venerdì 29 marzo 2024

Azuloscurocasinegro - Daniel Sánchez Arévalo

un film simpatico e leggero.

una famiglia, padre in sedia a rotelle e due figli un po' disperati, per vari motivi, cercano ognuno la propria strada, ma le strade si intersecano, poi c'è la storia parallela dell'amico fotografo e del massaggiatore domenicano, che termina il lavoro con una sega ben fatta (come cantavano i CCCP, qui).

buona (galeotta) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

…Nei limiti del film medio in cui certamente si ascrive, l'esordio nel lungometraggio dello spagnolo Daniel Sánchez Arévalo non tradisce le premesse, scorre fluido e curioso, denunciando con toni ora sommessi ora urlati la frustrazione di un presente incerto e incapace di offrire un futuro in cui poter sperare. È la miscela di commedia e melodramma, comunque, la carta vincente di questa pellicola fresca che non può non suscitare l'interesse del pubblico, trattando quel momento cruciale della crescita in cui decidiamo chi saremo nella vita. Sullo sfondo di una vicenda carica di emotività, spiccano dialoghi svelti e lievi che fanno della sceneggiatura, così come delle sentite caratterizzazioni degli attori, il punto di forza dell'operazione. Nonostante sia facile percepire una diffusa "carineria" di fondo qualsiasi cosa accada sullo schermo, la scelta finale del protagonista graffia non poco, in quanto conseguenza dell'accettazione di quella stessa situazione che si voleva sovvertire. Presentato alle Giornate degli autori di Venezia 63 dove è stato insignito del Premio Brian con la seguente motivazione: "Questo bel film mostra con realismo e umorismo come la vita, i sentimenti, i desideri siano troppo complessi per essere ingabbiati nell'asfittico modello della "famiglia naturale" cara alle religioni. La Spagna contemporanea dà un'ulteriore indicazione per affrontare in modo aperto e laico un mondo che cambia"

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giovedì 28 marzo 2024

May December - Todd Haynes

una gara di bravura dei tre protagonisti, ma è tutto lì.

film freddo, noioso, una storia che non coinvolge, Todd Haynes ha fatto molto di meglio, senza dubbio.

buona (se non avete niente di meglio da fare) visione - Ismaele

 

 

 

…Tra i linguaggi e i toni della soap opera, Todd Haynes rileva abilmente la miccia capace di innescare dinamiche narrative proprie del thriller psicologico, se non addirittura del noir, sfiorando di tanto in tanto il melodramma, allontanandosene immediatamente, poiché maggiormente interessato agli psicologismi dell’inquietudine, dello sguardo e dell’attesa.

May December infatti, ancor prima d’essere un film di conversazioni – l’ottima sceneggiatura di Samy Burch e Alex Mechanik, ha ricevuto la nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale, pur senza ottenerla –, è un film d’osservazione. Non è casuale che lo scopo della diva hollywoodiana interpretata dalla Portman, coincida con lo sguardo, o meglio, con l’assistere passivamente alla vita di Gracie Atherton-Yoo, che a sua volta vigila sulla presenza incessante di quest’ultima, dapprima di sottofondo e rilegata agli angoli – là dove i veri autori osservano – e poi sempre più centrale, protagonista e per questo temibile.

Il decimo film di carriera di Todd Haynes è un gioiellino, supportato da ottime prove interpretative curiosamente non considerate dall’Accademy, probabilmente per la dimensione minore di un film certamente singolare, capace di muoversi con maestria, leggerezza e tensione, dal dramma al thriller psicologico, fino al melò ed il true crime.

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Tra le tre performance, forse quella che emerge di più e che sorprende proprio perchè viene da un giovanissimo della recitazione, è quella di Melton. L’attore di Riverdale riesce a catturare in toto le sfaccettature del suo personaggio, conferendogli un’aria da belloccio dei tanto popolari young adult ma affibbiandogli anche un’aria costantemente desolata e malinconica, incerta nel suo trovarsi costantemente in bilico tra l’essere adulto e il tornare bambino. Il suo Joe è contemporaneamente appetibile e tenero, solare e angoscioso. Un personaggio vincente che si è auto-confinato in un terreno di isolamento totale, lontano dal tono camp della pellicola, dai colori vivi della sua fotografia e lussureggianti della natura che lo circonda. Forse è proprio attraverso il personaggio di Joe che Haynes riesce a sbugiardare i suoi personaggi, l’artificiosità dei loro comportamenti e del finto paradiso che si sono creati. Melodramma camp fino al midollo, l’ironia disturbante di Todd Haynes fa luce con May December sulle (s)proporzioni dei ruoli e dei valori famigliari di una realtà pervasa dalla finzione.

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Il cast di May December offre performance ineccepibili e capaci di rimanere impresse a lungo, il ritmo del film si fa via via sempre più incalzante in un crescendo appassionato, e in alcuni punti passionale, di emozioni, dubbi e sospetti senza mai la scure del giudizio. Non sta a noi giudicare, vuole dire Todd Haynes nel proporre senza un briciolo di retorica il ritratto allo specchio di una donna raccontata da un'altra donna, con tutti i trucchi reali e metaforici che entrambe indossano nelle loro vite private e personali. Un film maledettamente interessante, ossessivo, a tratti morboso ma capace di insinuarsi sotto la pelle e serpeggiare a lungo. Anche dopo il finale affidato a un metacinema in cui non è un caso che spunti il serpente della tentazione biblica, peccaminosa eppure irresistibile.

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Non ci sono vincitori in May December, ma solo sconfitti da un mistero senza soluzione, da un caso senza colpevole. La vittima più evidente diventa così proprio Joe, bloccato emotivamente, sentimentalmente e sessualmente in un’adolescenza che gli è impossibile abbandonare, e incapace di conseguenza di amare, desiderare ed essere padre. In una scena di straziante tenerezza, lo vediamo mostrare tutta la sua fragilità e la sua inettitudine con un figlio per il quale assomiglia più a un fratello maggiore, a cui dice con disarmante sincerità «Non riesco a capire se ci stiamo connettendo o se sto creando un brutto ricordo per te in tempo
reale, ma non posso farci niente
».

Todd Haynes si muove con lucidità e impudicizia fra questi diversi abissi umani, districandosi fra suggestioni e false piste e giocando anche con l’aspettativa dello spettatore, martellato da una colonna sonora di chiaro stampo thriller, che lascia presagire una scarica di violenza che non arriva mai. Lo fa plasmando ancora una volta il lato più torbido di Julianne Moore, già alle sue dipendenze in SafeLontano dal paradiso e La stanza delle meraviglie, qui alle prese con un personaggio con più di un punto di contatto con quello da lei interpretato per David Cronenberg in Maps to the Stars. Ma soprattutto lo fa con la sua personalissima cifra stilistica, indagando le torbide contraddizioni della piccola borghesia e tratteggiando le più travolgenti passioni e le più insopprimibili pulsioni all’interno di una cornice solo apparentemente algida…

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lunedì 25 marzo 2024

Inshallah a Boy - Amjad Al Rasheed

Nawal, la sua bambina Nora e i parenti serpenti.

Nawal deve difendersi dagli avidi parenti, ha un lavoro come badante per dei ricchi di Amman, peccato che la figlia della padrona le chieda aiuto e lei glielo dia, Nawal ha anche uno spasimante, un brutto anatroccolo innamorato, ma lei vuole solo la libertà per lei e Nora.

un film politico e femminista, dalla Giordania, dove la vita non è facile, non è un paese per donne.

Nawal (l'attrice Mouna Hawa) regge tutto il film sulle sue spalle, la macchina da presa la segue senza sosta, è lei il centro di gravità della storia.

un film da non perdere, in meno di venti sale, purtroppo.

buona visione - Ismaele

 

 

 

 

Al Rasheed colloca l'azione ad Amman e in tal modo ci fa conoscere un'altra faccia dell'imposizione alle donne di codici di comportamento che alcune giocoforza interiorizzano accettandoli ed altre no. Perché grazie al lavoro di badante di un'anziana signora immobilizzata su una sedia a rotelle a cui Nawal attende quotidianamente (rientrando a casa tardi e questo viene usato contro di lei) ci viene aperto un altro microcosmo. Quello cioè di una famiglia benestante cristiano maronita dove però i rigidi codici di sottomissione al maschio, non importa se totalmente privo di scrupoli, imperano.

Ci viene quindi ricordato che non si tratta solo, come semplicisticamente si potrebbe pensare, di una tradizione religiosa contro un'altra ma piuttosto di humus culturale diffuso contro cui è difficile combattere. Nawal lo fa senza proclami ma con l'amore che ha per la figlia e cercando di sfruttare tutte le scarse vie legali che i maschi lasciano alle donne per esercitare dei diritti che non dovrebbero neppure essere enunciati tanto sono, si potrebbe dire, naturali.

Al Rasheed è molto abile nel leggere anche le minime sfumature nelle espressioni dei suoi protagonisti ed è anche capace, e non era facile, di tenersi lontano dal manicheismo. Si veda la figura del fratello di Nawal che vorrebbe in cuor suo esserle d'aiuto ma non riesce a sfuggire al retaggio culturale in cui è nato e cresciuto. Affrontando al contempo i temi qui solo apparentemente contrastanti del desiderio, che diviene necessitato, di una gravidanza e del divieto dell'aborto, il regista, essendosi fatto affiancare da due donne (Rula Nasser e Delphine Agut) nello stendere la sceneggiatura, ha saputo trovare la giusta misura nel trattare temi così delicati offrendo un quadro purtroppo realistico di un contesto in cui ogni cambiamento impone una sofferenza che solo alcune sanno sostenere.

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La pellicola adotta un approccio nettamente centrato sul punto di vista femminile, in cui Amjad Al Rasheed, attingendo anche dalle sue esperienze personali e dalla propria infanzia, riesce a delineare con grande cura il mondo delle donne in Giordania, offrendoci uno sguardo autentico e realistico sulla condizione femminile nelle società arabe. Le donne si trovano costantemente soggette ad ingiurie e trattamenti crudeli da parte degli uomini, che le considerano più come strumenti per perpetuare la loro discendenza piuttosto che come individui con bisogni e desideri propri. Questa è la peculiarità principale di “Inshallah a Boy”: raccontare la femminilità in Giordania attraverso una narrazione priva di filtri e caratterizzata da una regia estremamente realistica. Amjad Al Rasheed adotta un approccio autoriale alla regia, ma opta saggiamente per una direzione invisibile che si concentra principalmente sulla storia e sul personaggio di Nawal, interpretato magistralmente da una straordinaria Mouna Hawa. La regia evita movimenti di macchina spettacolari, preferendo invece una presenza discreta della cinepresa che contribuisce ad approfondire la profondità della narrazione…

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Inshallah a Boy sa scavare nel profondo dei personaggi e della loro esistenza, grazie alla regia sicura di Amjad Al Rasheed, sempre incollato ai volti dei suoi protagonisti, e alla sensazione di crescente angoscia per il destino di Nawal, legato a una gravidanza improbabile e dall’esito comunque tutt’altro che garantito (la nascita di un’altra figlia la riporterebbe sostanzialmente al punto di partenza). Una critica sociale aspra e ficcante, che non cede mai alla tentazione della retorica ma si concentra solo sul suo oggetto, lasciandoci con un epilogo in equilibrio fra timore e speranza, perfetta sintesi della vita di Nawal.

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sabato 23 marzo 2024

Il commissario Pelissier (Max et les ferrailleurs) – Claude Sautet

il commissario Pelissier (Michel Piccoli) vuole catturare dei banditi in flagranza di reato.

e per i casi della vita trova l'occasione, incontra un suo vecchio amico che vive ai margini della legalità e attraverso la sua compagna, una prostituta (Romy Schneider), spinge i banditi in trappola.

le cose vanno benissimo per il commissario, ma purtroppo Lily gli ha rubato il cuore, e lui non capisce più niente.

un film che non lascia scampo, una sceneggiatura perfetta, un film da non perdere, se ti vuoi bene.

buona visione - Ismaele

 

 

QUI il film completo, in francese, con sottotitoli in inglese

 

 

Max Pelissier (Michel Piccoli) è un poliziotto di Nanterre tormentato dai diversi tentativi falliti di catturare in flagrante un gruppo di rapinatori di banche della zona. Beffato dai colleghi, decide di indurre il vecchio amico Abel (Bernard Fresson), colpevole di piccoli furti insieme alla sua gang di scapestrati, a una rapina. Per incastrarli, deve fornire piste false alla fidanzata di Abel, la prostituta Lily (Romy Schneider), con cui però nascerà un legame più forte. Tra i drammi sentimentali e introspettivi L'amante (1970) ed È simpatico, ma gli romperei il muso (1972), Sautet si avvicina alla disillusione del noir contemporaneo, rifiutando però con classe e maestria cinematografica una precisa distinzione di genere. Tratto dal romanzo di Claude Néron, autore anche della sceneggiatura insieme a Jean-Loup Dabadie e lo stesso Sautet, un'opera revisionista che è un poliziesco crepuscolare, una storia d'amore alla ricerca del sentimento, un dramma psicologico incentrato sulla frustrazione e il conflitto: alla fine ogni elemento emerge trovando come cuore nevralgico il personaggio di un Piccoli mai così cupo e intenso. Sarà lo stesso commissario Pelissier a mettere in scena il proprio film, dirigendo gli attori, un gruppo di delinquenti disadattati impreparati per il grande colpo, e orchestrando le scene della rapina da sventare, per il lieto fine del personaggio che interpreta. Splendido il clima di disillusione e malinconia in contrasto con la sensuale bellezza di Romy Schneider. Acuto, paranoico, imperdibile.

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Un altro dei film memorabili di quel fantastico cineasta che rispondeva al nome di Claude Sautet.Film che all'apparenza appartiene al genere poliziesco ma che in realta'contiene tutta una serie di caratteristiche e di suggestioni che con il poliziesco non hanno nulla a che spartire.Partendo dalla figura del protagonista,un ex giudice ora poliziotto che ha la fissa di cogliere i malfattori in flagranza di reato per non avere sorprese successive in sede giudiziaria,Sautet imbastisce un dramma degli affetti in cui la figura preponderante è quella della prostituta interpretata da una luminosissima Romy Schneider che si contrappone da subito alla figura severa e ombrosa del commissario di cui ignora l'identita'.Il nucleo centrale del film è rappresentato dagli incontri tra i due ,senza alcun contatto fisico in cui piano piano si conoscono meglio pur non facendo nulla ma quasi simulando la routine quotidiana di una coppia qualsiasi.E invece si stanno intrappolando a vicenda:lui ha teso la trappola agli amici di lei per impedire loro una rapina milionaria con le informazioni carpite,lei,oltre le apparenze, è riuscita a stabilire una sorta di contatto empatico con lui che la protegge anche a costo della sua rovina in un finale emozionante e amarissimo. Si vede fin dall'inizio che Sautet non è interessato all'intreccio poliziesco, non gli interessa girare scene troppo movimentate e infatti per essere un poliziesco le scene concitate sono veramente minime, lui descrive un paese della provincia francese e coccola quasi i suoi protagonisti che da pari loro gli regalano una prova superba.....

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…Sautet è abilissimo a lavorare sui tempi morti. Accumula i dettagli per costruire meticolosamente la scena della rapina. E in questo, appare fulminante e fortemente incisiva l’osservazione realistica della banda dei rapinatori, che sono come spiate da un altro occhio (anche quello della polizia nel finale) e accompagnate dalla voce-off del commissario della loro zona, interpretato da François Périer. E il titolo originale gioca in effetti sul rapporto tra Max e questo gruppo (Max et les ferrailleurs), ladri di auto e di metalli. Le immagini della loro quotidianità, come squarci di un documentario sulla malavita. Un respiro dei tanti del polar francese degli anni ’70, in una stagione indimenticabile. Dove il luogo (in questo caso Nanterre) diventa un altro deterministico punto di osservazione.

E poi c’è tutto un altro squarcio, quella passionalità trattenuta a fatica del cinema del regista, caotico e magico nel filmare la seduzione. Romy Schneider entra in scena dopo mezz’ora. La sua immagine, originariamente osservata da lontano, già diventa un lampo improvviso che fa prendere al film ancora un’altra marcia. Con ancora uno sguardo off che, all’inizio la guarda, che è quello di Max. In un altra storia d’amore destinata a finire male. Ed è proprio per questo, come in L’amante, che ogni gesto, ogni sprazzo di gioia o di infelicità diventa decisivo. Come per catturare e afferrare più dettagli di immagini che già diventano memoria. I soldi sul tavolo, il cappello in testa, una mano tolta dalle spalle. Con sguardi che si cercano per non perdersi mai. per una follia d’amore che diventa esplosiva nel finale.

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Intenso polar dall'atmosfera rarefatta e dai personaggi perdenti, in cui più che la minuziosa costruzione della trappola alla banca conta la strana alchimia sentimentale che si crea tra il frustrato commissario Pelissier e l'avvenente prostituta Lili Ackermann. Finale inaspettato e perfettamente in linea con i personaggi. Piccoli e la Schneider in stato di grazia.

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venerdì 22 marzo 2024

Atlantique – Mati Diop

una storia d'amore e di fantasmi.

Ada è innamorata di Souleiman, ma è costretta a sposare un altro uomo.

intanto Souleiman, con un gruppo di amici, è in viaggio su un barcone verso la Spagna, probabilmente sono naufragati.

anche un poliziotto è un protagonista, ha qualche problema di salute, forse, indaga su un attentato nella casa dello sposo di Ada, è turbato, non capisce, vuole capire, sta attaccato ad Ada, ma non trova le prove che cerca.

un film senza uno sguardo europeo, una storia solo senegalese.

buona (interessante) visione - Ismaele



 

…A conclusione della nostra recensione di Atlantique ci sentiamo di dire che servirà del tempo. Tempo per recepire i singoli messaggi, provare a contestualizzarli e farli nostri. La sensazione la visione è che, con tutte le note negative del caso, il film di Mati Diop sia un ottimo esempio di come lo sguardo del pubblico cinematografico debba esser disposto a guardare oltre. L’obbiettivo è sempre quello di valorizzare un cinema, come quello africano, capace di produrre storie interessanti e soprattutto legate al territorio, alla cultura e alla tradizione specificatamente locale, come nel caso di Atlantique. Un film estremamente contemporaneo nella narrazione, nelle modalità di messa in scena e nel tipo di racconto, a metà strada fra più generi.

Forse è, come detto, questo il difetto: il voler esser troppe cose, portando a termine la missione con però la sensazione di non aver espresso pienamente quelle potenzialità evidenti fin dalle premesse. Sicuramente una piacevole sorpresa di fine 2019, tra i probabili nomi caldi per gli Oscar 2020, Atlantique va comunque visto sotto l’ottica dell’esordio di una regista, Mati Diop, della quale non vediamo l’ora di vedere le successive opere, sperando nella maturazione delle proposte presentate con questo titolo, forse ancora troppo acerbe.

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Un’adolescenza che non può non affrontare una grande storia d’amore. Ma le motivazioni che hanno spinto Mati Diop a porre al centro della sua narrazione un legame amoroso non derivano dalla necessità di comporre uno schema canonico. Al contrario, questa sua scelta l’ha portata al voler andare ben al di là degli schemi fissi: “Quando ho incominciato a scrivere questa storia d’amore, mi sono resa conto che non avevo dei riferimenti a dei modelli di coppia, alla mo’ di ‘Romeo e Giulietta’ neri, e l’ho trovato completamente assurdo. Questo mi ha fatto venire ancora più voglia di scrivere questa storia” .

Uno riflessione, questa sul mito letterario, che evidenzia quanto la storia dell’Europa e dell’Occidente è scritta nell’autoreferenzialità e quanto ci sia ancora molto da indagare e da scrivere. Nella letteratura, nell’arte, nella musica e nel cinema di oggi spesso, invece, si incontrano le tracce di questo nuovo sguardo sull’altro, che non intraprende una ricerca verso l’esotico, bensì vede nella differenza il punto di partenza di un’Europa più aperta politicamente e culturalmente.

Atlantique è un film forse impreciso sul piano narrativo, ma che si distingue dunque per la densità dei suoi contenuti, tra il documentario, romance e horror soprannaturale Athlantique è in grado di fornire uno visione interessante sulla contraddizioni che investono il Senegal, a partire dai disagi economici fino a quelli amorosi.

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giovedì 21 marzo 2024

La natura dell'amore - Monia Chokri

non solo per la neve e il freddo si capisce che non si tratta di un film francese.

è un film d'amore, di donne che vogliono educare gli uomini, educare il buon selvaggio.

simpatico, ma non molto di più.

buona visione - Ismaele



 

…Chokri ha scritto una maliziosa, spregiudicata, divertente e autoironica storia d'amore che si rovescia in tragicomico e beffardo conflitto di classe per l'incapacità di entrambi i personaggi di risolvere o convertire le proprie differenze (peraltro probabilmente all'origine della loro stessa attrazione). Il divertimento, i dialoghi-battute e le gag brillanti via via però lasciano intravedere un sottofondo amaro che non prevarica ma è tenuto dall'autrice in un equilibrio impeccabile fra derisione e tenerezza per le debolezze e l'incapacità dei suoi personaggi di vivere ed essere felici.

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Idealizza del tutto Sylvain e la loro relazione e si vede come una sorta di missionaria alle prese con il tentativo di educare culturalmente il suo amante. Anche quest’ultimo tuttavia risulta ben lontano dallo stereotipico personaggio “umile fuori ma ricco dentro” che si scontra con il mondo borghese. Magari sincero nei sentimenti, alla lunga viene fuori il suo lato più oscuro, tra scatti di violenza e opinioni vicine al populismo MAGA. Non ne esce positivamente però neanche il gruppo di amici accademici di Sophia, che mostrano un forte pregiudizio nei confronti di Sylvain, divertendosi a metterlo in difficoltà quando ce n’è l’occasione. La natura dell’amore diventa allora un racconto di classi sociali diverse che si scontrano, in una sorta di gara al ribasso in cui nessuno ne esce vincitore.

Il film però mostra spesso gli stessi limiti della sua protagonista, risultando troppo verboso, con un numero di parole spropositato ad accompagnare le immagini, non lasciando spazio al pubblico per entrare davvero nel film. Non si ride nelle scene più comiche e non ci si commuove nelle più drammatiche proprio perché c’è la necessità di seguire i dialoghi laddove un momento di silenzio avrebbe giovato a far empatizzare lo spettatore. Tutto ciò rende La natura dell’amore un film molto interessante che però non riesce del tutto a dialogare, nonostante le tantissime parole, con chi lo guarda.

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martedì 19 marzo 2024

The master gardener – Paul Schrader

il giardiniere Narvel si dedica alla vita delle piante, ha avuto una vita precedente che non si può dimenticare.

ha un rapporto complesso con la padrona dei giardini; arriva un giorno la nipote della padrona, Maya, Narvel deve istruirla su giardinaggio, ma le cose non sono troppo semplici.

i film di Paul Schrader sembrano lenti, all'inizio, in realtà è una preparazione e (ri)costruzione dei conflitti che non mancano di esplodere.

come tutti i film di Paul Schrader, anche The master gardener non delude, anzi...

buona (giardiniere) visione - Ismaele

 

 

 

Paul Schrader produce un’altra variazione sul tema dell’uomo dall’oscuro passato, che si rifà una vita ma non riesce a perdonarsi. Un modello di uomo (di recente Hawke e Isaacs, ora Edgerton) che tende pericolosamente all’autodistruzione pur di infliggersi un “meritato” Inferno sulla terra. Se regge l’idea che Master Gardener chiuda un’ideale trilogia iniziata con First Reformed e proseguita con Card Counter, allora regge l’idea che dopo la chiesa e il gioco di carte l’Inferno di questo terzo capitolo sia l’orticoltura, pretesto narrativo per raccontare la dedizione del protagonista a una causa circolare, un po’ vana, una maschera più che una passione. Pretesto anche per intrattenere un rapporto quasi sadiano con la “proprietaria terriera” Sigourney Weaver, che è suo superiore e che ne sfrutta eroticamente il passato da killer neonazi come un grottesco parassita. 

Come negli altri due film, anche qui un personaggio giovane rompe la circolarità infernale del protagonista: la giovane Maya, che vorrebbe cancellare i tatuaggi dal corpo di Edgerton ma poi ne sfrutta la brutalità, in un vortice di incoerenza potenzialmente autodistruttiva.

E intanto Schrader costruisce quasi un neo-noir che assomiglia solo al suo cinema, che trasforma il cinema classico in un rito quasi mistico, attraverso cui passano colpa e redenzione. Ma rispetto ai film precedenti forse con più leggerezza, più risate (Weaver è diabolica quanto esilarante), una speranza disperata finale (qui più quieta, più Card Counter che non First Reformed) che fa un buco e straborda nel dramma quasi romantico: se esiste il Male esiste anche l’Amore, forse.

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Ne Il maestro giardiniere la tensione iniziale tra rimando hopperiano e rimando caravaggesco illumina retrospettivamente il resto del film.

 

Riporto le parole più rilevanti che Narvel pronuncia (e che si suppone corrispondano a quelle scritte) in una stanza in cui l'unica fonte di luce è interna al quadro ma impossibile - in entrambe le inquadrature in questione - da vedere direttamente: banalmente, dalla nostra prospettiva il paralume della lampada copre il bulbo. 

 

"The formal garden imposes geometric strictures on plants […]. 

Informal gardens […] adhered to the shapes and contours of nature. A third type, the wild garden, only appears to be wild. [...]

Gardening is a belief in the future; a belief that things will happen according to plan, that change will come in its due time".

 

"Il giardino formale impone alle piante delle restrizioni geometriche [...]. 

I giardini informali [...] si attengono alle forme e ai contorni della natura. Un terzo tipo, il giardino selvaggio, è solo apparentemente selvaggio. [...]

Il giardinaggio è una fede nel futuro; una fede che le cose accadranno secondo i piani, che il cambiamento arriverà a tempo debito".

 

Questo discorso solo apparentemente di natura tecnico-settoriale esprime, al di là delle differenze (superficiali) tra le tipologie di giardino, un approccio di tipo pienamente tecnico: ognuna di quelle relazioni è impositiva nel proprio principio. 

Il tempo debito non è affatto cairologico: deriva da un calcolo dei tempi cronologici delle piante e vi si adegua (adaequatio rei et intellectus); compreso il passato e rinvenute delle leggi, presente e futuro non possono che sottomettersi al dominio della logica e della causalità…

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Con Schrader il rigore formale procede sempre di pari passo con quello etico, e infatti Master Gardener si distingue, soprattutto nella prima parte, per una simmetria quasi kubrickiana delle inquadrature, che accompagnano la fase del film in cui ci addentriamo nelle regole che costituiscono il mondo di Narv. Quando quel mondo verrà stravolto, anche la macchina da presa si farà più mobile, non forsennata, cosa che non rientrerebbe nello stile di Schrader. Il suo sguardo diventa anche più lieve in questo caso, con qualche concessione al visionario e all’onirico, con un minimo di CGI. Senza anticipare nulla, possiamo dire che Schrader si concede qualche speranza in più rispetto al passato e la colora con le tonalità vivaci dei fiori tanto amati da Narv, forse in questo scadendo in un momento stucchevole che si poteva evitare. Con i colori dei fiori torniamo a quella manipolazione della natura, di cui dicevamo all’inizio. Nonostante la creazione arbitraria di un giardino esteticamente raffinato rappresenti una violazione della natura e una antropizzazione dell’ambiente, in questo caso però non avviene una distruzione o sostituzione dell’ambiente naturale con quello artificiale, ma il nuovo equilibrio viene semplicemente indirizzato e canalizzato dall’uomo, trovando una sua ragione d’essere, esistenziale, metaforica, ma anche concreta. Così anche trovano giustificazione le esistenze, rinnovate, della tenuta Gracewood, di Narv e di Maya.

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Con "Master Gardener" Paul Schrader firma un grandissimo film sulla redenzione e il perdono, in cui il giardinaggio diventa metafora di ordine, amore e cura in contrasto con un passato fatto di caos, odio e distruzione. Il personaggio di Narvel Roth, portato in scena da un bravissimo Joel Edgerton, è il simbolo del riscatto umano e spirituale di un mostro diventato tale a causa di insegnamenti basati sul disprezzo e la cieca estirpazione di innocenti considerati "erbacce", ma risorto grazie all'impegno profuso nel padroneggiare un'arte che è tutto l'opposto, ovvero dedizione maniacale e quasi genitoriale alle piante durante la loro crescita, rigore geometrico e continuo studio infuso di passione e venerazione. La storia d'amore che parte come un rapporto tra maestro e allieva e come occasione di espiazione dei propri peccati diventa l'elemento salvifico (già visto in "American Gigolò" dello stesso regista/sceneggiatore) che porterà Narvel a perdonare sè stesso e ad aprirsi finalmente ad un futuro non più interdetto dalle ombre del passato, in un finale di rara, struggente speranza. Oltre a regia e sceneggiatura ottime, sono da sottolineare la bella fotografia di Alexander Dynan e la validissima colonna sonora di Dev Hynes, oltre alle prove recitative superlative del già citato Joel Edgerton, della grande Sigourney Weaver e della giovane Quintessa Swindell.

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lunedì 18 marzo 2024

Deserto particular - Aly Muritiba

Daniel ha molti problemi, nel lavoro, è un poliziotto, è stato sospeso per aver picchiato una recluta, qualcuno ha filmato tutto e l'ha messo in rete.

in famiglia si occupa del padre ormai demente, che non può fare a meno di lui (meno male che per ogni emergenza c'è una sorella).

il rifugio e il segreto di Daniel è un rapporto solo online con Sara, che vive a giorni di distanza. 

quando Sara sparisce, non risponde più ai suoi messaggi, dal sud Daniel si sposta verso il nord, per cercare il suo amore.

con difficoltà riesce a trovarla e sono sorprese una dopo l'altra, in una sceneggiatura che non ti fa annoiare mai.

un piccolo grande film d'amore (e molte altre cose).

buona (sorprendente) visione - Ismaele

 

 

 

(recensione di Luca Baroncini)

Un po’ road-movie, storia d’amore, film di denuncia, anche politico considerando la tematica LGBT nel Brasile guidato dall’allora presidente Bolsonaro, “Deserto particular” è però principalmente un percorso di formazione, soprattutto di liberazione, dei suoi protagonisti Daniel e Sara. 

Lui è un agente di polizia sospeso per violenza privata, con un padre ammalato da accudire e una sorella con cui dividere le incombenze del quotidiano. Lei è in cerca di un’identità in un contesto sociale tutt’altro che complice. I due non si conoscono, vivono ai lati opposti del Brasile, sono entrati in contatto attraverso una app di incontri ed è nata un’intesa. Daniel, introverso e inquieto, pensa di avere trovato in Sara il grande amore della sua vita, ma sono tante le cose che non conosce e non pare ancora in grado di capire e accettare, anche di se stesso. Quando lei smette di rispondergli, lui abbandona tutto e parte per cercarla, mollando ogni responsabilità per quella che diventerà una vera e propria ossessione.

Sarà un viaggio di progressive scoperte e nuove consapevolezze, dove sentimenti e pulsioni usciranno allo scoperto creando prima conflitto, poi pacificazione. Il centro del racconto non è mai una tesi da esporre, un messaggio da veicolare, ma consentire ai due protagonisti di trovare la loro verità, con una parte conclusiva molto struggente in cui il lieto fine prende pieghe inaspettate, poco compiacenti nei confronti delle presunte aspettative del pubblico. Verrebbe voglia di sapere cosa succederà dopo ai due protagonisti, se la vita li ripagherà della stessa tenerezza che si sono concessi, ma l’obiettivo della sceneggiatura era dargli la possibilità di concedersi un futuro, dipende quindi da noi e dalla nostra sensibilità ipotizzare ciò che accadrà. 

È anche questo il bello di un cinema che non vuole spiegare niente, solo raccontare una bella storia, stimolare il confronto e dare ordine al nostro sentire.

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Muritiba li segue entrambi con i loro cedimenti, con i loro timori e anche, soprattutto per Daniel, con la necessità di confrontarsi con una scelta fondamentale. La camera lo accompagna nelle variazioni dei sentimenti senza mai indulgere in preziosismi fini a se stessi e senza (ed è un pregio) mai sovrapporsi ai personaggi. Ai quali viene lasciata per intero un'umanità anche contraddittoria ma proprio per questo veritiera e possibile.
Il deserto privato di un titolo che compare molto avanti nel film è quello di una società in cui il presidente si fa fotografare armato ma che comunque non rinuncia all'ipocrisia del perbenismo in una molteplicità di campi. Senza assumere i toni della denuncia il film invita a riflettere in modo non superficiale.

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Dopo aver attraversato il Brasile per raggiungere l’oggetto del desiderio, Daniel si deve scontrare con il fatto di trovarsi davanti a un soggetto, che, in quanto tale, è imprevisto quanto imprevedibile, mutevole quanto familiare nel suo essere intriso d’amore. Aly Muritiba, parlando del personaggio di Sara e descrivendolo come un personaggio dall’identità tanto salda (nonostante il continuo assedio che subisce) quanto aperta al cambiamento, esplica il cuore di Deserto Particular: “Questa energia della trasformazione e dell’avventura, questa energia dell’amore finisce per contagiare l’altro, incapace di cambiare ma che cambia prospettiva quando viene in contatto con l’altro che vive lontano. Quello che vorrei suggerire è che è possibile aprirsi all’altro, se lo si ascolta e lo si guarda in faccia“.

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venerdì 15 marzo 2024

Totem - Il mio Sole - Lila Avilés

il film racconta la storia con gli occhi di Sol, il suo babbo malato, che vive con la famiglia d'origine, è ormai alla fine, tutti arrivano per il suo compleanno, l'ultimo.

Sol vuole abbracciarlo, stare con lui, dargli un regalino, stare con lui.

riesce a stare con lui solo pochi minuti, tutto il tempo del babbo è per prepararsi, con l'aiuto della badante.

tutti vogliono dargli uno sguardo, un abbraccio, una parola, per Sol c'è poco tempo, purtroppo. 

il padre di Sol, Tona, un giovane pittore molto amato, riesce, con difficoltà a uscire in giardino, è una festa, anche il vecchio padre, con difficoltà di parola, gli fa un regalo, un bel bonsai. 

si capisce che Tona e Sol si sono voluti molto bene, loro lo sanno.

non perdetevi un piccolo film d'amore, a cui volere bene, miracolosamente al cinema, però solo in una decina di sale in tutta Italia.

buona indimenticabile visione della festa di compleanno di Tona - Ismaele



ps: nel 1932 Sergei Eisenstein gira ¡Qué Viva México!, che mostra il particolare rapporto dei messicani con la Morte (qui il film)

 


 

Opera seconda dalle messicana Lila Avilés, Tótem è un affresco corale in tono di commedia ma a sfondo drammatico che inquadra nell'immersivo formato 4/3 una giornata speciale di una famiglia estesa. Grazie all'adozione del punto di vista della piccola protagonista Sol (la magnifica esordiente Naima Senties), il film adotta l'approccio innocente alle complessità della vita che, filtrata dallo sguardo infantile, ritorna alla sua dimensione giocosa, caoticamente vibrante e straordinariamente magica.
L'ingresso in tale dimensione di leggerezza (ma non superficiale) è praticamente immediato, ed è sancito dal momento in cui la bimba varca la soglia della grande casa di famiglia indossando una voluminosa parrucca colorata e un naso rosso da pagliaccio. La mamma la spinge tra le braccia delle zie salutandola frettolosamente prima di tornare al lavoro: quel gesto corrisponde all'invito della 41enne regista di Città del Messico a farsi travolgere dal suo cinema luminoso, coloratissimo ed esplosivo, edificato su movimenti di macchina frenetici e fluidi piani sequenza che penetrano in ogni angolo della messa in scena, il tutto a misura di bambina…

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Lo sguardo di Sol – o “Solecito“, come lo chiamano le zie – esprime tutto. In mezzo al caos familiare, alla paura, al nervosismo, all’impotenza e persino a una festa imminente, gli occhi della bambina rivelano la gigantesca tristezza che circonda e ingloba tutto. A sette anni sembra sapere di più, negare di meno e supporre in maniera più convinta che a suo padre, Tona, resta poco tempo da vivere e che non c’è motivo di festeggiare, per quanto dietro ai festeggiamenti del suo compleanno ci siano delle buonissime intenzioni. Vuole solo vedere suo padre, stare con lui, abbracciarlo, parlare degli animaletti che ama e dei quadri che lui realizza; approfittare di quelli che intuisce essere pochi momenti condivisi tra loro, quei minuti rubati al tempo che rimarranno impressi nella sua memoria per il resto della vita.

Sebbene lo sguardo di Sol in Tótem – Il mio sole sia anche quello della regista, Avilés non giudica gli atteggiamenti degli altri personaggi: ognuno affronta o meno la situazione con le risorse che ha o che gli mancano. E se Sol può provare distanza e persino una certa incomprensione nei confronti di ciò che vede intorno a sé, la cinepresa sa che alla fine sono tutti lì con lo stesso obiettivo e scopo: abbracciare Tona, festeggiarlo, sostenerlo, stare con lui e ringraziarlo per le esperienze che hanno condiviso. È questa nobiltà e generosità di spirito che nutre questo sorprendente film. Si affronta la morte come si può, non sempre come si vuole: Avilés lo capisce e lo trasmette perfettamente.

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TOTEM IL MIO SOLE (TÓTEM) è un commovente film corale, dove il microcosmo familiare è raccontato attraverso gli occhi di Sol, una bambina di sette anni, durante un giorno speciale di festa per celebrare il compleanno del padre pittore malato. La storia è un inno alla vita, all’amore, alla bellezza della natura e dell’arte, che con sincerità ed emozione affronta il tema della morte e allo stesso tempo celebra la vita. Sol infatti comprenderà l’essenza del lasciar andare e, proprio come accade nella cultura messicana, al tempo stesso imparerà a cogliere il respiro della vita e a viverne ogni sfumatura.

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La historia mantiene el interés, sin llegar a aburrir, y va creciendo con el paso de los minutos, hasta llegar a ese gran tercio final.

El otro aspecto positivo es el de la dirección, en donde Lila Avilés demuestra tener un gran talento a la hora de presentarnos cada una de las escenas, sabiendo mezclar muy bien esos planos fijos con unos en movimiento, y lo hace sin necesidad de excederse. Todo este talento de Avilés ya estaba presente en "La camarista", pero el problema en ese otro caso es que no estaba acompañado de un buen guion.
Una película fácil de recomendar, más que otras del cine latino actual, porque no tiene un ritmo pausado, con una historia sencilla con buenos momentos dramáticos y algunos momentos divertidos.

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giovedì 14 marzo 2024

Televideoarte - Giorgio Cappozzo

 


 

In occasione degli Oscar, sul Televideo Io capitano di Matteo Garrone è descritto come un film dedicato a Francesco Schettino e alla Costa Concordia. Qui siamo oltre il refuso, oltre l’errore. È provocazione, è performance, tanto da chiedersi chi sia l’anonimo autore del gesto, il Banksy di Saxa Rubra: un pigro redattore le cui fonti giacciono tra i meme della rete? Un hacker della concorrenza? Oppure, e io tendo a questa ipotesi, è frutto di un uso disinvolto dell’intelligenza artificiale, che com’è noto pesca informazioni senza discernere? Eppure, tra quelle pagine su sfondo nero che stanno alla tv come i vinili alla musica, feticcio di chi coltiva antiche abitudini, la fusione tra la pellicola del momento e le vicende dell’improbabile marinaio arriva come un sussulto vitale. Televideo, nato quarant’anni fa, rappresentò per il servizio pubblico un anticipo di futuro: interagire con la scatola quando i telefoni avevano ancora il filo. Introdotto agli spettatori da Enzo Tortora, nel suo Portobello, Televideo ha sfornato pixel di rubriche, dalle notizie all’oroscopo alla celebre pagina 777, dedicata ai sottotitoli. Malgrado le ambizioni, ha sofferto di budget ridotti e di scarse attenzioni, condividendo con fax e cd rom la sorte che tocca alle invenzioni precoci. Per questo è facile immaginare che il Televideo affidi all’errore in forma di gesto estetico la rivendicazione del suo esistere, in un mondo distratto dal furore tecnologico.

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mercoledì 13 marzo 2024

Regina rossa (Reina roja) – Koldo Serra

Vicky Luengo e Hovik Keuchkerian sono i protagonisti (come lo erano nel bellissimo Antidisturbios, di Rodrigo Sorogoyen), con la regia di Koldo Serra.

una storia piena di misteri, tratta un romanzo Juan Gomez Jurado.

un film diviso in sette parti, e non riesci a smettere, e poi molto è da spiegare, il romanzo è il primo di una trilogia (tutta tradotta in italiano), aspettiamo altre due mini serie, no?

buona (sorprendente) visione - Ismaele




 

 

Regina Rossa è un vero successo di contenuto e stile, una commistione perfetta: la serie riesce a mantenere lo spettatore sul filo del rasoio, con una trama intrigante e piena di svolte sorprendenti che mantengono costantemente vivo l’interesse del pubblico. Inoltre, l’introduzione di elementi di umorismo inaspettato aggiunge un tocco distintivo e rinfrescante al genere, offrendo momenti di sollievo comico senza sacrificare l’intensità della suspense.

Lo show si distingue come una serie che offre un’esperienza coinvolgente ed emozionante per gli appassionati dei thriller polizieschi, grazie al suo abile utilizzo della dinamica del gatto e del topo, alla sua trama intricata e al suo equilibrio tra suspense, intrigo e umorismo.

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La adaptación cuenta con un elemento muy importante que hace que destaque: la gran química entre los protagonistas. Vicky Luengo y Hovik Keuchkerian funcionan a la perfección como dúo de investigadores, dependen completamente el uno del otro y forman así una especie de familia, algo disfuncional, pero que hace que el espectador conecte con su dinámica. Ambos actores se han volcado al máximo en los papeles y encarnan a Antonia Scott y Jon Gutiérrez a la perfección. Eso puede resultar increíblemente complicado, incluso intimidante, cuando tienes delante a dos personajes que forman ya parte de la cultura popular en nuestro país. Pero, ambos dan vida a estas dos almas perdidas, que estaban destinadas a encontrarse y a hacerse compañía mutuamente…

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Vicky Luengo y Hovik Keuchkerian no es la primera vez que trabajan juntos, ni que interpretan a policías, a ambos los pudimos ver en la genial serie de Sorogoyen y PeñaAntidisturbios. En Reina Roja sus personajes son muy diferentes, pero se han afrontado a ellos con el mismo talento e intuición con el que estos dos intérpretes suelen sorprendernos en sus trabajos.

Vicky Luengo está soberbia como Antonia Scott. Su personaje está cargado de peculiaridades físicas y conflictos internos que la actriz hace suyos y les otorga de una naturalidad fascinante. Consigue que nos creamos su personaje y que queramos saber cuál será su futuro y qué pasado es ese que parece atormentarla.

Hovik Keuchkerian también está muy bien como Jon, pero quizá su personaje adolece de algo que encontramos durante la serie: diálogos artificiales y chistes poco graciosos que no acaban muy bien de funcionar, ni en el personaje de Hovik, ni en la trama de la Reina Roja

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