il film l'ho visto un paio di giorni prima che vincesse il meritato premio Oscar, per la sceneggiatura non originale, praticamente un premio a quel formidabile scrittore che è Percival Everett (che ha scritto Cancellazione, il romanzo alla base del film).
Monk è uno scrittore che scopre che se il mercato vuole merda e tu gli dai merda sarai uno scrittore di successo, il mondo al contrario.
e intanto vediamo Monk alle prese con la famiglia, il lavoro, l'amicizia, l'amore, Monk è nostro amico.
un film da non perdere, promesso.
buona (politicamente corretta) visione - Ismaele
…Il paradosso è
che Monk è comunque un emarginato, anche se non nell’accezione che
farebbe di lui, secondo la potenza ineluttabile dei luoghi comuni, un perfetto
esemplare della sua etnia.
È un
emarginato a dispetto della sua origine e della sua appartenenza.
Non certo per disagio sociale, quanto professionale, perché rinchiuso dentro le
sue convinzioni intellettuali che gli fanno disprezzare il compromesso
letterario, la scorciatoia commerciale, lo stereotipo come grimaldello per il
successo. Monk è avulso da tutto ciò che lo circonda, dal contesto culturale,
perché non produce, a quello accademico, che glielo rinfaccia e che lo accusa
di insensibilità rispetto ai temi etici e razziali. E non solo, perché il
suo disagio è soprattutto emotivo, visti i difficili rapporti in ambito
familiare e sentimentale, dovuti alla sua incapacità di donarsi agli altri rivelando
completamente la sua vera personalità.
Nonostante
l’inesperienza di Jefferson come regista, il merito del film è di
evitare di raccontare un prevedibile percorso di progressiva consapevolezza da
parte del protagonista; piuttosto narra la problematica esperienza di
un travestimento, diventando così una lucida satira in cui l’individuo
è costretto dagli eventi a compiere tutta una serie di atti contrari alla sua
volontà per allinearsi a una società ai cui valori non riesce ad adeguarsi.
E così Monk,
ma il discorso potrebbe essere valido per chiunque, diventa parte di un
meccanismo inglobante e annichilente dal quale è praticamente impossibile
liberarsi e che forse conviene assecondare. D’altronde, è una finzione (non
solo) americana, e quindi, idealmente, a vario titolo fingiamo
sempre un po’ tutti. È il caso di arrendersi e ammetterlo.
…American Fiction ha un intento
limpido e netto, ovvero fare satira sull’industria culturale e su tutte le
figure che le gravitano intorno. Una satira che centra il bersaglio, grazie
soprattutto alla prova di Jeffrey Wright, finalmente centrale in un racconto e
formidabile nel rendere la frustrazione del suo personaggio, e a quella
di John Ortiz nei panni dell’agente di Monk,
protagonista di alcune battute davvero folgoranti. Cord Jefferson ne ha per
tutti: la narrativa black fatta sempre e solo di criminalità ed emarginazione,
ben rappresentata dal romanzo bestseller We’s Lives in Da Ghetto di
Sintara Golden (Issa Rae), in cui si imbatte Monk;
i circoli letterari con i loro relativi premi, affidati nel migliore dei casi a
membri della giuria svogliati; lo stesso ambiente di Hollywood, formato da un
branco di ignoranti che si limita a farsi riassumere dagli assistenti sinossi
di libri da trasformare in potenziali successi.
Il regista non nega il razzismo ancora
dilagante (la scena del tassista che lascia a piedi Monk subito dopo la sua
affermazione sulla razza è emblematica in questo senso), ma mette in luce il
fatto che buona parte del successo della cultura woke è determinato dalle
scelte e dai potenziali profitti dei padroni di sempre (quindi in maggioranza
bianchi), che seguono solo il vento dei soldi, assecondando il mercato in
direzione di ciò che lettori e spettatori vogliono sentirsi dire. È questo
l’aspetto più convincente e sicuro di American Fiction,
che a ritmo di jazz (non a caso cuore della colonna sonora) mette a nudo i
limiti di una parte di società, che cerca invano di ripulirsi la coscienza con
crude storie di violenza e sopraffazione, farcite di armi da fuoco, mascolinità
tossica e forze dell’ordine corrotte…
…A fare da mattatore in questo racconto, al limite del
surreale, un Jeffrey Wright in
grande forma che dà vita ad un personaggio ben costruito, perso nelle proprie
convinzioni ed estraniato dalla realtà. Il suo Monk è chiuso nella propria
campana di vetro in cui tutto funziona nel modo in cui il personaggio vuole che
il mondo giri ma che è ben distante da come realmente stanno le cose. La non
accettazione dello stereotipo, in cui il personaggio si sente ingiustamente
collocato, è la spinta narrativa che funge da satira della società moderna e di
come essa sia lo specchio dell’ipocrisia e dell’incoerente percezione di
inclusione che spesso viene raccontata dai media…
…la
película, sostenida maravillosamente en el guión de Jefferson y el excelente
desempeño de todo el elenco con un Wright exquisito a la cabeza, va más allá
del ataque a la “pornografía traumática negra” del ámbito literario, musical y
cinematográfico porque su análisis incorpora la complicidad de los propios
afroamericanos, así tenemos primero a Thelonious, que desprecia las obras de
arte que solidifican el formato del morocho pobre, drogadicto, holgazán,
violento y/ o asesinado por la policía que suele venderse a los blancos con
síndrome de culpa, y segundo a Sintara Golden (Issa Rae), una negra que
asimismo escribió un bestseller patético y ultra estereotipado sobre la
comunidad negra y que para colmo defiende el cliché y su actitud diciendo que
ofrece lo que pide el mercado, al igual que los narcotraficantes o la enorme
maquinaría capitalista en general que condiciona/ lobotomiza a su público o
clientela. Jefferson redondea una obra muy graciosa que se pone algo sensiblera
en el último acto aunque logra jugar con la metaficción, tanto en materia del
libro de Monk –My Pafology/ Fuck– como en la adaptación
hollywoodense, y además se burla de los burgueses que crean productos
hipócritas sobre los menesterosos…
Un grande film, io l'ho amato moltissimo :-)
RispondiEliminaimpossibile non voler bene a questo film, e a Monk
Eliminail film si può vedere su primevideo
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