venerdì 31 maggio 2024

CON I SUOI FILM VISIONARI E FATALISTI, WERNER HERZOG HA DATO VOCE ALLA POTENZA DEL DESIDERIO - Lucia Brandoli

 


Da adolescente mi chiedevo spesso quando avrei iniziato a rileggere i libri, quel momento mi spaventava e mi sembrava avere il sapore dell’inizio della morte. Non esagero. Non sapevo che il tempo sarebbe passato e corso sempre più velocemente, dandomi via via l’impressione di dimezzare il suo valore e l’intenzione di impedire che ciò accadesse cercando in tutti i modi di rifugiarmi nell’intensità. Ora che ho iniziato a “rileggere” mi rendo conto di una cosa che non avrei mai immaginato: dell’essere arrivata in quella fase della vita in cui ci si inizia ad accorgere dove sono nati i propri pensieri e le proprie convinzioni, le parole che ci identificano, ciò che si è. Al tempo stesso, avendo a mia volta scritto sempre di più, rintraccio sempre più spesso alcune parole e immagini che sembrano innestarsi nella psiche di alcuni individui, riproponendosi lungo i secoli e le epoche, fino a popolarci e affiorarci alle labbra, venirci in mente, vessillo di un’esperienza condivisa. Quando leggo o ascolto pensieri che riconosco mi sento al sicuro e questa cosa succede sempre con le opere del regista tedesco Werner Herzog.

Ho sentito nominare per la prima volta Werner Herzog da molto giovane, perché i primi appuntamenti dei miei genitori avevano avuto luogo proprio in un cinema che faceva rassegne d’essai, davanti ai suoi film. Segnali di vitaAguirre, furore di DioL’enigma di Kaspar HouserNosferatuWoyzeck (ispirato alla grande opera del drammaturgo tedesco Georg Büchner, ripresa anche dal compositore austriaco Alban Berg), FitzcarraldoDove sognano le formiche verdi e così via. Il cinema era vecchio, ed essendo nato in un edificio a ridosso della ferrovia aveva due colonne in mezzo alla sala, che divennero l’incubo di mia madre e che pure sembrano simboleggiare lo sforzo che Herzog ha sempre chiesto a se stesso e ai suoi spettatori. Nei suoi film l’avventura si trasforma in stasi, il desiderio in follia. La terra, silenziosa, appare in tutta la sua severa enormità. Così la bellezza è il sogno effimero e più tenace a cui aggrapparsi. Un coro in cima a un battello scalcagnato, l’opera lirica, un sigaro e un panama bianco: l’inutile, dopo aver attraversato l’inferno. “Chi sogna può smuovere le montagne” si sente dire spesso e si sente in Fitzcarraldo, una delle sue opere più ambiziose e al tempo stesso scevra da qualsiasi visione positivista. La forza di smuovere le montagne, la forza del desiderio, infatti, sembra nascere dalla disperazione e non dall’ambizione – e per fortuna, perché altrimenti Herzog non sarebbe un grande regista ma un videomaker di spot inspirational aziendali.

 

Vediamo così un Klaus Kinski – attore simbolo del cinema di Herzog – sudato e stralunato che grida dal campanile di Iquitos, un minuscolo villaggio amazzonico lontano da qualsiasi cosa, tra fine Ottocento e inizio Novecento, come un bambino disperato e capriccioso: “I want my Opera House!” (“Voglio il mio teatro di opera lirica!”). E pur di averla decide di dedicarsi alla raccolta del caucciù, in modo da finanziare il progetto, lasciando in sospeso imprese imprenditoriali apparentemente più utili e urgenti, come la ferrovia. Viene così a conoscenza di una zona libera ricchissima di alberi di Havea Brasiliensis nel corso superiore del fiume Ucayali, molto pericolosa però a causa della confluenza con il Rio delle Amazzoni e le brutali rapide del Pongo das Mortes. Fitz decide lo stesso di tentare l’impresa e gli viene l’idea di raggiungere la zona passando per il Pachitea, e trascinando il suo battello oltre il poggio che divide i due fiumi. Appena la nave giunge sul Pachitea, però, tra i marinai serpeggia il malcontento, perché è abitato da sanguinari indios Hivaros. Così l’equipaggio impaurito abbandona la nave, lasciando soli Fitz, il capitano, il macchinista e il cuoco alcolizzato. Quando i quattro, ormai allo stremo, decidono di arrendersi e di tornare indietro, arrivano gli indios, ma Fitz li induce a credere di essere il loro Dio (per via del grammofono e della voce di Caruso) e li convince ad aiutarlo a trasportare la nave. Riescono così – anche sacrificando vite umane – a portare la nave oltre il monte e poi sull’altro fiume. Gli indios, però, dopo una notte di festa sciolgono gli ormeggi lanciando la nave nelle rapide, ma miracolosamente riesce a superarle. Tornato a Iquitos Fitzcarraldo rivende il battello, dichiarando il progetto fallito, ma con il ricavato ingaggia un’orchestra e organizza un grande concerto sulla foce del fiume. La storia di Fitzcarraldo, che per essere realizzata necessitò di molti anni di lavoro, riverberò profondamente nella vita di Herzog, che più e più volte fu invitato a riconsiderare l’impresa cinematografica. Ma il regista, coerente e ostinato fino all’ultimo, risposte: “Se io abbandonassi questo progetto sarei un uomo senza sogni, e non voglio vivere in quel modo. Vivo o muoio con questo progetto”. Il resto è storia.

 

Herzog, tra i fondatori del nuovo cinema tedesco, sembra tramandare la voce di Joseph Conrad de La sottile linea d’ombra, di Lord Jim e del Compagno segreto, dell’Hermann Melville di Benito Cereno e Billy Bud, del Jack London del Martin Eden. La follia si mescola al potere, come una sorta di febbre che porta a spingersi oltre, dismettendo l’umano, verso non si sa cosa. Le sue storie fin dall’inizio si ispirano a fatti reali eppure poi li piegano alla narrazione, a riprova che qualsiasi racconto non potrà mai essere del tutto reale. Eppure trasporta in sé una verità.

Nei film di Herzog, i sogni degli uomini sono sproporzionati rispetto ai loro mezzi, quasi ridicoli nel loro essere tenaci e pervasivi. Sono commoventi deliri. Chi è in grado di vedere, come da migliore tradizione, viene allontanato e punito. Chi ha il coraggio di mettere in guardia è un porta iella. I suoi personaggi sono veggenti, e come tali sembrano folli, emarginati, figli della divinità caduta. Le sue storie, prima di passare ai documentari, sono tratte da personaggi realmente esistiti e trasformati in materiale narrativo. Come nel caso emblematico dell’Enigma di Kaspar Hauser, anche questo ispirato a una storia vera. Kaspar Hauser – interpretato dall’eclettico Bruno Schleinstein – è un ragazzo che viene trovato nella piazza della città di N (Norimberga), con una lettera in mano. Non sa parlare, ripete solo un’unica frase a memoria ed è in grado di scrivere solo il suo nome. Essendo stato rinchiuso in una cella sin dalla nascita, non ha mai visto un essere umano in vita sua e fatica a muoversi e a camminare, incarna insomma non solo la figura dello smemorato (come poteva essere il famoso personaggio di Collegno ripreso da Leonardo Sciascia), ma anche quella del “buon selvaggio” (tema esplorato tra gli altri anche da François Truffaut ne Il ragazzo selvaggio).

 

Kaspar impara piano piano a conoscere un mondo che gli è completamente estraneo, tra chi lo considera un impostore e chi invece lo accoglie e lo aiuta senza farsi problemi, ha una ricca immaginazione artistica, ma agli altri appare impossibile da comprendere: suona il pianoforte seguendo una tecnica tutta sua, inventa storie affermando di “conoscerne solo l’inizio”. Educarlo è difficile: rifiuta l’esistenza di Dio e ha una concezione delle cose ingenua e innocente. Passati cinque anni dal suo ritrovamento il giovane Kaspar, provato dagli svariati tentativi di educarlo, dopo un’aggressione da parte di uno sconosciuto – probabilmente la stessa persona che lo aveva tenuto prigioniero per tanto tempo – viene ferito a morte da una coltellata al petto.

 

Herzog sembra dirci che ciò che per gli altri è irrazionale, non corrisponde all’utile o viene considerato folle, è in realtà essenziale; e se in alcuni casi la follia è fondamentale per sopravvivere è anche vero che si muove su un confine al limite del concesso da cui è facile scivolare nella violenza. È il caso del soldato Franz Woyzeck, costretto a mangiare solo piselli fino al crollo schizoide. Anche qui Herzog, con la faccia delirante di Kinski, sembra ricordarci che senza la bellezza e il piacere l’uomo è destinato a crollare, a soccombere alle forze più oscure che si muovono in lui. Il dramma mostra il soldato che cerca in tutti i modi di sostenere la sua amante Marie e suo figlio. Per guadagnare qualche soldo in più diventa così cavia di un dottore per alcuni esperimenti. Il crescente sospetto che Woyzeck nutre nei confronti di Marie, già alimentato dalla fatica e dalla vita tremenda che è costretto a sostenere, viene attizzato da un nemico, finché non sorprende Marie e il suo rivale a un ballo in una taverna. Il mondo di Woyzeck crolla, in preda al delirio attacca l’ufficiale, ma alla fine la voce che sente nelle sue allucinazioni sempre più frequenti gli dice di uccidere la donna. In lui la tensione psicotica al misticismo, a causa delle condizioni in cui vive, si trasforma in cieca forza distruttrice, punizione. Ancora una volta l’uomo si arroga il diritto di essere dio, ma diventa un dio vendicativo.

 

Di Herzog mi piace la durezza e il fatalismo verso il desiderio, che prende la forma del sogno, o dell’incubo, il mescolarsi tra il paesaggio interiore del soggetto e l’ambiente, con un approccio che ritrovo simile nelle Sovrimpressioni del grande poeta Andrea Zanzotto. Nelle prime pagine de La conquista dell’inutile, una sorta di diario scritto in parallelo alla realizzazione di uno dei suoi film più iconici, Fitzcarraldo, e definito da Herzog  stesso “un paesaggio interiore partorito [forse] dal delirio della giungla”, il regista sancisce uno dei punti fondamentali del suo essere artista scrivendo da casa di Coppola: “Tutti i miei amici non sono qui”. Ed è facile immaginare questa frase pronunciata nel suo inglese ruvido, reso inconfondibile dal suo fortissimo accento. Il riverbero dell’assenza dato da questa struttura tipicamente tedesca – che ogni tanto usava anche Goffredo Parise – risulta ancora più potente alle orecchie italiane. Tutti i miei amici non sono qui – invece di optare per il più semplice “Qui non c’è neanche un mio amico” – trasmette alla perfezione il senso di enorme solitudine necessario per chi “si vuole avvicinare a questo immenso fardello di sogni”. E continua: “solo i libri danno un po’ di conforto”.

Da tutti i film di Herzog emerge in modo inequivocabile la sua forte frequentazione con la parola, o meglio con il linguaggio in tutte le sue forme, dalla musica alla composizione di immagini e al tempo stesso con l’inconscio e le pulsioni profonde che origina. A questo proposito, rispetto a Fitzcarraldo, Herzog dice più volte di avere la consapevolezza – e insieme a essa il terrore – di trovarsi in una strofa di una poesia in una lingua sconosciuta, che non capisce. I suoi film, infatti, sembrano essere la testimonianza di un osservatore che spogliatosi di tutto ciò che ha si avventura nell’ignoto, in un ambiente crudele, per arrivare a una meta che pare irraggiungibile quanto inutile, eppure di vitale importanza.

Solo quando non si è sicuri di nulla si può essere certi di qualcosa. Così fanno Herzog e le sue visioni radicate, incongedabili, le stesse che alcuni autori conoscono bene; immagini che non ti lasciano e ti ossessionano, emerse da chissà quale recesso dell’esperienza. Si dice che le storie migliori si sviluppano ed esistono grazie al conflitto. Vengono così costruite trame estremamente precise per generarlo, farlo crescere, esplodere: Herzog riesce a fare tutto questo con una sola immagine. Una barca in cima a una montagna è già una storia. Le sue opere, siano cinematografiche o letterarie, rasentano la parola poetica, evocativa, parlano direttamente al nostro inconscio, ci invitano a dismettere tutto ciò che la società ci ha insegnato a considerare utile, spingendoci a credere sia necessario alla nostra esistenza. Non è così. Le cose fondamentali non sono mai visibili e per incontrarle e ascoltare ciò che hanno da dirci dobbiamo trovare il coraggio di varcare la soglia dei nostri abissi, avventurandoci nella giungla che abbiamo dentro, e se avremo fortuna riusciremo a ricondurre al silenzio il dolore, la ferita che tutti noi ci portiamo dentro, ritrovando la nostra bellezza.

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giovedì 30 maggio 2024

Gli ultimi giorni dell'umanità - Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo

che gran regalo è questo film!

Enrico Ghezzi mostra ci presenta la sua famiglia, con affetto e simpatia, come se fosse, ed è, un film, sia pure un film domestico.

è un'opera-mondo, con immagini che già esistono, gli autori le mettono insieme in un ordine che gli estimatori di fuoriorario conoscono bene.

il film ci culla e ci coinvolge, senza imbrogli, in una dichiarazione d'amore per le immagini e il cinema.

proprio questi giorni ho letto 4321, di Paul Auster, di sicuro entrambi Paul, che non c'è più, (e il Ferguson del romanzo, lui immortale) ed Enrico amano il cinema e tutta l'arte.

secondo me si sono seduti vicino in qualche sala a vedere qualche capolavoro del cinema, e ce lo testimoniano.

cercate Gli ultimi giorni dell'umanità, è tempo guadagnato.

buona (fuoriorario) visione - Ismaele


ps:Gli ultimi giorni dell'umanità è il titolo di un'opera di Karl Kraus, purtroppo sempre attuale, nel film c'è un importante segmento di quell'opera teatrale.


 

  

…Enrico Ghezzi è stato ed è il sovrintendente di una Biblioteca di Alessandria dell'immaginario che ha permesso a chi vi accedeva di incontrarlo e, attraverso di lui, conoscere patrimoni, cinematografici e non, fino ad allora rimasti sepolti o perduti in un colpevole oblio. Una volta ha dichiarato: «Io sono sempre stato solo un riautore, rimettendo in gioco tutto. Le cose non si fanno, ma si rifanno».

In questo Gli ultimi giorni dell'umanità offre, a chi è disposto a lasciarsi andare privo di remore e di pre-giudizi pseudoformali, un'esperienza che coinvolge un'indescrivibile (proprio perché non va 'descritta') varietà significante di soluzioni di montaggio e di intersezione. Ognuno può ritrovarci, con la propria cultura e conoscenza, elementi noti e, al contempo, rivisitati perché contestualizzati in modo tale da perdere talvolta il loro senso originario per acquisirne uno del tutto nuovo. Oppure vedendo con uno sguardo diverso dettato dallo scorrere del tempo (diverso per ognuno di noi) come dice... (spetta a chi guarda riconoscerlo).

Ghezzi, come faceva in "Fuori orario" si cita e si mette in scena come nostro tramite nei confronti di quella materia magmatica (si vedano le eruzioni vulcaniche) che è l'immagine, sia essa cinematografica o di natura diversa. Ce ne fa percepire i mutamenti e le evoluzioni partecipandoci questa sensazione: "Ho avvertito di essere traversato da tutti i linguaggi. Di essere come la curvatura di questi linguaggi. Quindi di essere io memoria di qualcuno. Non so...essere io la memoria."

È la consapevolezza che si avverte in questo flusso ragionato di materiali che, come ben sintetizza il termine inglese, diventano tools, strumenti che ci interrogano di continuo invitandoci a dare loro un senso nostro mentre scrutiamo in quello di un riautore che non smette mai di cercare nuove significazioni all'esistente.

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Su un fondo nero, come fosse un grado zero della visione, la voce sussurrata ma inconfondibile di Ghezzi enuncia il titolo del suo nuovo libro: L’acquario di quello che manca (La Nave di Teseo, 2021), che è una sorta di labirintico compendio di oltre cinquant’anni della sua scrittura eterodossa e geniale in forma di specchio pubblico-privato. L’evocazione di quel titolo non è casuale, perché di fluttuazioni, derive, naufragi, affioramenti, immersioni ed emersioni di immagini si tratta in Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Alessandro Gagliardo. Tutto avviene come se l’occhio della cosa vista e di chi vede (del film stesso e degli spettatori) fosse una sonda “magica” capace di far affiorare quelle immagini potenzialmente infinite dall’oceano delle visioni. Infatti l’immagine che segue (e che manca rispetto al buio iniziale) è la distesa nebbiosa delle onde del mare su cui in lontananza naviga una barca.

Così si dischiude un’opera-mondo che è un viaggio ipnotico e allucinatorio, oltre che una “tela” dove si intessono secondo una “ars combinatoria” analogica le immagini enucleate, prelevate da un corpo memoriale depositato in più archivi di cui viene fatta saltare ogni tassonomia, per restituire quelle immagini a una vita che ogni volta sprigiona da sé il suo stato nascente. Anzitutto affondando nell’infinito archivio personale di Ghezzi, specchio della sua pulsione onnivora e incessante a filmare. Filmare squarci intimi di vita privata e familiare con uno sguardo amoroso spinto all’estremo (intimamente “alla Jonas Mekas”). Farsi memoria incarnata di film visti, rivisti, letteralmente rigirati dal suo sguardo fuori dall’orbita, come fosse un riautore, nel momento stesso in cui con il suo gruppo di lavoro li pone fuori dall’orbita, li pesca e li reimmette nelle onde del mare notturno di “Fuori Orario”. Farsi incursione in forma di ripresa, ogni volta che si presenta l’occasione, negli incontri con i cineasti amati. Insomma far confluire nel medesimo pulsare delle immagini ogni possibile sconfinamento vitale tra pubblico e privato, ogni tracimazione del “film della vita”

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E' un'opera mondo, "Gli ultimi giorni dell'umanità". Tre ore e quindici minuti di montaggio che (auto)celebra il lavoro di una vita di enrico ghezzi (co-regista insieme ad alessandro gagliardo, mentre la figlia Aura è spesso davanti alla macchina da presa).

Un'opera che racchiude materiali d'archivio estremamente eterogenei ma fortemente cinematografici, che sono stati poi - in scuola Blob e Fuori Orario - assemblati e arricchiti di un senso nuovo dopo essere stati acquisiti, digitalizzati, archiviati, metadatati e lavorati.

Basterebbe l'elenco degli autori di cui si vede qualche immagine per completare questo testo: Abel Ferrara, Guy Debord, Aleksandr Sokurov, Bela Tarr, Straub&Huillet, Hans-Jürgen Syberberg, Koji Wakamatsu, Sergej Paradžanov, Otar Iosseliani, Shin'ya Tsukamoto, Luciano Emmer, Bernardo Bertolucci, Carmelo Bene, Federico Fellini e tanti altri grandi.

Un film che poteva durare molto di più e che poteva anche (a tratti nei quattro anni di lavorazione il rischio si è percepito) non finire mai: "Gli ultimi giorni dell'umanità" parte dall'archivio privato di ghezzi e sublima una vita intera dedicata al lavoro sui materiali, sul senso del cinema e ancor più delle immagini.

Sono tanti, inoltre, le altre fonti che si sono miscelate al materiale di partenza, dall’agenzia di stampa russa Ruptly all’archivio malastradafilm, dall’archivio dell’astronauta Jean-Francois Clervoy a estratti dall’archivio Val del Omar, e poi ancora tanto, tanto tanto cinema dal mondo. E le interviste, se così si possono chiamare, che ghezzi negli anni ha raccolto con la sua camerina nei festival di tutto il mondo.

"Gli ultimi giorni dell'umanità" è un'opera da subire, a cui soccombere serenamente, impossibile da prendere a piccole dosi ma anche ostica da affrontare nel suo insieme. Esattamente ciò che voleva essere, e ciò che è giusto che sia: una sfida allo spettatore, un atto coraggioso di elevare la "settima arte" a qualcosa di più, di altro, di oltre.

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martedì 28 maggio 2024

A book of vision - Carlo Hintermann

modi diversi di intendere la medicina, la malattia, il malato.

Eva ritrova il libro di Anmuth e le sue lettere.

e il mondo cambia, per Eva, nel passato c'era un modo diverso di approcciare medicna, malattia e malato.

le immagini del film sono davvero belle e memorabili, e da sole meritano la visione.

un film pieno di suggestioni e invenzioni visive (non per niente il regista ha lavorato con Terrence Malick.

buona (malickiana) visione.

 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

The Book of Vision è un’opera che lascia interdetti sul piano narrativo, confondendo lo spettatore con una resa da sceneggiatura che forse avrebbe meritato maggiore attenzione, ma che allo stesso tempo riesce a parlare allo spirito, alla pancia dello spettatore, attraverso la bellezza luminosa delle immagini che lo compongono.

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"The Book of Vision" non si esaurisce tuttavia con un discorso sul corpo, ma presenta anche frequenti elementi di spiritualità, seppure neopagana. La stessa fotografia, soprattutto quella caravaggesca degli interni, con i volti e i corpi che emergono dall’oscurità, suggerisce l’idea che vi sia qualcosa da cui tutto si origina e che tende a rimanere al di fuori della nostra portata. Frequenti le sequenze che trasportano l’azione, talvolta in modo anche troppo insistito, nei boschi, presso laghi, dove la continuità tra vita e morte, la simbiosi tra uomo e natura ci proietta nelle atmosfere della religiosità wicca, ma anche in quelle del fumetto ambientalista ("Swamp Thing"). Popolano questi luoghi feti di bambini abbandonati ai piedi di alberi le cui radici hanno palpitanti sembianze umane, esseri terrigeni che emergono dal fango, dalle acque, e le cui vicende si intrecciano con quelle dei protagonisti. Qui la messa in scena ripartisce abilmente queste sequenze in una casistica evenemenziale ampia che va dalle letture fatte da Eva, agli incubi che la perseguitano, o alle visioni avute dai protagonisti nei secoli precedenti.

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Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, sosteneva già Dante. Non stupisce dunque la storia d’amore nascente tra Eva e Stellan nel leggere le pagine di Anmuth e le lettere che lo stesso scambia con l’amata Elizabeth. Se da un lato il libro diviene simbolo, per usare le parole di Eva, del corpo stesso, dall’altro lato le lettere ne sono il cuore pulsante, in grado di generare e nutrire nuovi sentimenti. Reduce da un’unione non proprio felice (come dimostra la prima sequenza), Eva trova in Stellan e nella sua capacità di vedere oltre la realtà quella perfetta metà di cui ha bisogno. E la figura di Stellan potrebbe trovare nuovi spunti se solo volessimo addentrarci nella simbologia religiosa del Nuovo Testamento e azzardassimo il paragone con Giuseppe. E di riferimenti eccellenti potremmo parlare anche per quanto concerne le figure dei due fratellini Valentin e Günther, novelli Remo e Romolo.

Accattivante nella sua perfetta ricostruzione scenica e nell’accompagnamento musicale, The Book of Vision stordisce nella perfetta interpretazione dei suoi attori. Al trio Verbeek, Sverrir Gudnason e Charles Dance, tocca sdoppiarsi: i tre attori recitano doppi ruoli tra il passato e il presente, evitando con destrezza di creare confusione. Vanno sottolineate anche le prove del mai così ambiguo Filippo Nigro e della visionaria Isolda Dychauk (rispettivamente, il marito di Elizabeth e Maria) mentre richiede particolari attenzioni il piccolo Justin Korovkin, che dopo Favolacce nei panni di Günther mette a segno un altro colpo di non poco peso.

Il risultato degli attori è frutto di certo della maestria è di Hintermann che come un abile burattinaio muove fili e fila senza mai perdere di vista il risultato finale, nonostante sia alla prima prova con attori professionisti. Un paio di movimenti di camera, di sovrapposizioni sceniche e di visioni (come quella dell’albero della vita) valgono già da soli la visione.

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lunedì 27 maggio 2024

Aberdeen - Hans Petter Moland

un film on the road, parte lento, poi migliora continuamente, grazie anche ai protagonisti Lena Headey e Stellan Skarsgård, e alla musica di Zbigniew Preisner.

un film che merita, non adatto a chi ha problemi con l'alcool.

buona (filiale) visione - Ismaele

ps: come in Le onde del destino (di Lars Von Trier), film di quattro anni prima, Stellan Skarsgård lavora (va) su una piattaforma petrolifera.


 

Lena Headey as Kaisa gives one hell of a performance. From showing her character with confidence yet vulnerable and broken figuring out her way into a connection she finds along this journey she never wanted to take.

Stellan Skarsgård as Tomas confides his character which spends most of his screen time drunk in his misery. The final scene takes in a beautiful embark showing this both characters coming together finally forming something emotional of a bond they desperately needed.

Aberdeen is a beautiful, vulnerable and evolving journey of two people lost and broken. As they spend their time on the road they start to realize something within their relationship which kind of drifted away a long time ago. Lena Headey and Stellan Skarsgård give two beautiful performances with honest realizations

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domenica 26 maggio 2024

Effetto Scarlett (Johansson) – Carola Frediani

Usare la voce di una donna in un robot per “manipolare” l’opinione pubblica è una tattica presente fin dai racconti di Asimov (vedi “Intuito femminile”). L’idea che gli umani trattino i computer con voce femminile in modo diverso rispetto a quelli con voce maschile è trattata già in un noto studio di metà degli anni ‘90, The Media Equation. Mentre gli effetti psicologici indotti sugli umani anche da un chatbot primitivo e non certo “intelligente” sono stati sviscerati con approccio critico, già negli anni ‘70, da Joseph Weizenbaum, lui stesso creatore di un chatbot, anzi del primo chatbot, ELIZA (ne abbiamo scritto su Guerre di Rete).

Nel 2019 uno studio UNESCO analizzava (e criticava) la tendenza delle aziende tech a femminilizzare di default le voci degli assistenti vocali, sostenendo che potevano consolidare o affermare pregiudizi di genere. Nel 2020 (quindi prima dell’esplosione dell’AI generativa) un report dell’istituto americano Brookings e di quello italiano ISPI tornava sul tema con un articolo intitolato: “Come i bot e gli assistenti vocali rafforzano i pregiudizi di genere”.

Mentre le due ricercatrici Kate Crawford e Jessa Lingen nel 2020 analizzavano non solo gli stereotipi di genere degli assistenti vocali, ma anche come questa rappresentazione aiutasse a non percepirli come strumenti di sorveglianza.

In questo contesto inseriamo Sam Altman, Ceo di OpenAI (la società dietro a ChatGPT). Il quale decide che la nuova modalità per cui si può parlare con ChatGPT-4o deve avere la voce di Scarlett Johansson, che fra le altre cose ha interpretato l’intelligenza artificiale di cui Joaquin Phoenix si innamora nel film Her.
A una prima dimostrazione di questa funzione a settembre molti avevano già notato che Sky, una delle voci con cui il chatbot poteva parlare, assomigliava molto a quella dell’attrice.

Veniamo all’oggi. In questi giorni Johansson ha rivelato che Altman aveva tentato di negoziare con lei per mesi per prestare la sua voce a ChatGPT, perché ciò “avrebbe aiutato i consumatori a sentirsi più a loro agio” con questo cambiamento tecnologico.

Ma l’attrice si rifiutò. Salvo rimanere di sasso quando poi è uscita la demo con una voce così simile alla sua. Johansson ha detto di essere rimasta “scioccata, arrabbiata e incredula”. Tanto più che a pochi giorni dal lancio della demo Altman aveva ricontattato il suo agente, chiedendo di rivedere la sua decisione. E prima di poter anche solo rispondere, la demo era uscita.
“Sul momento, era sembrato un grande successo”, scrive in questi giorni il giornalista Casey Newton nella sua newsletter Platformer.  “Certo, avevo trovato il suo flirt aggressivo inquietante e apparentemente in contrasto con le precedenti dichiarazioni di Altman, secondo cui l'azienda non avrebbe perseguito strumenti di intelligenza artificiale che facessero da compagni romantici. Ma la demo era indubbiamente riuscita ad affascinare il mondo della tecnologia”.

Ma la faccenda è tornata indietro come un boomerang, anche perché Johansson ha mobilitato gli avvocati (e diffuso un messaggio pubblico che viene riportato qua). E così la scorsa domenica OpenAI ha annunciato che avrebbe tolto la voce Sky da ChatGPT, spiegando che si trattava di un fraintendimento e che non c’era stata alcuna intenzione di scippare la voce all’attrice contro la sua volontà (qua la spiegazione di OpenAI). Tanto più, ha riportato poi il WahsPost, che per Sky non ci sarebbe stata clonazione della voce di Johansson, ma sarebbe stata reclutata un’attrice, e che la documentazione uscita finora non mostrerebbe esplicite richieste di trovare una sonorità simile a quella della più nota superstar.

Il problema è che non aiuta a credere a questa interpretazione - ovvero che sia stato un fraintendimento, una somiglianza casuale - il fatto che proprio Altman, con mossa devo dire molto muskiana, poco dopo la dimostrazione di maggio abbia twittato un tweet con scritto solo Her, appunto il titolo del film con Johansson, annullando come nota qualcuno ogni possibile plausible deniability (traducibile tecnicamente in: “davvero? non sapevo, non sono stato io, ma che strana coincidenza”). Se pensava di prendersi una sorta di vendetta per il gran rifiuto dell’attrice (che per inciso aveva già messo Disney alle strette aprendo un contenzioso poi conclusosi con un accordo per lei soddisfacente), ha pensato molto male.

Soprattutto la vicenda ha assunto un significato simbolico che va ben oltre la nota celebrità, e anche oltre le modalità con cui sarebbe stata ottenuta quella voce (ragioni legali incluse, che in ogni caso restano incerte: anche se la voce non è clonata, dati i precedenti e gli elementi di contesto, OpenAI è ancora a rischio, come spiega The Verge). E ciò a causa del comportamento complessivo di Altman e OpenAI, e più in generale a causa dell’approccio complessivo di questa industria.

“Johansson è una delle attrici più famose del mondo e parla a nome di un'intera classe di creativi che si sta confrontando con il fatto che i sistemi automatizzati hanno iniziato a erodere il valore del loro lavoro”, commenta ancora Newton.

Scrive anche l’autore (e professionista di PR) Ed Zitron: “Non dovrebbe sorprendere che la Johansson non abbia colto al volo l'opportunità di lavorare con OpenAI. In quanto membro del sindacato dei lavoratori dello spettacolo SAG-AFTRA, Johansson ha partecipato allo sciopero del 2023, che ha di fatto bloccato tutta la produzione televisiva e cinematografica per gran parte dell'anno. Una delle principali preoccupazioni del sindacato era l'uso potenziale dell'AI per creare una copia di un attore, utilizzando le sue sembianze ma senza pagarlo”.

Zitron, ricordando anche come OpenAI non abbia voluto dire se Sora, il suo modello che genera video da testo, sia stata addestrato sui video di YouTube, giunge a una conclusione radicale: “bisogna smettere di ascoltare tutto ciò che Sam Altman ha da dire”.

Il giornalista tech Brian Merchant (autore del bel libro Blood in the machine, di cui ho parlato in passato) estende ancora di più il concetto: “la stessa OpenAI è un motore che si basa sul pensare che tutto ti sia dovuto: di avere il diritto di raccogliere e riappropriarsi in modo non consensuale delle opere di milioni di scrittori, programmatori, artisti, designer, illustratori, blogger e autori, il diritto di usarle per costruire un prodotto a scopo di lucro, il diritto di scavalcare chiunque all'interno dell'azienda si preoccupi di aver tradito la sua missione di sviluppare responsabilmente i suoi prodotti. Il diritto di copiare la voce di una delle star del cinema che ha incassato di più al mondo dopo che lei ha detto di no”. Gran parte della promessa dell'AI generativa, così come è attualmente costituita, è guidata da questo modo di pensare, afferma Merchant.

Il fatto che perfino una personalità come Johansson “non riesca a sfuggire allo sfruttamento tech”, per citare le parole dell’autore e podcaster Paris Marx, e che l’arroganza di alcuni magnati e amministratori tech non sembri fermarsi neanche di fronte a celebrità molto più potenti dei comuni cittadini, ci deve far riflettere su quanto abbiamo concesso a quell’arroganza di crescere. Su quanto abbiamo accettato acriticamente la “versione di Altman” e di altri come lui. E su quanto hype continui a spargersi da questo settore...

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sabato 25 maggio 2024

Lucifer - Gust Van den Berghe

Lucifero scende dal Paradiso verso l'Inferno, si ferma, forse per riposare, in un villaggio messicano. dimenticato da dio e dal mondo, un microcosmo semplice e pacifico.

Lucifero si vanta di essere un mago e diventa la star di quel villaggio, per 24 ore, amato e rimpianto.

Lupita e la sua famiglia, il fratello e la nipote Maria, sono l'obiettivo di Lucifer, che riesce anche a mettere in cinta Maria.

e poi Lucifero sparisce.

e tutto torna come prima, anzi peggio, maledetto Lucifero.

un film che non si dimentica, per diversi motivi.

buona (a tutto tondo) visione - Ismaele



 QUI il film completo, con sottotitoli


 

 

…Il plot, tratto dalla pièce omonima dell'olandese Joost van den Vondel del 1654, è molto semplice e divisa in tre capitoli: Paradiso, Peccato e Miracolo. Nella strada dal paradiso all'inferno, Lucifer (un convincente e diabolico Gabino Rodriguez) passa per un villaggio messicano prossimo al più giovane vulcano del mondo, il Parícutin (che offre anche numerosi riferimenti religiosi). Lì incontra prima l'anziana pastora Lupita (María Toral Acosta) e la nipote Maria (Norma Pablo), che gli parla della malattia del fratello di Lupita, Emanuel (Jerónimo Soto Bravo): il 60enne non riesce ad alzarsi né a camminare. 

Emanuel mente sulla malattia, affinché Lupita non abbia sospetti su gioco d'azzardo e alcol. Lucifero coglie l'occasione e finge di aver curato Emanuel sussurrandogli in un orecchio di sapere della bugia. La famiglia organizza una festa per il villaggio, chiamando i malati affinché vengano curati da colui che si professa 'un angelo'. Lucifero finisce a letto con Maria e, senza aver compiuto alcun miracolo prima di sparire, fa dubitare tutti gli abitanti (e in particolare la religiosissima Maria) della loro fede.

La tecnica Tondoscope, sviluppata dall'abituale direttore della fotografia di Van den Berghe, Hans Bruch Jr, prevede che la macchina da presa venga posta sopra un'emisfero a specchio. Ha dei predecessori nella storia della fotografia e del cinema, come la lanterna magica e il dagherrotipo. In termini tematici ha di certo senso pensare alle prime rappresentazioni della Terra come un disco, o del paradiso e dell'inferno, come quelli di Dante o di Hieronymus Bosch nel famoso I sette peccati capitali, che appartiene alla pittura rinascimentale su tondo.

E in effetti le figure al centro del fotogramma sembrano più distanti da quelle ai bordi, e, nei campi lunghi, il terreno e le persone sono distorte e occupano lo spazio esterno del cerchio, mentre il cielo è al centro – con l'inevitabile buco nero come un oblò – rendendo allo spettatore più semplice l'interpretazione filosofica del film, in qualsiasi modo desideri. 

A livello cinematografico, il titolo supera la semplice (e moralistica?) storia con potenti scene come quella nella quale Lupita, distrutta dalla colpa, si unisce ad un gruppo di prigionieri la cui penitenza è camminare in ginocchio intorno al vulcano, fino a quando uno di loro muore, e gli altri saranno assolti e liberati…

da qui

 

Lo sguardo del frate francescano (?) incombe su di noi, è una delle prime immagini che notiamo e che rimangono impresse per la loro efficacia visiva. Qui la regia è abilissima e, oltre a rovesciare ogni canone filmico e tecnico sottintendendo un preciso volere, punta ad un significato ben chiaro. Il tondo-scope usato rimanda ad una sfera, un’immagine di perfezione, ma al contempo ad un inusuale aspect ratio che volutamente, proprio come il significato dell’opera, ne ribalta ogni altro simile mai usato (come il sedici noni). L’interesse di scrupoloso studio religioso si nota da ogni inquadratura, chiarificando la già ben palese intenzione di non voler riprodurre il conflitto Bene-Male in termini iconografici o stereotipati, quanto piuttosto attraverso un intenso e profondissimo studio dell’essere in ogni sua inculcata spinta verso il credo professato. Una regia perciò fulminante che, insieme ai termini stessi dell’opera, rende quantomai arduo e complesso il cammino dello spettatore verso la completa comprensione dell’oggetto in causa, ma che al contempo ne rende straordinariamente coerente ogni aspetto ad essa attinente.

da qui

 

La actuación del elenco, excepto la de Gabino Rodríguez, deja mucho que desear, pero en parte contribuye a la estética de la película. Las exageraciones de las actuaciones hacen las situaciones cómicas y le dan un mayor valor a lo que el director trata de hacer. Junto con la actuación, el guion del director no es muy exitoso, pues tiende a ser exagerado. Se podría decir que lo mismo sucede con el guion que con las actuaciones, pues no sabemos que tanto fue a propósito y que tanto fue por falta de experiencia. Los monólogos son una de las partes más interesantes del guion, pues aunque no son naturales, sirven de una manera muy efectiva de transmitir los pensamientos de los personajes y ayudan a dar significado a los sucesos. Los diálogos al contrario se sienten forzados y con poca necesidad.

La música añade en gran parte a lo que se está creando a través de las imágenes. La música crea una tensión, una tristeza, una alegría medida. Se puede adaptar a las diferentes situaciones que suceden en la película.

La película es una joya muy especial. No se puede tomar como una película de comedia, ni drama; la película rompe los géneros establecidos. Al final nos quedamos con una película de temática controversial, pero cuyo mensaje principal es el de la vida.

da qui

 

Lucifer es una reflexión parsimoniosa sobre la duda y la creencia en la que contemplamos cómo el Diablo pervierte y desmorona los preceptos del paraíso utilizando solamente su capacidad de engaño, su astucia y su amoral interpretación del libre albedrío. La ausencia del ángel es interpretada por los habitantes como la pérdida de la gracia de Dios, abandonándolos a su suerte por una falta que no pueden identificar. Mientras la Iglesia local construye un nuevo templo que la acerque físicamente lo más posible al cielo, su pueblo se resquebraja por dentro, alejándose irrevocablemente del Señor. Por ello el último plano del filme rompe con el formato circular y retorna a una relación de imagen convencional: el sistema cerrado del paraíso se ha roto.

Van der Berghe explora el concepto de la fe a través de la duda y el resultado final es ambiguo: el planteamiento simbólico y audiovisual la hacen una propuesta única y de carácter experimental, sin embargo las actuaciones (realizadas por los habitantes reales del pueblo) no consiguen transmitir el conflicto emocional de forma consistente, lo que diluye el impacto de las imágenes en un metraje que se dilata, sosteniendo los planos con desigual éxito. A pesar de lo irregular del experimento, Lucifer a través de su entramado teórico y su original uso de la imagen nos muestra otra cara del Maligno, más astuta y enigmática que el común denominador de las representaciones cinematográficas.

da qui


 

 

QUI il film completo, con sottotitoli 

 

 

…Il plot, tratto dalla pièce omonima dell'olandese Joost van den Vondel del 1654, è molto semplice e divisa in tre capitoli: Paradiso, Peccato e Miracolo. Nella strada dal paradiso all'inferno, Lucifer (un convincente e diabolico Gabino Rodriguez) passa per un villaggio messicano prossimo al più giovane vulcano del mondo, il Parícutin (che offre anche numerosi riferimenti religiosi). Lì incontra prima l'anziana pastora Lupita (María Toral Acosta) e la nipote Maria (Norma Pablo), che gli parla della malattia del fratello di Lupita, Emanuel (Jerónimo Soto Bravo): il 60enne non riesce ad alzarsi né a camminare. 

Emanuel mente sulla malattia, affinché Lupita non abbia sospetti su gioco d'azzardo e alcol. Lucifero coglie l'occasione e finge di aver curato Emanuel sussurrandogli in un orecchio di sapere della bugia. La famiglia organizza una festa per il villaggio, chiamando i malati affinché vengano curati da colui che si professa 'un angelo'. Lucifero finisce a letto con Maria e, senza aver compiuto alcun miracolo prima di sparire, fa dubitare tutti gli abitanti (e in particolare la religiosissima Maria) della loro fede.

La tecnica Tondoscope, sviluppata dall'abituale direttore della fotografia di Van den Berghe, Hans Bruch Jr, prevede che la macchina da presa venga posta sopra un'emisfero a specchio. Ha dei predecessori nella storia della fotografia e del cinema, come la lanterna magica e il dagherrotipo. In termini tematici ha di certo senso pensare alle prime rappresentazioni della Terra come un disco, o del paradiso e dell'inferno, come quelli di Dante o di Hieronymus Bosch nel famoso I sette peccati capitali, che appartiene alla pittura rinascimentale su tondo.

E in effetti le figure al centro del fotogramma sembrano più distanti da quelle ai bordi, e, nei campi lunghi, il terreno e le persone sono distorte e occupano lo spazio esterno del cerchio, mentre il cielo è al centro – con l'inevitabile buco nero come un oblò – rendendo allo spettatore più semplice l'interpretazione filosofica del film, in qualsiasi modo desideri. 

A livello cinematografico, il titolo supera la semplice (e moralistica?) storia con potenti scene come quella nella quale Lupita, distrutta dalla colpa, si unisce ad un gruppo di prigionieri la cui penitenza è camminare in ginocchio intorno al vulcano, fino a quando uno di loro muore, e gli altri saranno assolti e liberati…

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Lo sguardo del frate francescano (?) incombe su di noi, è una delle prime immagini che notiamo e che rimangono impresse per la loro efficacia visiva. Qui la regia è abilissima e, oltre a rovesciare ogni canone filmico e tecnico sottintendendo un preciso volere, punta ad un significato ben chiaro. Il tondo-scope usato rimanda ad una sfera, un’immagine di perfezione, ma al contempo ad un inusuale aspect ratio che volutamente, proprio come il significato dell’opera, ne ribalta ogni altro simile mai usato (come il sedici noni). L’interesse di scrupoloso studio religioso si nota da ogni inquadratura, chiarificando la già ben palese intenzione di non voler riprodurre il conflitto Bene-Male in termini iconografici o stereotipati, quanto piuttosto attraverso un intenso e profondissimo studio dell’essere in ogni sua inculcata spinta verso il credo professato. Una regia perciò fulminante che, insieme ai termini stessi dell’opera, rende quantomai arduo e complesso il cammino dello spettatore verso la completa comprensione dell’oggetto in causa, ma che al contempo ne rende straordinariamente coerente ogni aspetto ad essa attinente.

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La actuación del elenco, excepto la de Gabino Rodríguez, deja mucho que desear, pero en parte contribuye a la estética de la película. Las exageraciones de las actuaciones hacen las situaciones cómicas y le dan un mayor valor a lo que el director trata de hacer. Junto con la actuación, el guion del director no es muy exitoso, pues tiende a ser exagerado. Se podría decir que lo mismo sucede con el guion que con las actuaciones, pues no sabemos que tanto fue a propósito y que tanto fue por falta de experiencia. Los monólogos son una de las partes más interesantes del guion, pues aunque no son naturales, sirven de una manera muy efectiva de transmitir los pensamientos de los personajes y ayudan a dar significado a los sucesos. Los diálogos al contrario se sienten forzados y con poca necesidad.

La música añade en gran parte a lo que se está creando a través de las imágenes. La música crea una tensión, una tristeza, una alegría medida. Se puede adaptar a las diferentes situaciones que suceden en la película.

La película es una joya muy especial. No se puede tomar como una película de comedia, ni drama; la película rompe los géneros establecidos. Al final nos quedamos con una película de temática controversial, pero cuyo mensaje principal es el de la vida.

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Lucifer es una reflexión parsimoniosa sobre la duda y la creencia en la que contemplamos cómo el Diablo pervierte y desmorona los preceptos del paraíso utilizando solamente su capacidad de engaño, su astucia y su amoral interpretación del libre albedrío. La ausencia del ángel es interpretada por los habitantes como la pérdida de la gracia de Dios, abandonándolos a su suerte por una falta que no pueden identificar. Mientras la Iglesia local construye un nuevo templo que la acerque físicamente lo más posible al cielo, su pueblo se resquebraja por dentro, alejándose irrevocablemente del Señor. Por ello el último plano del filme rompe con el formato circular y retorna a una relación de imagen convencional: el sistema cerrado del paraíso se ha roto.

Van der Berghe explora el concepto de la fe a través de la duda y el resultado final es ambiguo: el planteamiento simbólico y audiovisual la hacen una propuesta única y de carácter experimental, sin embargo las actuaciones (realizadas por los habitantes reales del pueblo) no consiguen transmitir el conflicto emocional de forma consistente, lo que diluye el impacto de las imágenes en un metraje que se dilata, sosteniendo los planos con desigual éxito. A pesar de lo irregular del experimento, Lucifer a través de su entramado teórico y su original uso de la imagen nos muestra otra cara del Maligno, más astuta y enigmática que el común denominador de las representaciones cinematográficas.

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giovedì 23 maggio 2024

La Gomera - Corneliu Porumboiu

un film che richiede attenzione, la sceneggiatura a incastri non vuole gente distratta.

i fischi sono l'anima del film, fatto di inganni, poliziotti corrotti, lotte senza quartiere e amore, sì amore!

un film da non perdere, promesso.

Corneliu Porumboiu è una garanzia.

buona (fischiettante) visione - Ismaele



…Alcuni anni fa ho visto un reportage sul linguaggio dei fischi utilizzato sull’isola La Gomera. Avevo appena finito di montare Politist, adjective e avvertivo il bisogno di distrarmi un poco e allora, incuriosito, ho iniziato a leggere tutto quanto sono riuscito a recuperare su questo argomento che avevo trovato molto interessante. Sono andato anche sull’isola per capire che effetto mi facesse la verifica in loco di questa particolare forma di comunicazione. E’ così che mi sono convinto di dover scrivere un film che avesse al centro questo linguaggio singolare ma anche divertente e inusuale. Più che un’immagine dunque, è stato un suono a scatenare l’ispirazione che mi ha portato poi a girare questo film (...) che ha certamente a che fare con la cosa che mi interessa maggiormente che è poi lo studio del linguaggio cinematografico e le sue possibili variazioni. Parlo soprattutto del linguaggio dei simboli che trovo molto adatto da applicare a un cinema che vuole essere anche politico ma in una forma non strettamente canonica. Più passa il tempo insomma, più mi accorgo di essere interessato soprattutto a  come voglio dire le cose piuttosto che a cosa voglio dire e questa mia ultima fatica credo sia la dimostrazione pratica di tutto questo”.  (Corneliu Porumboiu)

da qui



   La Gomera – L’isola dei fischi pone in secondo piano l’analisi politica e sociale che contraddistingue il cinema rumeno contemporaneo, focalizzandosi invece sui temi del controllo e del linguaggio. Ivanov regala l’ennesima formidabile interpretazione, interpretando totalmente in sottrazione un personaggio grottesco, capace di mantenere la sua glaciale maschera nelle situazioni più assurde (come quando si concentra sull’apprendimento della lingua dei fischi) e costretto in una sorta di prigione invisibile, in cui le sbarre sono gli sguardi degli altri personaggi e il controllo che essi esercitano su di lui. Una prigione da cui può evadere soltanto attraverso un arcaico linguaggio, che sfugge ai giochi di potere a cui Cristi dovrebbe sottostare. La coerente e toccante evoluzione di questo personaggio è la pietra angolare de La Gomera – L’isola dei fischi, il simbolo della volontà del regista di giocare coi generi e con le atmosfere per poi riconnettersi a sentimenti profondi e universali.

Complementare a Cristi è l’ammaliante e furba Gilda, che la Marlon nobilita con un’interpretazione fatta non soltanto di avvenenza e sensualità, ma anche e soprattutto di espressività nei momenti che determinano il suo personaggio: una manipolatrice che non ha alcuna remora nell’utilizzare il suo corpo e il suo ascendente per ottenere ciò che vuole o per interpretare al meglio una precisa parte, ma che al tempo stesso rivela una sensibilità capace di avvicinarla alle grandi regine del noir, genere troppe volte dato per agonizzante o per morto, ma in realtà sempre vivo in diverse forme.

 

Nel frullato di citazioni (apprezzabili gli espliciti omaggi a Sentieri selvaggi e ad Alfred Hitchcock) e di registri (le inquadrature delle telecamere di sorveglianza si accavallano con sequenze dal taglio tipicamente thriller) messo in scena da Porumboiu si rischia più volte di perdere il contatto con il complesso intreccio alla base de La Gomera – L’isola dei fischi, anche a causa di un insistito e non sempre efficace ricorso al flashback. La sensazione di disorientamento che proviamo ci aiuta però paradossalmente a connetterci con la tragicomica esperienza di Cristi, che in cuor suo pensa di essere in controllo della situazione e di muoversi perfettamente sul filo della legge, ma in realtà è totalmente trascinato dagli eventi e dai desideri di altri.

Un contrasto fra seriosità e ridicolo e fra autorialità e puro divertimento che si riflette sulle scene musicali, spesso in antitesi con ciò che avviene sullo schermo. Ma questo gioco di opposti e questa sorprendente miscela di personaggi incompatibili e di azioni contraddittorie acquistano senso e coerenza interna in un travolgente finale, capace di mettere ogni tassello al proprio posto e di fare dimenticare qualche passaggio a vuoto della trama…

da qui

 

…In questo clima in cui non c’è da fidarsi di nessuno (neppure delle mamme, perché il poliziotto corrotto ha una mamma che si sta godendo la pensione del marito tra i fiori delle Canarie), l’intrigo poliziesco procede, nel rispetto del “genere”, con inseguimenti e improvvisi cambi di rotta, sino a una sanguinosa sparatoria finale nel corso della quale molti muoiono, altri tradiscono e qualcuno scopre l’amore.

Ogni tanto sembra di essere più dalle parti di Tarantino che da quelle del cinema rumeno che sta andando per la maggiore nei festival occidentali. Il rimescolio dei toni e il rovesciamento dei comportamenti trionfano. La vicenda a volte zoppica un poco. Ma nel complesso, Porumboiu (qui alla regia del suo quinto lungometraggio in carriera) dimostra ancora una volta di saper bene amministrare questo bailamme, valorizzandone il ritmo e la composizione figurativa delle immagini, i colpi di scena e la recitazione degli attori, anche la curiosa idea etnografica del linguaggio dei fischi che risuonano, tra le colline e le costruzioni cittadine moderne; nel silenzio minaccioso di una lotta di tutti contro tutti, della quale, infine, saranno i “buoni” a goderne meritatamente i benefici..

da qui

 

 

mercoledì 22 maggio 2024

Laissez bronzer les cadavres - Hélène Cattet e Bruno Forzani

Hélène Cattet e Bruno Forzani girano pochi film, ma buoni, impossibile confonderli con altri film che si vedono in giro.

Laissez bronzer les cadavres è un polar, un western, un heist movie, qualsiasi cosa sia è il come la storia è raccontata, si va avanti e indietro, a cento all'ora o lentamente, con mille colori, e con un sole che fa risvegliare i morti, oltre che abbronzarli, in un angolo di Corsica, in un villaggio abbandonato, ma riabitato temporaneamente da un'artista e un po' di gente di passaggio, a cui non si chiede il curriculum.

momenti di pace, sguardi di fuoco, scoppi di violenza come in un western anni '60-'70, sparatorie alla Tarantino, senza pietà.

cercatelo e godetene tutti.

buona (caotica) visione - Ismaele

 



Laissez bronzer les cadavres, tratto nel 2017 dal primo romanzo del petit miston Jean-Patrick Manchette (scritto insieme a Jean-Pierre Bastid), usa il sole abbacinante della Corsica per un folle regolamento di conti tra eccentrici vacanzieri, una banda di rapinatori in fuga e due gendarmi giunti giusto in tempo per farsi sparare addosso. Sembra un classico poliziesco, ma provate a vederlo (è il più difficile da trovare tra tutti, vi avviso) e vedrete che di classico, se non l’ambientazione e le armi, non c’è veramente nulla…

Procedono per singoli frammenti, estrapolati da una scena data preliminarmente e poi accantonata, come se l’azione fosse composta da pezzi di un meccano montati insieme per fornire una struttura nuova, totalmente stilizzata. Persino astratta.

I frammenti si fronteggiano, si contrappongono, entrano in conflitto. È Ėjzenštejn privato dell’ideologia, senza il simbolo che ne scaturisce. La loro è una concezione sineddochica dello spazio: si concentrano su una parte particolarmente rappresentativa (ed espressiva) dei corpi e ne fanno il veicolo paradossale dell’azione, che di fatto cancellano. La regia diventa una precisa e personalissima interpretazione grafica che, mentre rilegge il cinema di genere, ne offre una riscrittura originale e un’estetica molto seducente. Il fascino di ogni inquadratura è infatti il valore aggiunto di una narrazione che procede grazie a una mostrazione sovraccarica di colori, di impulsi, di motivi e intensità differenti (merito anche dell’abituale direttore della fotografia, Manuel Dacosse). E in cui Cattet e Forzani, in pratica, non raccontano una storia, sollecitano il pubblico con un dialogo continuo tra personaggi e schermo, minacciandolo (o seducendolo) con sguardi in tralice (o umidamente provocanti) e canne di pistola puntate in faccia. È l’origine della visione (ricordate lo sparo verso il pubblico de La grande rapina al treno?) e anche la sua messa in discussione (gli sguardi verso l’obiettivo irretiscono ma rivelano costantemente l’artificio). È il mantra primordiale che si rinnova ibridandosi con le dinamiche di generi già riletti da uno sguardo d’autore e riproposti attraverso lo spettro prismatico della sensibilità postmoderna…

da qui

 

Raccontata così, potrebbe sembrare la trama di un classico film noir, sulla scia di modelli come Cani arrabbiati di Mario Bava, Le iene di Quentin Tarantino e innumerevoli polar. In realtà, qualsiasi materia passi tra le mani dei due registi belgi, cambia completamente forma e sostanza, trasformandosi in qualcosa di diverso rispetto a ciò che possiamo immaginare. Così come Amer e L’étrange couleur des larmes de ton corps erano gialli molto sui generis, sofisticate rielaborazioni stilistiche dei classici del thriller italiano, così Laissez bronzer les cadavres è un unicum, un noir che si svolge in ambienti da western contemporaneo e si trasforma presto in un’orgia visiva pop, psichedelica e coloratissima….

… Tutto incredibilmente assurdo, tutto incredibilmente bello da vedere: Laissez bronzer les cadavres richiede allo spettatore di uscire dai canoni classici del cinema, per abbracciare una fusione panica di innumerevoli elementi visivi e sonori; certo, la vicenda noir si lascia seguire e appassiona lo spettatore, fra sparatorie, sangue, stalli alla messicana e personaggi ben costruiti, ma non è la cosa più importante, perché la regia sembra recuperare una concezione primigenia del cinema come pura Arte Visiva. E quando, sul duello finale tra Rhino e il poliziotto, inizia la nenia infantile di Chi l’ha vista morire? di Aldo Lado (Canto della campana stonata di Ennio Morricone), non si può fare altro che applaudire, perché solo un genio poteva concepire qualcosa di simile.

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