giovedì 30 novembre 2023

La propaganda di Hollywood a beneficio dell’immagine USA - John Kleeves

 

FORREST GUMP E JEAN SEBERG

La propaganda di Hollywood a beneficio dell’immagine USA

di John Kleeves

dal sito sitoaurora.altervista.org
(l’articolo è stato scritto nel 1999!)

Due premesse:

La prima è la mia solita: io sostengo che la filmografia statunitense ("Hollywood") è una filmografia di Stato, controllata sin nei dettagli dalla United States Information Agency (USIA), un’Agenzia federale pubblica nell’esistenza ma segreta nell’operatività (come la CIA) istituita nel 1953 allo scopo di creare nel pubblico internazionale una precisa ancorché falsa immagine degli Stati Uniti.

L’Agenzia, che non si occupa solo di Hollywood, ora conta sui 30.000 dipendenti ed ha sede al 301 IV South West Street di Washington; il direttore si chiama Joseph Duffey. Il fatto che i critici cinematografici di professione abbiano mancato di notare tale collegamento dipende dalla loro visuale limitata, e da una acquiescenza con la Grande Potenza che ha fatto loro reprimere – più o meno consciamente – quei sospetti sull’indipendenza di Hollywood che sicuramente spesso gli affioravano in mente (non si fa carriera nei media italiani dicendo verità sgradite agli Stati Uniti). Io dunque analizzo i film di Hollywood per mostrare al pubblico gli elementi di propaganda politica e culturale di cui sono stati caricati dall’USIA.

Mi pare la prima cosa che si debba dire di questi film. La seconda premessa è una rapida biografia di Jean Seberg, necessaria perché pochi ricordano questa attrice eppure grande diva degli anni Sessanta. La Seberg nacque il 13 novembre 1938 a Marshalltown (Iowa). Giovane bellissima e assai fine, che portava i capelli biondi tagliati un po’ corti, debuttò nel 1957 con Saint Joan (Santa Giovanna) di O. Preminger e quindi lavorò regolarmente.

Fra gli altri film ricordiamo Bonjour Tristesse (Idem, 1958) sempre di Preminger; The Mouse That Roared (Il ruggito del topo, 1958) di J. Arnold, con P. Sellers; A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960) di J.L. Godard, con J.P. Belmondo; A Fine Madness (Una splendida canaglia, 1967) di I. Kershner, con S. Connery; Pendulum (Idem, 1969) di G. Schaefer, con G. Peppard. Per la fine dei Sessanta era una diva conclamata, al livello di Jane Fonda, e arrivò all’apice nel 1970, quando uscirono ben quattro film che la vedevano protagonista: il grande successo Airport (Idem) di G. Seaton, con B. Lancaster, D. Martin, V. Heflin, J. Bisset e G. Kennedy; Paint Your Wagon (La ballata della città senza nome) di J. Logan, con C. Eastwood e L. Marvin; Macho Callaghan (Idem) di B. Kowalski, con L.J. Cobb; e la produzione italiana Ondata di calore di Nelo Risi.

Erano però gli anni del movimento per i diritti civili dei neri e delle Pantere Nere.

L’FBI era stato incaricato dal Congresso di eliminare tali movimenti, usando i mezzi repressivi consueti per il regime statunitense: false accuse giudiziarie; persecuzioni dell’IRS (Internal Revenue Service, il fisco americano) e della DEA (Drug Enforcement Agency, l’antinarcotici); licenziamenti da parte dei datori di lavoro; diffamazioni; omicidi anonimi per strada compiuti da agenti travestiti.

Il programma preparato dall’FBI in merito era stato chiamato COINTELPRO, e in base ad esso erano stati fatti assassinare Malcom X nel 1965 e Martin Luther King nel 1968, mentre entro i primi anni Settanta tutti gli elementi trainanti – per un totale di alcune decine – venivano soppressi con agguati in strada (Huey Newton sfuggì sino al 1983, quando fu ucciso a Los Angeles; Abbie Hofmann riparò all’estero ma nel 1989 tornò e fu ucciso con una iniezione che provoca un arresto cardiaco senza lasciare tracce; Bobby Seale fu incarcerato sino al 1997; Ira Einhorn, latitante all’estero dal 1979 perché accusato di aver ucciso la sua ragazza Holly Maddox, uccisa invece si sa da chi, è stato fermato in Francia nel gennaio del 1999 e attende l’esame della richiesta di estradizione degli Stati Uniti) [E’ stato poi condannato all’ergastolo per l’uccisione della Maddox, uccisa in realtà da agenti della CIA che volevano incriminarlo, come inutilmente sostenuto dalla difesa nel corso del processo, NdR].

La tecnica della diffamazione veniva usata con larghezza.

Nel 1967 il produttore Robert Maheu fabbricò per conto dell’FBI, di cui era informatore abituale, uno spezzone porno apparentemente ripreso da una telecamera nascosta, dove protagonista era un sosia di King. Si era trattato di una operazione del tutto analoga a quella compiuta nel 1957 nei confronti del presidente dell’Indonesia Sukarno, sempre realizzata tramite Maheu. Anche la cantante Eartha Kitt subì trattamenti del genere nell’ambito di COINTELPRO.

La Seberg in privato era sempre stata simpatizzante del movimento dei neri e raggiunta la grande notorietà nel 1970 pensò di usarla per pubblicizzare la causa.

L’FBI la inserì nelle liste di COINTELPRO, e poco dopo venne da sé una occasione di diffamazione: la Seberg era incinta e al momento adatto l’FBI concertò una campagna di stampa insinuando che il padre era un leader delle Pantere Nere.

Appresa la notizia la Seberg entrò nelle doglie e diede alla luce un bambino prematuro che morì tre giorni dopo, l’8 settembre 1970. La donna, sgomenta per tanta malvagità, non riuscì mai a superare il trauma; tentò subito il suicidio, e di lì in poi avrebbe ripetuto il rito ad ogni anniversario della morte del piccolo. Intanto tutti in America l’avevano abbandonata; nessun produttore poteva offrirle parti, nessuno dei colleghi di ieri – Eastwood, Lancaster, Marvin, Peppard, Connery, Sellers e così via – si azzardò ad offrirle sostegno, anche solo morale.

La Seberg fu portata in Europa, dove alcuni cercarono di aiutarla facendola lavorare. Girò così l’italiano Questa specie d’amore (1971) di A. Bevilacqua, con U. Tognazzi e F. Rey; il francese Kill (1971) di R. Gary, con J. Mason e S. Boyd; lo spagnolo L’altra casa ai margini del bosco (1973) di J.A. Bardem; il francese L’attentato (1973) di Y. Boisset, con J.L. Trintignant, M. Piccoli, P. Noiret, G.M. Volontè; il nominalmente anglo-americano Il gatto e il topo (1974) di D. Petrie, prodotto per la TV dall’amica Aida Young; il francese Prossima apertura casa di piacere (1974) di D. Berry. Il suo ultimo film, il trentesimo della carriera, fu Bianchi cavalli d’agosto (1975) di R. Del Balzo.

L’8 settembre 1979, a Parigi, il suo decimo tentativo riusciva e moriva suicida. Da allora l’USIA ostacolò la riprogrammazione dei suoi film ovunque potè, certo in Italia, perché la gente non doveva focalizzare sulla donna e la sua vicenda. Ecco perché pochi ora ricordano Jean Seberg.

Si può anche notare che Paolo Limiti, un adoratore di Hollywood e delle sue bionde star del passato, nella sua trasmissione su Rete 2 " Ci vediamo in TV " non nomina mai questa attrice.

Siamo pronti per Forrest Gump.

E’ un film inquietante e pericolosissimo, perché non solo oltremodo carico di propaganda politica e culturale, ma anche costruito con tecniche subliminali sopraffine e atte a danneggiare.

Racconta la singolare vita di un americano di nome Forrest Gump, semi ritardato e da bambino poliomielitico, cui capita di avere contatti pure fugaci con molti grandi personaggi e di partecipare agli eventi storici nodali del suo tempo. In pratica tramite Forrest si fa una carrellata di trenta anni di storia americana, diciamo dal 1955 al 1985, dandone senza farsi accorgere una valutazione precisa. Il film è del 1994 ed è anche stato trasmesso dalla televisione di Stato italiana, per cui non è necessario dilungarsi sulla trama.

Ecco gli elementi di propaganda intenzionale che sono presenti nel film:

1 – Forrest è descritto come gli USA vorrebbero che il mondo credesse l’americano tipico: forse poco intelligente ma onesto e ben intenzionato, candido sino all’ingenuità; uno che se fa il male lo fa per stupidità o per eccesso di zelo.

E’ propaganda culturale, perché l’americano tipico è l’opposto; è astuto, cinico e mal intenzionato, e quando fa il male – pur ridendo, come in genere – sa di farlo. Serve perché gli americani amano fare gli sprovveduti per "non pagare il dazio", come si dice qui: dopo avere compiuto una nefandezza, mettiamo un colpo di Stato o una strage di civili, sono dispostissimi ad attribuirla al loro "zelo anticomunista" forse eccessivo, a "informazioni incomplete o sbagliate", a "bombe intelligenti" che con falsa ritrosia ammettono qualche volta difettose, anche a pura e semplice dabbenaggine.

Tutto pur di non dire: abbiamo sovvertito e abbiamo ucciso perché così avevamo programmato per la nostra convenienza. Non dico che non esistano americani come il Forrest del film. Esistono in verità, e si possono anche prendere a modello per un film. Frank Capra lo ha fatto molte volte. Ma averne inserito uno come protagonista di un film come questo non può che essere una scelta precisa e maliziosa.

2 – Attraverso l’abile montaggio di filmati d’epoca vediamo Forrest in contatto con i presidenti Kennedy, Johnson e Nixon. Ci sono più strati di falsità. Sono presentati come incontri di un uomo comune con il Potere incarnato e così si dice implicitamente che i presidenti americani comandano. I presidenti americani invece non contano proprio niente. Il Potere negli Stati Uniti è detenuto dall’establishment imprenditoriale, in particolare dalle Multinazionali, e il presidente è solo un impiegato incaricato di fare i loro precisi interessi nel mondo, il che è la definizione di sempre della politica estera americana.

Gli Stati Uniti in effetti non sono una repubblica presidenziale; sono una dittatura dell’imprenditoria. Dire o suggerire che i presidenti americani comandano è propaganda. Quindi si presentano i tre presidenti secondo i soliti cliché: Kennedy idealista, democratico, ben intenzionato; Johnson populista, democratico, ben intenzionato; Nixon, disonesto, poco democratico, male intenzionato (e perciò sarebbe stato allontanato dalla carica, e cioè licenziato). Tutto falso: erano dei presidenti americani e perciò erano tutti uguali, tutti dediti a fare gli interessi all’estero dell’establishment, con i soliti metodi spietati.

Kennedy fece uccidere Ngo Din Diem; tentò di fare altrettanto con Castro (per 20 volte secondo quest’ultimo); diede impulso alla sovversione in Indocina; fece preparare l’orrendo programma quadro di manipolazione psicologica di massa che fu chiamato in suo onore CAMELOT (come i media americani chiamavano Kennedy, perché era " nobile " e " senza macchia " come un cavaliere della Tavola Rotonda; il programma The Quartered Man che fu usato dalla CIA per il colpo di Stato in Cile del 1973 faceva parte di CAMELOT).

Johnson fece mettere in scena l’incidente del Golfo del Tonchino e poi iniziò quei bombardamenti di civili in Indocina che alla fine, tirate le somme, avrebbero provocato 6 milioni di morti. Nixon era come loro, giusto meno simpatico, e fu licenziato solo perché aveva sancito la sconfitta nella Guerra del Vietnam.

3 – La sensazione della democraticità del sistema americano pervade tutto il film. Lo fa in maniera indiretta, dandola per talmente scontata da non meritare evidenziazioni. Come detto gli USA non sono affatto una democrazia. Sono un sistema totalitario, che si regge sull’esclusione dal voto di più della metà della popolazione e sulla repressione del dissenso. Sopra l’ho chiamata una dittatura dell’imprenditoria, e dire o suggerire che sono una democrazia è propaganda.

4 – Durante una manifestazione di "hippies" e di neri a Washington un uomo un po’ anziano e in divisa stacca goffamente la spina del megafono dell’oratore di turno.

E’ una inserzione di propaganda subliminale: suggerisce che eventuali boicottaggi alle manifestazioni progressiste degli anni Sessanta – dei pacifisti, dei figli dei fiori, dei neri – furono dovute ad iniziative estemporanee e personali di singoli benpensanti, sia pure magari appartenenti a qualche corpo statale o federale. Noi abbiamo invece avuto modo di vedere a proposito del movimento per i diritti civili dei neri che si trattò di ben altro, che si trattò di una repressione ufficiale, e violentissima benché surrettizia, ordinata dal Congresso.

5 – Nel film i movimenti degli hippies pacifisti e dei neri per i diritti civili sono potentemente diffamati. I loro happenings sono disordine, schiamazzi, ubriachezza, droga e intemperanze sessuali. Non è certo la parte "buona" dell’America. La parte buona è evidenziata da Forrest, che casualmente capita in una di queste manifestazioni vestito in alta uniforme (è in licenza dal Vietnam, dove faceva il suo dovere; mantiene la divisa perché – ci suggerisce la regia – ne è orgoglioso).

E’ proposto un party delle Pantere Nere, cui partecipa Jenny, l’amata di Forrest: alcool e droga e tutto il resto. Un giovane presentato come comunista, segretario della tal cellula, picchia senza apparente motivo Jenny; si sa come sono i comunisti. La salva Forrest, nella sua divisa. Non sono le opinioni del regista o dei produttori; è la propaganda dell’USIA.

6 – L’USIA ha stabilito nel 1978 con molta precisione come Hollywood deve rappresentare la guerra del Vietnam, sia dal punto di vista politico che militare tecnico. Non posso dilungarmi e mi limito all’essenziale. Politicamente va detto, o dato per sottinteso, che gli USA intervennero per difendere il Sud dalla minaccia comunista. Dal punto di vista militare non andavano assolutamente mostrati i bombardamenti di civili e tutta la guerra andava ridotta a una guerriglia nella foresta, con piccole pattuglie americane che si difendevano da proditori attacchi di elementi non in divisa. Panzane naturalmente, propaganda.

Gli USA intervennero per assicurare alle loro Multinazionali le risorse del paese e dell’Indocina tutta; interessavano particolarmente le foreste di alberi della gomma, buoni per fare i pneumatici. I bombardamenti di civili erano quotidiani, e così per anni. E la guerra fu una classica guerra moderna, risolta non dai guerriglieri Viet Cong ma dalle artiglierie e dalle divisioni corazzate, meccanizzate e di fanteria dell’esercito regolare del Vietnam del Nord.

E’ importante invece fare credere che si sia trattato unicamente di guerriglia: si giustifica in qualche modo l’esito del conflitto. Invece ammettere una guerra "regolare" rivelerebbe una verità che gli USA vogliono nascondere a ogni costo: la congenita e stupefacente debolezza delle loro forze di terra, che non sono in grado di battere nessun avversario, praticamente (nel 1968, l’anno dell’offensiva del Tet, quando i carri armati nord vietnamiti giunsero a Saigon, 540.000 equipaggiatissimi soldati americani appartenenti a 51 divisioni, appoggiati da una potentissima aviazione e serviti da 850.000 ascari sud vietnamiti, avevano a che fare con il seguente avversario: 87.400 regolari nord vietnamiti ripartiti in 10 divisioni, 56.000 Viet Cong, altri 69.000 guerriglieri sciolti, e 50.800 elementi non combattenti addetti a trasporti, sanità, propaganda e così via). Forrest va alla guerra in Vietnam e le sue vicende concordano con la versione USIA, come per tutti gli altri film di Hollywood è ovvio.

Non si parla dei motivi della guerra, ma se ci fosse stato qualcosa di losco l’intelligente e democratico tenente Dan lo avrebbe detto, no?

Quindi il combattimento cui partecipa Forrest è tipico di quanto prescritto dall’USIA: la sua pattuglia cade in una imboscata di guerriglieri. Di carri armati nord vietnamiti che avanzano in file serrate e di carri armati americani abbandonati dagli equipaggi in fuga non c’è traccia.

7 – A parte come un cammeo va trattata una scena di Forrest in Vietnam. In una sequenza di pochi secondi si vede la pattuglia di Forrest avanzare in perlustrazione col fucile spianato in una risaia, fra i contadini sud vietnamiti che rimangono chini a lavorare sulle loro piantine tranquilli, come se niente fosse. E’ una scena di propaganda subliminale. Sembra innocua e invece trasmette un messaggio preciso: che i contadini sud vietnamiti – e i sud vietnamiti in generale – si fidavano degli americani, li consideravano alleati e amici.

Una falsità: i sud vietnamiti, e i contadini in particolare, erano terrorizzati dai soldati americani. Basti ricordare l’episodio di My Lai, una frazione del grosso villaggio sud vietnamita di Song My, dove nel novembre del 1968 la Compagnia "Charlie" dell’Americal Division sterminò tutti gli abitanti perché nei pressi erano attivi guerriglieri Viet Cong; le vittime furono 500, ed erano vecchi, donne e bambini perché gli uomini erano alla pesca. Esiste un filmato dell’operazione, girato da uno dei soldati americani. Da notare che Hollywood non ha mai tratto un film da tale episodio, che pure si presterebbe.

8 – Analoga la scena in cui il reduce tenente Dan presenta la nuova moglie a Forrest: nel doppiaggio italiano è definita una latino americana, ma ha tratti somatici indocinesi, addirittura vietnamiti (messaggio subliminale: i vietnamiti non ci tengono rancore, perché non abbiamo fatto loro nulla di male). Probabilmente, poi, nell’originale inglese la donna è proprio definita " vietnamita " e così è il doppiaggio nei paesi meno evoluti.

9 – Una sottile propaganda culturale è propinata da Forrest podista. Forrest corre a piedi per gli States senza mai dire nulla. La gente pensa che abbia un qualche messaggio da comunicare e diversi giovani cominciano a trotterellargli dietro in attesa. Dopo tre anni e due mesi Forrest finalmente si ferma ed i giovani pendono dalle sue labbra, ma lui dice: "Sono un po’ stanchino. Penso che tornerò a casa".

E’ una irrisione per coloro che attendono qualcosa dai pensatori, dagli ideologi, da tutti quelli che non ritengono soddisfacente il sistema americano e continuano a cercare. Per l’USIA il sistema americano è perfetto e chi spera di trovare alternative è un illuso. Occorre ricordare che un funzionario dell’USIA – uomini e donne culturalmente preparatissimi, veri intellettuali di regime – partecipa alla messa a punto finale della sceneggiatura di ogni film di Hollywood.

10 – Nel film c’è un chiaro elogio del capitalismo americano. Dopo il Vietnam, Forrest e il tenente Dan, uno semi ritardato e l’altro senza gambe, diventano miliardari con la Bubba Shrimp Company. Messaggio subliminale: sono due meritevoli e il sistema – che è giusto – immancabilmente li premia, sia pure dopo averli fatti penare un po’. Si fa di più. Si suggerisce infatti – sempre per via subliminale – che è Dio stesso a guidare tale sistema: provoca una tempesta che elimina la flotta peschereccia della concorrenza.

E’ l’idea fondamentale del Calvinismo, la religione americana: Dio fa arricchire i meritevoli, o gli insondabilmente prediletti, e manda a ramengo gli altri. Segue un po’ di propaganda subliminale a favore della Apple Computers: Forrest e il tenente Dan arricchiscono ulteriormente investendo in azioni di questa Multinazionale, che diventa veicolo di positività e quindi positiva anch’essa.

Diventati capitalisti consolidati i due fanno beneficenza: donano alla parrocchia Protestante locale, alla madre dell’amico nero Bubba morto in Vietnam, e fondano un ospedale a Bayoula, il paesino di pescatori di gamberi rovinati dalla tempesta divina. Nella vicenda è contenuta – di nuovo per via subliminale – una diffamazione dei neri: i pescatori di gamberi di Bayoula (paesino della Louisiana nel delta del Mississippi) sono tutti neri e sempre stati in miseria ma ecco, arrivano due bianchi a fare il loro mestiere e diventano miliardari.

11 – Come si vede il film fa grande uso delle tecniche subliminali per convogliare propaganda. Evidentemente un esperto in materia ha collaborato alla realizzazione dell’opera. Una tecnica subliminale sopraffina in effetti è anche usata per la "normale" costruzione della vicenda. Forrest ha una vita punteggiata da contatti personali, pure fugaci, con grandi personaggi pubblici: conosce Elvis Presley (cui addirittura ispira le caratteristiche movenze); incontra i presidenti John Kennedy, Lyndon Johnson e Richard Nixon (e ne innesca la caduta); partecipa casualmente ad una intervista televisiva di John Lennon; assiste all’attentato al governatore Wallace.

Occorre in qualche modo rendere verosimile tale sequela di eventi pubblici e si ricorre ad altri collegamenti più sotterranei, che riguardano accettabili concatenazioni di eventi sul piano privato e predispongono ad accettare anche quelle a livello pubblico. Il filo conduttore sono gli arti inferiori del corpo umano. Forrest bambino guarisce dalla poliomielite e diventa valido maratoneta. In Vietnam il tenente Dan lo ammonisce come prima cosa a tenere i piedi asciutti (le risaie).

Lo stesso tenente Dan perde proprio le gambe. Il collegamento con la sfera pubblica avviene col governatore Wallace, rimasto paralizzato nell’attentato, e su di una sedia a rotelle come il tenente Dan. Il tenente Dan alla fine cammina con delle protesi che richiamano gli apparecchi portati da Forrest bambino.

12 – E vengo al motivo per cui ho inserito nelle premesse una biografia di Jean Seberg. Perché la figura di Jenny Curran, l’amata di Forrest, è stata costruita in modo da evocare proprio lei. La vicenda di Jenny non è esattamente uguale a quella della Seberg, perché sarebbe troppo scoperto, e quindi inefficace se non controproducente (non sarebbe un’operazione subliminale…).

I punti di contatto però sono molti e qualificanti. Chi è la Jenny proposta nel film? E’ una giovane bionda e bella, sensibile e con propensioni artistiche, tendenzialmente una brava ragazza. Si mette però con gli hippies e i contestatori, e in particolare frequenta le Pantere Nere. Finisce così nella promiscuità e nella droga, e contrae l’AIDS. L’idea del suicidio comincia a farsi strada nella sua mente (la passeggiata sul balcone del grattacielo). Partorisce da single un figlio, che è di Forrest. Dopo qualche anno sposa Forrest e quindi muore.

I collegamenti sono: la collocazione temporale negli anni Sessanta/Settanta; il nome "Jenny" analogo a "Jean "; la somiglianza fisica di Jenny con la Seberg; le sue propensioni artistiche; la sua frequentazione delle Pantere Nere; il tema del suicidio; la gravidanza, e da single; la durata annosa di una angosciosa parabola conclusa con la morte. Questi collegamenti nel subconscio dello spettatore che in un angolo della memoria conserva qualche vaga nozione di Jean Seberg e della sua vicenda provocano con sicurezza l’identificazione, anche se a livello di coscienza non se ne accorge.

Perché è stata compiuta tale operazione?

L’obiettivo propagandistico del film è di proporre gli anni Sessanta/Settanta americani nel senso voluto dal regime; di riabilitarli. Se ci pensiamo sono gli anni peggiori per l’immagine americana dell’intero Novecento: movimento dei diritti civili e sua repressione; contestazione giovanile e sua repressione; Pantere Nere e loro sterminio; guerra del Vietnam e relative bibliche stragi di innocenti.

La vicenda di Jean Seberg fu all’epoca un avvenimento clamoroso, e negativo per il regime quasi come quelli accennati: era opportuno, dato che si facesse un film per riabilitare tutto il periodo, riabilitare anche gli aguzzini della Seberg.

Il personaggio di Jenny infatti riabilita il regime tramite la diffamazione che opera della Seberg. Il subconscio di quegli spettatori in cui si è verificata l’identificazione ragiona con la cieca meccanica che gli è propria: se Jenny è la Seberg allora la Seberg finì male perché con hippies e Pantere Nere imparò la droga e la promiscuità e di lì la disperazione e la gravidanza e il suicidio; non sapevo che avesse anche l’AIDS ma sì, può darsi.

La Seberg è diventata così un personaggio negativo, e se ebbe degli aguzzini questi non furono poi così inescusabili. Il lavorio del subconscio come si sa ha effetti a livello della coscienza (è per questo che l’USIA ricorre così spesso alla tecnica subliminale). Molti lettori italiani potranno obiettare di non aver mai sentito parlare di Jean Seberg. Può darsi, ma altri sì. Ci sono paesi poi dove la vicenda della Seberg ebbe eco maggiore che in Italia, inducendo strascichi più lunghi nella memoria. In Francia ad esempio, e senz’altro negli Stati Uniti; non tutti i critici cinematografici europei inoltre sono come quelli italiani, o come Paolo Limiti. L’USIA quando manipola sceneggiature non pensa solo all’Italia; pensa al mondo.

Povera Jean Seberg. Le diffamazioni dell’FBI l’uccisero. Ora anche le diffamazioni di Hollywood, sulla sua tomba.

Il personaggio di Jenny in Forrest Gump costituisce la prova provata, inoppugnabile, delle interferenze del governo statunitense nei prodotti finiti di Hollywood. In questo caso infatti è esclusa ogni altra ipotesi. Non può essersi trattato delle opinioni personali del regista o dei produttori: che interesse potevano avere Zemeckis, Tisch, Starkey o Finerman a falsificare, e in tale modo subliminale e premeditato – da specialisti della propaganda – la vicenda di Jean Seberg?

Solo l’USIA, per conto del governo statunitense, poteva avere interesse in una tale operazione. E’ la prima volta nella storia di Hollywood che l’attività dell’USIA viene dimostrata. Ciò è stato dovuto a un colpo di fortuna nostro: lo specialista in tecniche subliminali dell’USIA che ha lavorato sul film era troppo bravo ed ha ecceduto nei virtuosismi.

Lo stesso personaggio di Jenny in Forrest Gump rappresenta anche la sentenza più definitiva per i critici cinematografici non solo italiani, ma anche europei: era un messaggio in codice diretto all’inconscio degli spettatori e non l’hanno afferrato. Spero abbiano imparato cosa sono davvero i film di Hollywood.

da qui

mercoledì 29 novembre 2023

Io, lui, lei e l'asino (Antoinette dans les Cévennes) - Caroline Vignal

un piccolo film francese come solo loro sanno fare.

una storia d'amore, tradimenti, gelosie, inganni, coincidenze.

grande interpretazione di Laure Calamy, ma ancora di più lo è quella di Patrick, che interpreta se stesso. 

certo non è un capolavoro, ma si vede proprio bene, e dopo vorrete bene a Patrick quanto gliene ho voluto io.

buona (itinerante) visione - Ismaele

ps: in regalo una poesia di Francis Jammes

 

 

Fra le tante opere cinematografiche che stanno finalmente arrivando nelle nostre sale, merita sicuramente attenzione Io, lui, lei e l’asino, secondo lavoro di Caroline Vignal. Un titolo decisamente più bizzarro dell’originale Antoinette dans les Cévennes, che però coglie in pieno l’essenza del progetto, che si presenta come un classico triangolo amoroso, per poi spaziare fra diversi temi e registri. Protagonista assoluta di Io, lui, lei e l’asino è la sorprendente Laure Calamy (già vista nella serie Chiami il mio agente!), che regge spesso la scena da sola, con l’unico conforto di un testardo ma fedele asino, sua silenziosa spalla comica.

Antoinette (Laure Calamy) è un’insegnante parigina, che vive una relazione clandestina con il padre di una sua alunna. Al termine dell’anno scolastico, l’uomo annulla la settimana romantica già organizzata con Antoinette, in quanto la moglie ha prenotato nello stesso periodo nelle Cévennes con un asino, ispirandosi al celebre libro di Robert Louis Stevenson. In un impeto di ripicca, Antoinette prenota il medesimo viaggio. All’arrivo, incontra il suo compagno in questa avventura, l’asino Patrick, grazie a cui comincia a familiarizzare con i luoghi e con lo stile di vita del posto…

da qui

 

…La regista Caroline Vignal sembra proprio essere stata felicemente influenzata dal cinema del compianto Erich Rohmer, d’altra parte nella sua biografia si legge che è stata folgorata dalla visione de ‘Il raggio verde’. Come in quest’ultimo e nel ‘Racconto d’estate’, colloca temporalmente il film durante le vacanze estive ed omaggia il regista con questa commedia che ha il grande merito di essere leggera nella sostanza (come spesso il cinema rohmeriano risultava) e nella forma (su questo si discosta dal maestro).

La Vignal, anche sceneggiatrice e mestierante per la tv francese, fa notare i suoi trascorsi televisivi mettendosi in disparte e dirigendo senza inutili orpelli ‘confezionando’ un prodotto non banale, garbato e fruibile dal grande pubblico.

La aiuta nella causa la bravissima attrice Laure Calamy che ha meritato il premio Cesar in patria (il corrispettivo del nostro David di Donatello) per l’interpretazione femminile.

Come attrice secondaria ho riconosciuto con piacere l’anziana ma sempre affascinante Marie Riviere che mi ha riportato alla mente l’altro capolavoro rohmeriano ‘Racconto d’autunno’ del quale era l’attrice principale.

da qui


 

IL CAMMINO DI STEVENSON

Robert Louis Stevenson è noto al grande pubblico grazie a romanzi come L'isola del tesoro (1883) e Dottor Jekyll e Mister Hyde (1886). Ma nel 1878 non aveva ancora pubblicato nulla. A 28 anni, sognava di diventare uno scrittore, versava in cattive condizioni di salute e aveva una vita personale piuttosto complicata: sebbene vivesse in un ambiente benestante, dipendeva finanziariamente dal padre Thomas, un fervente calvinista che considerava scellerata la vita bohémien condotta dal figlio. E, come se non bastasse, era innamorato di Fanny Osbourne, una donna sposata e madre di due figli che conobbe in Francia, dove era arrivata per migliorare le sue tecniche di pittura con gl impressionisti di Barbizon. Si trattava di un grande amore destinato a concludersi nell'agosto del 1878 quando Fanny rientrò in California e lasciò Robert cadere in una profonda depressione.

Nel tentativo di dimenticare Fanny, il 22 settembre del 1878 il giovane scozzese partì per un viaggio nelle Cevenne. A Monastier-sur-Gazelle prese in affitto una piccola asina, Modestine, come compagna di viaggio. 12 giorni, 220 km e un paio di avventure dopo, arrivò a Saint-Jean-du-Gard. Al suo rientro, scrisse una sorta di cronaca del viaggio che, pubblicata nel 1879 con il titolo di Viaggio con un asino nelle Cévennes, gli farà guadagnare i soldi che gli consentiranno di raggiungere Fanny negli Stati Uniti e di sposarla, dopo che la donna ottenne il divorzio.

Con il tempo, il diario del viaggio di Stevenson è diventato un punto di riferimento e un oggetto di culto per gli escursionisti di tutto il mondo. Ha ispirato molti viaggi sui passi dello scrittore e della sua asina. Conosciuto come Cammino di Stevenson, il GR 70 attira ogni anno qualcosa come 10 mila escursionisti, desiderosi di seguire le orme del giovane scrittore scozzese innamorato della Francia.

da qui

 



Alla fine del film mi ritorna im mente una poesia bellissima di Francis Jammes, intitolata
 “Preghiera per andare in Paradiso con gli asini”:

Quando dovrò venire a voi, mio Dio, fate che sia un giorno in cui la campagna in festa sarà piena di polvere.
Desidero, come feci quaggiù, scegliere un sentiero per andare, come a me piacerà, in Paradiso, dove ci sono le stelle in pieno giorno.
Prenderò il mio bastone e sulla grande strada andrò e dirò agli asini, miei amici: -Io sono Francis Jammes e vado in Paradiso, perché non c’è l’inferno nel paese del buon Dio.
Dirò loro: Venite, dolci amici del cielo blu, povere care bestie che, con brusco muovere d’orecchio, cacciate le vili mosche, le botte e le api.
Che io vi appaia in mezzo a queste bestie che amo tanto perché abbassano la testa dolcemente, e si fermano giungendo i loro piccoli piedi in modo cosi dolce e che ispira pietà.
Arriverò seguito dalle loro migliaia d’orecchie, seguito da quelli che portano al fianco delle ceste, da quelli che tirano carrozzoni di saltimbanchi o carri di latte e spolverini, da quelli che portano in groppa bidoni ammaccati, dalle asine piene come otri, dai passi rotti, da quelli a cui mettono piccoli pantaloni a causa delle piaghe blu e trasudanti che fanno le mosche ostinate che vi si ammassano intorno.
Mio Dio, fate ch’io venga a voi con questi asini.
Fate che in pace, degli angeli ci conducano verso ruscelli frondosi dove tremano ciliegie lisce come la pelle ridente delle ragazze, e fate che, chino su questo soggiorno d’anime, sulle vostre divine acque, io sia uguale agli asini che specchiano la loro umile e dolce povertà nella limpidezza dell’amore eterno.

lunedì 27 novembre 2023

La chimera – Alice Rohrwacher

il cinema di Alice Rohrwacher è sempre un cinema dalla parte degli ultimi, La chimera è un'epica dei poveracci tombaroli, ai quali restano le briciole delle ricchezze che portano alla luce; i ricettatori, gente rispettabile, sfruttano i tombaroli, senza correre i loro rischi.

si racconta la storia di un gruppo di poveri emarginati, nelle campagne di un paesetto toscano (in realtà il film è girato a Blera, in provincia di Viterbo), ricco di tombe etrusche.

si rivede in scena un'anziana Isabella Rossellini, in una parte di ricca decaduta, in attesa di una figlia ormai morta, circondata da figlie serpenti, che aspettano solo che schiatti, o che almeno sia rinchiusa in un ospizio, per rubare meglio.

il paeseggio è quello di un territorio (o una nazione?) con un grande avvenire dietro le spalle dove l'offerta lavorativa è quella dell'operaio in una fabbrica chimica, che avvelena l'ambiente, lavoratori e abitanti compresi (la Toscana è una delle regioni più inquinate dai Pfas).

alla fine, come dopo una tragedia epocale, una comunità di donne e bambini potrà far rinascere la speranza di una vita degna.

il film è in una settantina di sale e merita di sicuro la visione - Ismaele


 

 

Temi e suggestioni sono notevoli, spesso però da inseguire nella lunga elaborazione del lutto che in qualche maniera racconta il film. Nel quale sembrano esserci troppe deviazioni e parentesi, troppi film nel film, linee narrative (geniale e felice quella del cantastorie che appare a più riprese) che si intrecciano alla principale. Effettivamente come accade nella vita, di tutti noi, che si interrompe, riprende, cambia direzione, e spesso si ferma a seguire altre suggestioni, possibilità o urgenze.

Anche lo stile, è quello proprio della regista, che torna a utilizzare le tonalità tanto amate e a guardare verso i diseredati, gli innocenti loro malgrado, la natura e le sue creature. Una comunità ideale nei quali perdono di senso i confini, tanto spaziali quanto temporali, e le regole, dell’uomo e di una società che non ha rispetto di nulla e nessuno. Nella quale non è banale che siano le donne a offrire e cercare un’alternativa, e a mostrare – come detto dalla stessa Rohrwalcher – una attitudine diversa nella costruzione delle cose, che dia loro una vita nuova. Una donna apre e chiude il film, d’altronde, a una donna è affidato il colpo di scena del plot, donne diverse caratterizzano il percorso esistenziale di Arthur, dall’Italia di Carol Duarte alla Flora di Isabella Rossellini, in un ruolo di poca presenza ma di indubbio peso…

da qui

 

…La parte che colpisce di più del film di Alice Rohrwacher è senza dubbio quella finale, che tira molto bene le somme di quanto mostrato in precedenza. In una sequenza toccante e visivamente sorprendente, il confine tra vita e morte si confonde definitivamente, chiudendo l’arco narrativo del protagonista nell’unico modo possibile.

Di scene particolarmente affascinanti nel corso di quest’opera ce ne sono diverse, momenti che rimangono impressi e a cui si ripensa anche a visione ultimata: tra questi ricordiamo quella del viaggio in treno di Arthur e dei tombaroli, in cui il protagonista si ritrova a chiacchierare con anime alla ricerca del loro corredo funerario saccheggiato, o quello della scoperta della statua delle divinità etrusca, in una camera dipinta le cui meraviglie sono rimaste sigillate per millenni. Ma a cui basta pochissimo, l’aria del presente e l’arrivo delle mani avide dei tombaroli, per essere rovinate per sempre.

da qui

 

 

domenica 26 novembre 2023

Cento domeniche - Antonio Albanese

come tutti gli attori bravi, Antonio Albanese riesce a eccellere nell'interpretare ruoli comici, ma è bravissimo anche nei ruoli drammatici, come in questo film.

Antonio è un operaio in pensione, senza troppe pretese, vive con la mamma che ha l'Alzheimer, è in pensione, è separato, gioca a bocce, è amantedi una donna ricca, ha qualche gallina, aspetta il matrimonio della sua unica figlia, non ha nemici, è una brava persona.

è una storia dalla parte degli ultimi, umiliati e rapinati da un sistema finanziario criminale, fatto di ladri e delinquenti, a tutti i livelli. Antonio è uno dei poveri risparmiatori che si sono fidati della propria banca*, perdendo tutto.

il film è un grido di dolore, e non c'è niente da ridere, purtroppo.

il film è "stranamente" in più di 300 sale, non lasciate le poltrone vuote, è un film che merita. 

buona visione - Ismaele

*https://www.labottegadelbarbieri.org/il-risparmio-tradito/

ps: nel colloquio di Antonio col direttore della filiale, costui parla di interessi sulle azioni, è un grave errore dal punto di vista logico-finanziario, o è sfuggito, o gli autori volevano sottolineare l'ignoranza del direttore, chissà...

 

 

Al centro della trama di Cento domeniche, ambientata in un’imprecisata, tranquilla città di provincia, c’è il personaggio di Antonio, interpretato dallo stesso regista: arrivato al pre-pensionamento, dopo aver lavorato per decenni come tornitore nella fabbrica locale, l’uomo riceve la bella notizia che sua figlia Emilia sta per sposarsi col suo compagno. Sia Antonio che la sua ex moglie, con cui l’uomo è rimasto in ottimi rapporti, sono felicissimi per la ragazza: Antonio, tuttavia, è irremovibile nella decisione di farsi carico interamente dei costi del ricevimento di nozze, per organizzare il quale decide di impiegare i risparmi che ha depositato nella banca locale. Quando si reca nell’istituto spiegando di aver bisogno di liquidità, tuttavia, Antonio si trova di fronte al fare evasivo del nuovo direttore, che lascia presagire che la banca stia attraversando un periodo non proprio positivo. Mentre le voci su una crisi dell’istituto si rincorrono, e i giornali dipingono un quadro fosco, l’uomo è sempre più preoccupato: ma Antonio non può credere che la banca del paese, che per decenni ha retto da sola l’economia locale – ed era per i correntisti come “un confessionale” – possa essere sul punto di fallire. Tuttavia, i fatti si incaricheranno presto di smentire il suo ottimismo…

da qui

 

Antonio Albanese non si limita solo a costruire il racconto e raccontarcelo con uno stile sobrio, asciutto, efficace, ma si carica sulle spalle il ruolo drammatico del protagonista, uomo comune, ex operaio come tanti, con sogni altrettanto semplici ma non per questo meno importanti. Un ruolo delicato che l'attore incarna senza lasciarsi andare a eccessi, senza steccare il tono del racconto e mettendosi al servizio della storia, della sua nuova storia da regista con la giusta umiltà e distanza. Non è un film che ha particolari guizzi nella costruzione del racconto e della messa in scena, è vero, ma è altrettanto evidente che l'Antonio Albanese regista dimostri ancora una volta un occhio, uno sguardo capace di trasmettere sensazioni, emozioni e tematiche della storia che va a costruire. Lo fa da regista, lo fa da attore, riesce a ottenerlo dal resto del cast, tutto in parte e capace di trasmettere allo spettatore l'empatia necessaria a comunicare l'importanza del tema e delle sue ripercussioni sociali…

da qui

 

Antonio Albanese nel suo acuto discorso disegna uno scenario disarmante in cui è compresa anche una riflessione sulle classi sociali, i suoi dislivelli, il grande gap che vi è fra queste e le ingiustizie radicate. La sua regia è netta, così come la sceneggiatura che cura insieme a Piero Guerrera: niente è lasciato in sospeso, ma soprattutto alcuna sequenza gioca sull’eccesso o la teatralità. Il picco emotivo Albanese lo confina nel climax finale, sentito, giusto nei tempi, forte, accorato e commovente, in cui si concentra tutto il senso del film e il malessere del protagonista che, di riflesso, invade anche lo spettatore. Il quale, inevitabilmente, dopo il crescendo di tensione e apprensione, è più capace di assorbirlo. Come se fosse lui. E in fondo lo è. Perché Cento Domeniche non è un film dedicato solo a coloro che sono finiti nel vortice del crac. È dedicato a tutti gli italiani che, sostanzialmente, hanno perso la fiducia. E questa concretezza, questo realismo dell’opera, non possono che fare male.

da qui

 

…Alla sua quinta regia cinematografica, Albanese racconta il quieto, angosciante disorientamento delle persone perbene messe di fronte ai paradossi di sistemi sempre più malati, attraverso un’opera agrodolce. Tanto toccante, commuovente e retorica nel messaggio, quanto feroce e disperata negli intenti.

Due anime filmiche irrimediabilmente contrastanti, spesso in disequilibrio nel delicato reticolato narrativo di Cento Domeniche, che vede Albanese scegliere la via della sensibilità nel narrare una storia dalla portata universale come quella dei piccoli risparmiatori vittima di crack finanziari. Una pellicola figlia diretta del corso drammatico della carriera di Albanese inaugurato con quel Grazie Ragazzi scritto e diretto da Riccardo Milani incentrato tutto sulla vita in carcere come un grande teatro dell’assurdo – e di cui Albanese era l’anima e il cuore pulsante del racconto – e che qui appare ancora più cupo, incisivo e incredibilmente riuscito.

da qui


 

sabato 25 novembre 2023

IL RITORNO DI KEVIN SPACEY - Silvia Ingusci

 

Le sporadiche volte in cui, negli ultimi anni, Kevin Spacey è apparso in pubblico sono sempre state, per me, un’occasione per chiedermi a quanto siamo disposti a rinunciare in termini culturali e artistici per mettere a tacere, se pure momentaneamente, il senso di colpa nei confronti delle vittime della violenza di genere.

Kevin Spacey è uno dei migliori interpreti della sua generazione e dal 2017, da quando cioè l’attore Antony Rapp lo accusò per primo di aver subito molestie sessuali a quattordici anni (Spacey all’epoca ne aveva ventisei), non partecipa più a nessuna produzione – anzi, è stato letteralmente licenziato in tronco da quelle che aveva in corso non appena emersero le accuse. Quando provò a difendersi, dopo essersi scusato pubblicamente con Rapp per il proprio comportamento di allora, lo fece con una dignità rara, interpretando – per l’ultima volta, finora – il suo iconico personaggio di Frank Underwood: respinge le accuse che lo coinvolgono e chiede agli spettatori di «non correre alle conclusioni senza prove o formulare un giudizio senza fatti» e, con piglio spiccatamente underwoodiano, sfonda la quarta parete per dire a tutti che non intende pagare per azioni che non ha commesso.

Sembrava quasi pensare che la sua bravura gli avrebbe consentito di attraversare indenne le acque dello scandalo, come se il suo riconoscimento artistico avrebbe potuto salvarlo dalla pruderie scatenatasi a Hollywood nel periodo in cui tutti i produttori si affannavano ad allontanare da sé qualsiasi sospetto di comportamenti affini a quelli del re detronizzato Harvey Weinstein. Come poi hanno dimostrato sei anni di gogna mediatica e disoccupazione, il suo talento non è bastato.

Adesso però che gli avvocati di Rapp non sono riusciti a dimostrare che il loro assistito fosse stato effettivamente molestato da Spacey e che l’attore due volte premio Oscar è stato definitivamente dichiarato innocente sia in Inghilterra che negli Usa, il MeToo deve improrogabilmente fare i conti con i propri demoni. Kevin Spacey è stato la vittima più illustre e ora, secondo i giudici, anche la più innocente di un movimento che, dalle legittime sponde da cui era salpato, è spesso rimasto invischiato in acque torbide, dimostrandosi più spesso puramente dimostrativo che realmente utile. È sembrato, in alcuni casi, che lo sforzo per il raggiungimento della parità di genere consistesse nello smascheramento periodico e “a campione” di qualsiasi maschio bianco che avesse in qualche misura rivolto le proprie attenzioni a qualcuno, additandolo come molestatore e stupratore, distruggendogli la vita ben prima che potesse farlo, legalmente, un tribunale.

Questo piglio iper-borghese, scandalizzato e moralistico tipico della cultura anglosassone, a cui gli americani sono affezionati dai tempi delle “lettere scarlatte” a quelli del maccartismo, lungi dall’essere risolutivo dal grave fenomeno delle molestie sessuali subite da donne e uomini nel mondo dello spettacolo, è anzi dannoso per il movimento stesso, perché lo incanala in una serie di logiche censorie che gli tolgono credibilità, umanità e valore.

Inoltre, come accade spesso anche in questa remota provincia dell’impero americano che è l’Italia, quando una figura in vista della nuova militanza di sinistra (leggi: influencer) prende la parola per i diritti civili, finisce spesso per polarizzare il dibattito: radicalizza la sua fanbase e allo stesso tempo crea un fronte contrario di “impopolari” liquidati come indesiderabili retrogradi. In altre parole, il popolo delle vittime, sostenuto molto più nelle parole e nelle Instagram Stories che nei fatti, e quello dei carnefici, indignati custodi dei principi cis-eurocentrici e fieramente pronti a battersi fino alla morte per difendere quel che resta dell’Occidente. Il ruolo di vittima è quindi contesissimo da questi due opposti schieramenti: da un lato le minoranze che rivendicano giustamente il loro diritto a emanciparsi dalle logiche patriarcali, dall’altro i conservatori “senza peli sulla lingua” che si dipingono come vittime del politicamente corretto anche quando ritengono che insultare gratuitamente persone o categorie sia espressione di massima emancipazione intellettuale. In questa paradossale “cultura del piagnisteo”, per dirla con le parole di Robert Hughes, la vera vittima è l’Arte.

Quando quest’anno Kevin Spacey ha ricevuto il premio Stella della Mole, alcune associazioni femministe hanno criticato la scelta della giuria perché a loro avviso inopportuna rispetto alla situazione giuridica del premiato, lasciando che a destra si intestassero battaglie che dovrebbero essere prive di colore politico, come quella, appunto, per il riconoscimento dei meriti artistici di un individuo.

È stato detto che Spacey, nella posizione di attore affermato, ha esercitato una sorta di violenza psicologica e “di ruolo” nei confronti di un collega agli esordi della propria carriera. È senz’altro possibile, ma qui si entra nel campo delle supposizioni, della parola di Rapp contro quella di Spacey e, soprattutto, ci si inoltra nelle pericolose paludi della censura: demonizzare il desiderio, censurare automaticamente come violenti i normali, civili, insopprimibili flussi ormonali è un’operazione che abbiamo iniziato a condannare pubblicamente almeno negli anni ’60.

La domanda cruciale è come sia possibile giudicare la carriera di un grande attore con una specie di termometro della moralità, sovrapponendo pericolosamente l’arte all’etica, poiché la prima, se non è propaganda, ha un suo statuto autonomo che risponde primariamente all’estetica.

Perché a sinistra ci sentiamo in diritto di giudicare una persona più dal punto di vista morale che sul piano politico o artistico? E se giudicassimo moralmente Picasso perché era un misogino o Marco Tullio Cicerone perché possedeva degli schiavi, dovremmo allora dimenticare le loro opere? Dovremmo forse smettere di leggere Lolita di Nabokov – di fatto la storia di un pedofilo – e cancellarlo dalle antologie, bruciarlo nelle piazze? Non lo facciamo, per fortuna, perché riconosciamo che l’arte non ha tra le sue prerogative quella di essere nobilitante, educativa o patriottica. È pericoloso avallare senza spirito critico questa “cultura della vittima”, la tendenza a definire una categoria sociale (sì, finanche una minoranza penalizzata) solo in funzione dei suoi traumi. Si finisce con l’essere inghiottiti in una spirale di rabbia infantile. E con la rabbia viene meno l’intelligenza, e con l’intelligenza la libertà.

da qui