Iddu c’è la libertà di una rilettura, di un’interpretazione, di un pensiero che può rischiare anche il tradimento. Ma che è soprattutto un sano atto di coraggio.

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Se i primi minuti sono quelli fondanti rispetto a ciò che viene dopo, non c’è dubbio che “Iddu” sia un film di morte e di morti. Non solo perchè la storia si apre all’interno di un casolare dove Messina Denaro assiste agli ultimi attimi di vita del genitore per poi sostituirlo scavandosi da solo la propria tomba con un’esistenza che tale non è. Lo stesso Catello (interpretato in maniera superba da Toni Servillo), interlocutore privilegiato di Messina Denaro, attraverso un rapporto epistolare orchestrato dai servizi segreti per scovare il famoso latitante, ne è una delle sue tante versioni: magari più vitale di altre per il desiderio di non abdicare al sogno della vita - quella di costruire un albergo che gli consenta di pagare i suoi debiti e assicurare ai familiari una vita tranquilla - ma comunque mortifera (“sei un ex in tutto” gli ricorda la moglie in maniera sprezzante) per i fallimenti che lo hanno portato prima in prigione e poi a tradire se stesso consegnandosi al nemico. Tombale - alla pari dell’abitazione in cui si rifugia Messina Denaro - è l’appartamento dove Catello ritrova la famiglia dopo essere uscito di prigione e ancora è la morte che invoca quando sostiene che per riuscire a convincere il boss a eleggerlo a interlocutore privilegiato si dovrà evocare dall’oltretomba la figura del padre a cui peraltro lui stesso cercherà di sovrapporsi nelle parole rivolte al potente latitante…

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venerdì 11 ottobre 2024

Vivere in pace – Luigi Zampa

commedia e tragedia s'incontrano in questo film, in una storia ambientata durante l'occupazione nazista.

in un paese dell'Appennino la guerra arriva quando due statiunitensi appaiono in una casa del paese.

Aldo Fabrizi è straordinario, fa ridere e poi fa piangere.

un film sottovalutato, e poco visto.

non perdetevelo.

buona (resistente) visione - Ismaele


 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Film di Zampa che sa di neorealismo (piuttosto ovvio, visto che si è nel 1947), si regge soprattutto sulla grande professionalità di Fabrizi e sulla linearità della storia, che miscela dramma e commedia. Forse eccessiva la scena del tedesco e dell'americano che fraternizzano, specie pensando al "dopo". Un film che meriterebbe di essere anche proiettato nelle scuole per capire il clima di allora. Di puro mestiere le interpretazioni degli altri attori. Valido.

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A metà tra neorealismo e commedia, il film di Luigi Zampa rapresenta un interessante terza via nel cinema italiano del dopoguerra. Anche se gli aspetti più crudi e violenti del conflitto non mancano, dalle rappresaglie fino alla paura di essere cacciati dal proprio paese, le vicende di una famiglia di contadini umbri (con il pater familias Aldo Fabrizi che cerca di barcamenarsi tra una parvenza di normalità e la necessità di difendere i propri cari) si intrecciano con quelle di due soldati americani a cui danno ospitalità. La risalita dei tedeschi, in fuga ma ancora pronti a vendicare il collaborazionismo verso gli Alleati, cambierà le carte in tavola e stravolgerà la vita di tutti. La lunga parte centrale, con il soldato tedesco ed il nero americano che fraternizzano, complice una sonora sbronza, stempera i toni drammatici di un film che comunque non si esime dal raccontare tutte le storture e le atrocità dell'ultimo conflitto mondiale.

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Aldo Fabrizi negli anni '40 era il piu' bravo attore italiano in circolazione. I migliori registi dell'epoca lo sapevano e lo scritturavano per i loro Capolavori (Roma Citta' Aperta, Mio figlio professore, Guardie e Ladri...). Qualunque interpretazione facesse, lasciava un segno indelebile: poteva passare dalla scenetta comica con un S.S. nazista ubriaco, ad immolarsi stoicamente per salvare un soldato nemico redento, e risultare credibile, in una manciata di minuti. Nel film neorealista di Luigi Zampa del 1946, insieme ad un'altra grande attrice del passato Ave Ninchi, ci fa commuovere e ci fa sorridere anche quando "vivere in pace", in tempo di guerra, risultava davvero difficile per chiunque, anche a chi si e' sempre fatto gli affari propri... Da vedere assolutamente.

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Toccante, poetico e commovente.

E' un film per nulla datato che ancora oggi risulta bello, toccante, poetico e commovente. Fabrizi, nel ruolo del protagonista, è davvero straordinario e dà vita a un personaggio ricco di sfaccettature, in grado di passare dalle tonalità della commedia a quelle del dramma. Zampa, infine, dirige con maestria, poesia e ispirazione.

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giovedì 10 ottobre 2024

Stanza 17-17 palazzo delle tasse, ufficio imposte - Michele Lupo

un gruppo di evasori fiscali diventa una banda contro l'agenzia delle entrate

il direttore dell'ufficio è Ugo Tognazzi, che appare poco.

la banda, un po' come ne I soliti ignoti, cerca di riprendersi i soldi "ingiustamente" versati all'Ufficio delle Imposte.

la lotta fra gli evasori e l'amministrazione è spesso divertente,

buona (evasiva) visione - Ismaele


 

 

Michele Lupo sa sempre come si fa per mantenere alto il ritmo di un film. In questo ripropone il tema del furto tecnologico organizzato da ladri improvvisati ma ingegnosi e lo fa senza grande originalità ma con onesto divertimento. La parte sul western che sta tramontando e su Sartana che fa le cadute... su un noto materasso per una pubblicità è divertente ma anche amara. E Pisacane, vecchio ma sempre bravo, è quasi commovente.

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Purtroppo Ugo Tognazzi, nonostante l'ottima performance e il suo gustosissimo personaggio, appare davvero troppo poco (circa 20 minuti). Il film comunque è un ibrido piuttosto riuscito tra giallo e commedia, con spunti davvero divertenti ed interessanti. Il cast è ottimo: Gastone Moschin e Franco Fabrizi primeggiano, mentre inferiori al loro standard appaiono invece Leroy e Stander. Alla fine il film non è malaccio, anche tenuto conto del gustoso finale.

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…Concludo dicendo che si tratta di un film riuscito, a cui non mancano le trovate comiche ed originali.

Provvisto inoltre di una trama ben costruita che non annoia mai e di attori bravi nell'aver saputo interpretare i loro personaggi.

A parer mio merita quindi di essere rivalutato, sebbene sia cosciente del fatto che è difficile riuscirci con dei film che hanno raccolto in prevalenza giudizi negativi. Ma un'opportunità gli va senz'altro data perchè riesce ad intrattenere in maniera intelligente e soprattutto originale. Insomma è in possesso di quelle qualità che gli permettono di farsi rispettare nel genere di cui fa parte. Lo consiglio.

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Qui Lupo cerca di salire la china per passare ad un cinema di serie A deciso, ci riesce in parte, anche avvalendosi di una partecipazione straordinaria e ben caratterizzata di Tognazzi, Sceneggia lui steso in coppia con Sergio Donati, nome altilenante ma non male del nostro cinema. La traccia sarebbe forte e calzante, ma sono troppe le macchiette dove si disperde il gusto del racconto, il personaggio di Tognazzi è la chiave di volta, ma viene sfruttato fino ad un certo punto. La trovata gialla del colpo avrebbe dato più risultati se si fosse inserita e montata più intelligentemente. Un cast di rispetto e ben impiegato fa il giusto coro.

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mercoledì 9 ottobre 2024

Dove non ho mai abitato – Paolo Franchi

una storia d'amore che sconvolge Emanuelle Devos e Fabrizio Gifuni, e come le belle cose, dura poco, lei tornerà a Parigi, lui diventerà l'erede del grande architetto.

un film non urlato, poche parole e tanti sguardi.

buona (amorosa) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Dove non ho mai abitato è un film che coinvolge da subito e che trascina in un alternarsi di emozioni che vanno dai sorrisi al pianto come in pochi altri casi. I due protagonisti, Emanuelle Devos e Fabrizio Gifuni, sono straordinari nell’interpretare due personaggi che si rivelano nei piccoli gesti, nelle parole sussurrate, nel non detto. I loro sentimenti reciproci si percepiscono in un lento ma inevitabile crescendo che li porta ad avvicinarsi e a dare la sensazione di non poter più fare a meno di questi pochi attimi rubati alla loro quotidianità. Il vedersi per seguire gli ormai quasi terminati lavori di una casa creata ad hoc per una coppia di neosposi innamorati è il momento in cui torna a splendere il sole di una città che li ha ingrigiti nell’anima.

Il regista, Paolo Franchi, riesce a costruire una storia fatta di pochi elementi ma chiari e che vanno dritti al punto. Tutto è organizzato affinché nulla sia superfluo, non un’inquadratura in più, non una battuta, non una location.

Ogni elemento è studiato e funzionale agli eventi ed all’empatia che si vuol far provare allo spettatore il quale, dall’inizio alla fine, non può che sentirsi partecipe del racconto. Perché, ciò che si vede sullo schermo è, in fondo, anche la nostra vita.

Negli occhi dei protagonisti, nei loro imbarazzi e nelle loro lacrime, ma anche nei loro sorrisi e negli improvvisi momenti di felicità, ci siamo tutti noi e tutte le nostre scelte.

Guardare Dove non ho mai abitato è un po’ come guardarci allo specchio, uno specchio che ci racconta quello che potremmo essere se chiudessimo le porte al vero amore, che sia una persona o una passione, e come sarebbe la nostra vita se ci arrendessimo troppo presto. Da non perdere.

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…Tanto enigmatici e ambigui erano stati i lavori precedenti, tanto è scoperto e dichiarato il nuovo: da un lato, "Dove non ho mai abitato" ci presenta i protagonisti e la loro chiusura verso il mondo, che il regista si preoccupa di destabilizzare con la progressiva messa a nudo delle loro personalità e con il ribaltamento dei rapporti di forza tra le parti; dall'altro, procede a un impiego delle immagini e dei suoni che, in maniera coerente, sono utilizzati per fare da diapason agli stati d'animo di Francesca e Massimo. A differenza di altre volte, la regia di Franchi ci sottrae il corpo dei personaggi e quindi la loro carnalità per restituirceli - attraverso un'abbondanza di primi piani - nella misura che li contraddistingue dal punto di vista sentimentale. Ed è proprio il lavoro di sottrazione operato prima sul testo della sceneggiatura e poi sul set, lavorando sulle interpretazione trattenute dei bravi Emmanuelle Devos e Fabrizio Gifuni, a costituire la parte migliore del film, insieme alla combinazione tra la rarefazione della resa attoriale e la presenza decisa di musica (Pino Donaggio) e fotografia (un Fabio Cianchetti in versione depalmiana) che, insieme, concorrono a definire i tratti di una passione a lenta combustione. Semmai, abituati alle vertigini cinematografiche di Franchi, la coerenza di "Dove non ho mai abitato" lo fa sembrare a tratti semplificato e un po' scontato. Forse ha ragione Franchi nel dire che ai critici non va bene niente e, comunque, pur fidandoci delle nostre sensazioni non ci sentiamo di sminuire la bontà del suo lavoro.

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lunedì 7 ottobre 2024

Girotondo, giro attorno al mondo - Davide Manuli

Giuliano perde il suo migliore amico per un'overdose di droga, entra in crisi, smette di drogarsi e, dopo un po', si innamora di Serena, una prostituta incontrata per strada.

il film è in bianco e nero, è sorprendente quasi come un thriller, ogni scena è memorabile, gli attori sono davvero bravi, e il regista, che anche ha scritto il film, non è mai banale e prevedibile.

il film è girato in Francia, qualche volta i dialoghi sono in francese.

un questo film eccezionale è straordinaria la vecchietta francese, nel suo dialogo con Luciano, in attesa di Serena.

un gioiellino da non perdere.

buona visione - Ismaele

 


 

 

 

L’emersione storica della pellicola appare la traslazione di ciò che viene raccontato al suo interno: è una storia da oblio, film non identificato dove i suoi protagonisti sembrano, sono fantasmi erranti, quindi morti: non c’è pace, l’estasi allucinata risiede nella musica a 140 bpm, non c’è luogo, le cartoline da mondi paralleli, e che siano discariche o cessi di bar di provincia poco importa, non c’è parola, inglese francese italiano, l’identità è incerta, multiculturale, spaccata, volatilizzata, eppure, sorprendentemente, c’è amore: sincero perché fra gli ultimi, fra due che hanno pestato il proprio passato, di lividi divenuti tatuaggi, trip lisergici, tipi psichedelici, ingenui (come ingenuo è l’ultimo dialogo) che però trovano l’amore, riemergono, e il dramma assurdo costellato da maschere pasoliniane sotto effetto di LSD diventa fiaba, sporca, fetida, laida, ma comunque, in qualche modo, con un lieto fine.

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Erroneamente paragonato ad Amore Tossico di Caligari e a Trainspotting uscito pochi mesi prima, Girotondo è qualcosa di estremamente più radicale, senza il benché minimo orpello o aggancio pop, nemmeno così focalizzato sul fattore droga ma panoramicamente, desolatamente conficcato nel cuore di un disagio sociale più esteso e nel contempo più sottile e non semplificabile; senza inni pop e colori, con surreali, convoluti dialoghi quotidiani e martellanti musiche techno a scandire i malandati pomeriggi dei sopravviventi e sopravvissuti.

E’ un film retrospettivo sul dolore, un tributo (per usare le parole di Manuli“alle tante persone perse prima e durante le riprese”, dove il vagare senza meta e senza prospettive degli emaciati protagonisti (su tutti il bravissimo, iconico Curreli) tra Milano, Roma e Parigi diventa una delocalizzata, universale processione di disperazione ed ottundimento generazionale. Manuli torna a qualche anno prima, all’eroina e al vagabondaggio di ventenni e trentenni senza salvezza, allo spettro dell’Aids e della scomparsa di corpo e di pensiero. “Voglio lasciare un segno, ci sono passata anch’io su questa fottutissima terra”, grida una delle protagoniste di Girotondo, chiedendo di essere messa incinta da Angelo, sillabando così il devastante manifesto di una gioventù in evaporazione.

Un film condannato dalle leggi di mercato, ma a cui occorre restituire giustizia e di cui è impossibile non respirare l’anima, logora ma furente, di una generazione tradita. Un film che puzza di vita.

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Luciano Curreli è Angelo, il protagonista, un personaggio bellissimo, fragile, aperto, che lascia la droga dopo aver perso il suo migliore amico e aver incontrato la prostituta Serena (Sarah Boberg), straordinaria nella sua bellezza di angelo ferito, luminosa e tagliente. Due attori, due volti capaci di bucare lo schermo e conficcarsi dritti nell’occhio della cinepresa e di riflesso nel cuore e nella testa di chi guarda.
Manuli racconta un mondo sfatto e ai margini, intriso di morte, dolore, vita, gioia, amore, droga, favola, comprensione, umanità, senza la benché minima ombra di retorica, affidandosi al linguaggio di una cinepresa che aderisce alla naturale fotogenia degli attori. Senza compiacimento, ma solo spinto da un’urgenza e una necessità palpabili. Così, lontano dalle edulcorazioni della fiction, tutto sembra vero, sentito, sofferto, vissuto. E in queste sue “aperture”, in queste sue fughe spericolate a cavallo di un racconto che procede per sussulti, squarci e passaggi di natura biologica più che logica, c’è tutto il film preso nel suo “farsi”, il film come lavoro di set, di sceneggiatura scritta e rimaneggiata direttamente sul posto, al momento delle riprese, resa elastica e dirompente dalle dinamiche degli attori, dalla cinepresa a spalla che li segue in ascolto, dai toni e dalle facce giuste, dai luoghi reali, dall’improvvisazione, in qualche modo, che fa pensare ai momenti più liberi di un Cassavetes.

È inidentificabile e apolide, l’operazione di Manuli. Indipendente, certamente. Ma anche fuori dal tempo, allucinata, estranea al caos contemporaneo, capace di stare sul crine di un cinema che rilegge, con naturalezza e per pura necessità di espressione, le immagini libere e fiammeggianti degli anni ’60 e ’70, quelle delle nouvelles vagues impetuose e travolgenti (l’uso dello zoom a mano, furioso e selvaggio; un certo montaggio sincopato; la macchina a spalla a seguire le camminate degli attori…), ma anche quelle affacciate sul baratro di senso postmoderno della New Wave del cinema francese anni ’80, dove le storie avevano meno importanza dei personaggi (il rapporto uomo-donna tra i due protagonisti fa pensare al primissimo Luc Besson, mentre la sequenza nel caffè, con i suoi ospiti bizzarri, è un misto tra Godard e Beineix). E ancora i brevi e fulminanti quadri in cui i personaggi si rivolgono direttamente alla macchina da presa, o il mondo del circo e delle comunità nomadi, che fanno venire in mente il primo Kusturica.
La polifonia linguistica è un altro punto di forza del film, girato per un buon 70% da attori francesi in francese e con alcune battute di dialogo in inglese. L’italiano diventa allora una lingua tra le tante, e neanche la più importante; e tutto questo, inevitabilmente, porta al film un tangibilissimo quid di verità in più…

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