Il meno che si possa dire è che è difficile, allorché si decida di fare un
film su un tale soggetto (i campi di concentramento), non porsi certe questioni
preliminari: ma tutto accade come se, per incoerenza, stupidità o
vigliaccheria, Pontecorvo abbia risolutamente evitato di porsele.
Per esempio, quella del realismo: per molte ragioni, facili da comprendere, il
realismo assoluto, o ciò che ne fa le veci al cinema, è impossibile qui; ogni
tentativo in questa direzione è necessariamente incompiuto (“dunque
immorale”), ogni prova di ricostruzione o di truccatura, ridicola e grottesca,
ogni approccio tradizionale dello “spettacolo” fa emergere voyeurismo e
pornografia. Il regista si trattiene dal nauseare, perché ciò che osa
presentare come la “realtà” sia fisicamente sopportabile dallo spettatore, il
quale di conseguenza non può che concludere, forse inconsciamente, che, certo,
era penoso, che selvaggi questi Tedeschi, ma tutto sommato non intollerabile,
e che essendone avveduti, con un po' d'astuzia o di pazienza, doveva essere
possibile trarsene fuori. Allo stesso tempo ciascuno si abitua subdolamente
all'orrore, questo rientra poco a poco nelle abitudini, e farà presto parte del
paesaggio mentale dell'uomo moderno; chi potrà, la prossima volta, stupirsi o indignarsi
di ciò che avrà smesso in effetti di essere scioccante?
E' qui che si comprende che la forza di Notte e nebbia veniva
meno dai documenti che dal montaggio, dalla scienza con la quale i fatti
bruti, reali, ahimé!, erano offerti allo sguardo, in un movimento
che è giustamente quello della coscienza lucida, e quasi impersonale, che non
può accettare di comprendere e di ammettere il fenomeno. Altrove si sono potuti
vedere documenti più atroci di quelli riportati da Resnais; ma a cosa non si
abitua l'uomo? Ora non ci si abitua a Notte e nebbia; ciò che il
cineasta giudica è ciò che mostra, ed è giudicato dal modo in cui lo mostra.
Altra cosa: si è citata molto, a sinistra e a destra, e più spesso abbastanza
scioccamente, una frase di Moullet: la morale è questione di carrellate (o
la versione di Godard: le carrellate è questione di morale); si è
voluto vedervi l'apice del formalismo, per quanto se ne potrebbe piuttosto
criticare l'eccesso “terrorista”, per riprendere la terminologia paulhaniana.
Guardate, tuttavia in Kapò, l'inquadratura in cui Emmanuelle Riva
si suicida, gettandosi sulla recinzione elettrificata; l'uomo che decida, a
questo punto, di fare una carrellata in avanti per riprendere il cadavere dal
basso verso l'alto, premurandosi d'inscrivere esattamente la mano alzata in un
angolo dell'inquadratura finale, quest'uomo non ha diritto che al più profondo
disprezzo.
Ci martellano da qualche mese con i falsi problemi della forma e del fondo,
del realismo e del fiabesco, della sceneggiatura e della “messa in scena”,
dell'attore libero o dominato e di altre scempiaggini; diciamo che è probabile
che tutti i soggetti nascano liberi e uguali nel diritto; ciò che conta è il
tono, o l'accento, la sfumatura, comunque la si voglia chiamare - vale a dire
il punto di vista di una persona, l'autore, male necessario, e l'atteggiamento
che questa persona assume in rapporto a ciò che filma, e quindi in rapporto al
mondo e alle cose: quello che si può esprimere attraverso la scelta delle
situazioni, la costruzione dell'intreccio, i dialoghi, la recitazione degli
attori, o la pura e semplice tecnica “indifferentemente ma in egual misura”. Ci
sono cose che non devono essere affrontate che nel timore e nel brivido; la
morte è una di quelle, senza dubbio; e come, nel momento di filmare una cosa
così misteriosa, non sentirsi un impostore? Andrebbe meglio in tutti i casi
porsi la questione e includere questa domanda, in qualche modo, in ciò che si
filma: ma è proprio del dubbio che Pontecorvo e i suoi simili sono più
sprovvisti.
Fare un film è dunque mostrare determinate cose e, allo stesso tempo e
attraverso la stessa operazione, mostrarle da una certa angolazione; questi due
atti sono rigorosamente inscindibili. Così come non ci può essere assoluto
nella regia, poiché non c'è regia nell'assoluto, allo stesso modo il cinema non
sarà mai un “linguaggio”: i rapporti del segno al significato non hanno corso
alcuno qui, e non portano che a eresie tanto tristi quanto la piccola Zazie.
Ogni approccio del fatto cinematografico che tenti di sostituire
l'addizione alla sintesi, all'unità, ci rimanda subito a una retorica
d'immagini che non ha a che vedere con la cinematografia più di quanto il design industriale
abbia a che vedere con la pittura: perché questa retorica resta così cara a
quelli che si definiscono da soli “critici di sinistra”? Forse perché sono
prima di tutto degli irriducibili professori: ma se noi abbiamo sempre
detestato, per esempio, Pudovkin, De Sica, Wyler, Lizzani e gli antichi
combattenti dell'Idhec è perché il risultato logico di quel formalismo si
chiama Pontecorvo. Checché ne dicano i giornalisti, la storia del cinema non si
rivoluziona tutte le settimane. La meccanica di un Losey, la sperimentazione
newyorkese non li commuovono più di quanto le ondate di scioperi non turbino la
pace delle profondità. Perché? C'è che gli uni non si pongono che problemi
formali, e che gli altri li risolvono all'origine nel non porsene alcuno. Ma
che dicono piuttosto quelli che fanno veramente la storia e che pure chiamiamo
“uomini d'arte”? Resnais ammetterà che se il tal film della settimana interessa
in lui lo spettatore, è tuttavia davanti ad Antonioni che proverà la sensazione
di non essere che un dilettante; così Truffaut parlerebbe senza dubbio di
Renoir, Godard di Rossellini, Demy di Visconti; e come Cezanne, contro tutti i
giornalisti e i cronisti, fu poco a poco imposto dai pittori, così i cineasti
impongono alla storia Murnau e Mizoguchi...
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