in un posto dimenticato da dio, nelle montagne dell'Anatolia, in un villaggio quasi deserto (lo spopolamento colpisce dappertutto), con una strada non asfaltata, di cui quel villaggio è il capolinea, isolato per la neve d'inverno, c'era un padre di famiglia ormai vecchio, vedovo, le cui tre figlie erano andate a servizio in qualche famiglia di città, come capita in tutti i sud del mondo.
per i casi della vita le tre sorelle si trovano di nuovo al villaggio, una ha avuto un figlio (clandestino), le altre due hanno perso il lavoro.
e vogliono fuggire ancora da quel posto ormai morto, per farsi un'altra vita.
è un film universale, tutti lo capiscono (con i sottotitoli, naturalmente), un gran film, bello e terribile.
buona (al capolinea) visione - Ismaele
…Un cuento de tres
hermanas es una película
lacónica, de personajes atrapados y confrontados en medio de lugares
inhóspitos. Pero es una película bella y hermosa. Quizás su mayor defecto es un
ritmo en exceso pausado, que aunque interesante resulta tediosa en algunos
momentos. No obstante es una película que merece la pena y ofrece una visión
del cine diferente. Es importante acercarse a otro tipo de cinematografías que
no suelen ser las más populares, pero que sin embargo tienen mucho que ofrecer.
… La historia transcurre en Anatolia, bajo
el techo de una humilde aldea, estamos en los años 80 y vamos viendo desde el
principio la vida de tres jóvenes, cuya existencia depende de las decisiones
que toman los hombres que las rodean. Ellos planifican todo lo que tienen que
hacer, sin consultarles, mientras ellas tienen otros sueños. Las jóvenes son
Reyhan, de 20 años, Nurhan, de 16 y Havva, de 13. Viven junto con su padre y
con el analfabeto y pobre esposo de Reyhan, pastor de profesión, con quién se
casó precipitadamente para disimular un embarazo de otro hombre. En la cultura turca era muy habitual que las
familias ricas acogieran a mujeres jóvenes y pobres. Teóricamente eran chicas
acogidas y solían llamar padre y madre a los cabezas de familia, los cuáles las
estaban dando la oportunidad de cambiar sus vidas, pero en realidad eran
simplemente unas criadas. Las tres protagonistas se fueron de sus casas para
ejercer de criadas, pero tuvieron que volver por distintos motivos.
La mayor tuvo que volver a causa de un embarazo
no deseado, la pequeña debido a la repentina muerte del niño al que cuidaba, y
la mediana por haber castigado a su "hermano" por hacerse pis en la
cama. El futuro para ellas es verdaderamente negro. El padre no deja de
buscarles un futuro mejor, pero la verdad es que no se lo ponen nada fácil. Durante gran parte de su visionado me recordaba
mucho al cine de Nuri Bilge Ceylan, sobre todo a "Sueño de invierno" y "El peral salvaje". La película es bastante dura,
cuesta entrar en la historia y empatizar tanto con las decisiones del padre
como con las actuaciones de las hijas. En definitiva, estamos ante un bello
relato de mujeres condenadas de por vida. Muy recomendable.
con il solito sguardo tragico e umoristico insieme Avi Mograbi mostra cosa succede in Israele normalmente, il razzismo e l'odio aperto verso i palestinesi, il trattamento della polizia verso di loro.
spesso come dice il titolo quelli che sembrano momenti apparentemente tranquilli non sono pace, ma prodromi di un qualche conflitto ad alta intensità.
Avi Mograbi, a filmmaker known for both his strong political
opinions and his sense of humor, decides to document the anger and unrest he
witnesses in his homeland of Israel during August of 2001. Using only
a video camera—no script, no cast, no crew—Mograbi tries to make sense of
the complex problems facing Israel. A deeply personal film, August: A Moment Before the Eruption is,
like its director, at turns tragic and comic.
A blackly comic rumination on the state of mind of Israel in
summer 2000, the acerbic and eerily prophetic “August” captures a snapshot of
the Jewish nation just prior to the hostilities that broke out two months
later. Even those accustomed to director Avi Mograbi’s signature variations on
the “personal diary” format may find “August” disconcerting, ending as it does
with an implied psychological and cinematic meltdown. Half documentary, half
intentionally fake psychodrama, film alternates man-in-the-street vignettes
with increasingly bizarre confessional speeches made directly to the camera,
the two modes merging pointedly as pic progresses. Winner of the peace prize at
Berlin fest, piece features a bleak insider portrait of Israel that will appeal
to the director’s fans, but is unlikely to gain him new adherents on this side
of the Atlantic. Arthouse or indie cable play may depend on changes in the
American perception of the Middle East.
Steven Spielberg dipinge il (suo) ritratto dell'artista da giovane.
l'amore per il cinema, non un hobby, nasce da lontano, lui non vuole ritrarre ciò che vede, ma controllarlo, rivederlo, (ri)montarlo, interpretare, dare un senso a quello che si vede (e a quello che non si vede).
cresce in una famiglia di origine ebraica, e assaggia l'antisemitismo nella civilissima California, e dal bulismo si sava con il cinema.
la festa di fine anno scolastico diventa il salto di qualità, la potenza delle immagini in movimento, della loro rappresentazione, del loro montaggio gli fanno capire che quella è la sua strada, l'università fa schifo, e quando ormai non ci crede più ha la sua grande occasione, quando arriva lui c'è e da lì inizia la sua vita di uomo con la cinepresa, per sua e nostra fortuna.
ottimi interpreti, ottima regia, un grande film, da non perdere.
buona visione - Ismaele
…Centrato sul suo personaggio e sulla sua
famiglia, i suoi eroi hanno uno spessore reale, una vera densità
psicologica, The Fabelmans lascia fuori la Storia. Spielberg
sottrae a sorpresa il suo destino dal contesto americano. Inventa un Paese
studio, senza guerra del Vietnam, senza minaccia nucleare o ossessioni per il
comunismo, senza lotta per i diritti civili. La radio diffonde solo musica, i
giornali non esistono. I costumi, che evolvono con la morale, passano per uno
spinello che Sam rifiuterà di fumare.
The Fabelmans è la testimonianza di un autore che ha dedicato la
sua vita a una forma d'arte che credeva onnipotente e che oggi scopre fragile,
una lezione di messa in scena che rivela il trucco del mestiere (Sam espone
minutamente a un compagno come interpretare un ufficiale della Seconda Guerra
Mondiale che prende coscienza di tutti i soldati Ryan che ha perso sul campo)
mentre esegue il 'prestigio' (Burt osserva scosso una fotografia che ritrae la
moglie sorridere all'altro uomo).
Il film si conclude con un irresistibile movimento della m.d.p. che svela l'orizzonte del
nostro eroe. Il seguito lo conosciamo già e risuona tutto in quel nome, ben
reale, che incide i titoli di coda. Monumento alla mitologia del suo
autore, The Fabelmans non racconta che questo: come si
diventa Steven Spielberg.
Che frase magnifica,
che concetto incantevole e vero. Sogni. Veicolo di immaginazione. Fiabe, in
qualche modo. Forse è per questo che Spielberg ha scelto Fabelman come
cognome per il proprio alter ego su schermo e la sua famiglia, un nome che
suona tanto come "uomo delle favole", affabulatore. E non
è forse una fiaba a sua volta il racconto che ce ne fa? Storia romanzata di
un'esistenza, versione trasformata di una vita. Questo fa il cinema nel
messaggio che l'autore vuole trasmetterci: racconta e trasforma, prende la
realtà ma non si limita a riprodurla com'è, la muta e ne dà una propria idea
nuova, più forte, più ricca. Fiabesca, come da sempre è stata l'opera di
Spielberg, un cinema che sa volare sulle ali della fantasia per raggiungere
vette di sentimenti e sensazioni vertiginose.
Ma non è
solo questo il messaggio del film, perché il cinema muta la realtà, la colora,
deforma o migliora, ma trasforma anche noi che ne fruiamo: i momenti chiave
di The Fabelmans si sviluppano attorno a qualcuno che guarda
immagini proiettate e cambia nel farlo. Gli occhi spalancati del piccolo Sam
incastonati in una maschera di stupore, il volto di sua madre che chiusa in un
armadio viene travolta dal dolore, le reazioni opposte dei compagni di scuola
di Sam che guarda il film del loro Ditch Day girato e montato
dal ragazzo. Sguardi che ammirano, assorbono e cambiano. Il cinema, ci dice
Spielberg, ha questo immenso potere di catturarci, ipnotizzarci, per poi
entrarci nell'animo e mutare il nostro pensiero e le nostre emozioni. E noi che
siamo suoi spettatori affezionati da oltre quarant'anni lo sappiamo bene…
Negli occhi del Sammy
Fabelman bambino c’è lo stupore della visione, l’imprinting dello
spettatore che assiste per la prima volta allo spettacolo delle immagini in
movimento: il più grande spettacolo del mondo. Nelle mani del Sammy Fabelman
ancora bambino ma già regista amatoriale, c’è invece l’agilità dell’operatore
che regge la macchina da presa, dell’artigiano che taglia la pellicola 8mm, del
regista che realizza con amici e familiari – come ha scritto Pietro Bianchi
nella recensione di The Fabelmans sul n. 8
della rivista «Cineforum» – «esperimenti di
storytelling e montaggio molti simili agli albori del cinematografo, alla
scoperta del comico, dello slapstick, dell’horror... e poi del western, dei
film di guerra in un crescendo di complessità che è a un tempo padronanza
tecnica del mezzo ma anche crescita soggettiva». Nella testa di Sammy
Fabelman diciottenne, infine, nel film che gira per la scuola durante una gita
al mare, c’è già tutta l’ambiguità dell’autore hollywoodiano, consapevole di
poter manipolare le immagini a tal punto da far dire loro cose a cui nemmeno
crede…
… The Fabelmans fin
dall’inizio ha il grande pregio di rendere non la storia in sé, ma i personaggi
che la abitano i veri pilastri di una narrazione
familiare colma di un’ironia mai eccessiva, quanto ammantata dal ricordo del
narratore. Il che contribuisce a rendere universale e ancora più
potente il film, perché bene o male tutti possiamo rivederci nelle
avventure di Sammy, nel modo in cui ci fa comprendere l’importanza di certe
serate familiari, dei regali, delle piccole avventure e soprattutto della
scoperta. La scoperta è il grande tema sotterraneo del film,
sia per quello che riguarda il cinema, le sue leggi scritte e non scritte, sia
soprattutto la vita del protagonista, a cui il giovane Gabriel
LaBelle dona un grande verosimiglianza, grazie ad un'interpretazione magistrale.
Il suo Sammy è un uno dei ragazzi più normali, veri, autentici e scevri dai
cliché narrativi sull’adolescenza che il cinema e anche la televisione ci
abbiano donato ultimamente…
…The Fabelmansci
parla quindi in ultima analisi dell’arte, un'arma a doppio taglio per
chi la rende la propria ragione di vita, del prezzo in fatto di
vita sociale e sentimentale che l’artista rischia di pagare, vuoi per
l’essersi votato in modo totalizzante al proprio talento, vuoi anche per i
limiti che l’essere umano ha e che Spielberg ci mostra. Vi è un po’ di Fellini e
di Allen, un po’ di Lucas e dei
maestri immortali della Nouvelle Vague francese, in questa sua
autobiografia ma poi in realtà no: c’è soprattutto Spielberg che
dipinge a mano libera. L'insieme abbraccia ma senza fanatismo il
sogno americano, prende per mano il pubblico e lo guida dentro la sua anima,
quegli anni in cui trovò dentro a piccole cineprese il modo di fuggire da tutto
e tutti, di accettarsi per ciò che era.
… La
cinepresa come mezzo per capire ed esorcizzare il dolore e soprattutto
rielaborarlo e metterlo in scena.
Una lezione crudele che Sam fa sua quando si trasferisce in California e
viene bullizzato dai propri compagni perché è ebreo.
Le immagini però gli permettono di avere potere su di loro, aspetto che ci
porta all’altra sequenza fondamentale di The Fabelmans: Sam deve
realizzare il film della gita al mare del proprio istituto che verrà
successivamente mostrato al ballo di fine anno.
Una volta arrivato il fatidico giorno, nel buio dell’istituto viene
proiettato il lavoro del personaggio interpretato dal commovente Gabriel
LaBelle, che sconvolge uno dei bulli.
Le immagini infatti lo elevano a divo del Cinema, mettendo in risalto tutte
le sue qualità atletiche.
Perché farlo?
Semplice: Sam con questa scelta ottiene il rispetto del bullo - che grazie
al film riconquista la propria ragazza - mettendo in scena una manipolazione
del vero, una sorta di propaganda, un rischio etico che riflette sulla nostra
vulnerabilità da spettatori.
Due sequenze dall’aspetto teorico vitale, che prendono in esame due modi di
vedere e concepire il Cinema, due modi di intendere la vita, due modi di
catturare le immagini-specchio della natura dei genitori di Sam/Spielberg.
The Fabelmans a mio avviso non è solo un biopic, ma un punto di vista sul guardare
le immagini, un film che non ha mai l'orizzonte centrale ma sempre in alto o in
basso e perciò, come insegna John Ford, un orizzonte interessante
che produce un significato, una narrazione.
Un’opera che è un saggio teorico, una dichiarazione d’amore e una storia
struggente, l’ennesima lezione di Cinema di un regista unico che in questo film
da The Fabelmans diventa The Fablesman, l’ultimo
cantastorie: Steven Spielberg.
un Iran e una storia che sembrano simili all'Italia degli anni sessanta.
Hamid, sposato con un'artista, ha problemi nella conclusione della sua tesi e in più la moglie vuole divorziare, scoprirete perché.
lui lavora in un ministero e tira avanti così, senza grande interesse.
il film è denso e ricco di situazioni e citazioni, sogno e realtà, appare anche Lozenel'artedellamanutenzionedella motocicletta.
Dariush Mehrjui è davvero bravo a tenere la tensione e l'attenzione per tutto il film.
un piccolo gioiellino da non perdere, promesso.
buona (meglio due volte) visione - Ismaele
…The film is shot with many short-duration shots, which
gives it a nervous, energetic dynamic. Many of the shots, as with Ali
Santouri, are hand-held, and there are numerous zoom shots. In addition,
there are a number of jarring jump-cuts, which detract somewhat from one's
engagement with the film. Overall, the brisk pace of the action affords a large
number of episodes, which must have entailed an astonishing number of camera
setups. As with some of Fellini’s films, many of these episodes add to the
general effect, but are not uniquely essential to the story – they could have
been omitted, and others added, without the viewer noticing much difference. The
soundtrack background is often quite dead and lacks the ambient noise that
gives one a sense of presence. In addition, the soundtrack is overlayed with
modern organ music (said to be inspired by Bach). The combination of the
soundtrack music and the lack of ambient sounds tends to alienate the viewer
from the reality of the situation, which though it may have been the intention
of Mehjui, is, I think, detrimental to the viewing experience.
At the end of the film, astonishingly, just as Hamid is finally about to
succeed in killing himself by drowning, Ali, his elusive spiritual master,
appears out of nowhere, has him pulled out of the water, and saves him. It is
an epiphany! Hamid, as he was drowning, had been dreaming of an imaginary
fantasy world in which all his dreams come true. Instead, he has been brought
back to the real world (with all its problems) and rescued from a "sea of
confusion". Maybe this time he can engage it authentically. Despite all
the despair in the film, there is this final hopeful image of Hamid coming back
to life. Or is that last scene just another dream?
“Hamoun” (1989) is undoubtably Dariush Mehrjui’s most famous and
popular film, which also has the biggest cult following in Iranian cinema. The
admirers of the film have seen “Hamoun” repeatedly over the years and know its
dialogue and scenes by heart. All of Mehrjui’s cinematic themes are gathered in
one place in “Hamoun”. The old Mehrjui and the new Mehrjui are confronted with
each other in the film: Hamid Hamoun against Ali Abedini; body against soul;
insanity against serenity; realities against divinities; cinema against philosophy.
The opening scene is one of the most beautiful moments in Mehrjui’s cinema: the
director, heavily influenced by Fellini’s cinema, gathers all the people from
his life in an imaginary location to once again show us his infatuation with
having a mass of characters in a limited space.
da alcuni anni ad At-Tuwani, un piccolo villaggio vicino a Hebron, si è scelto di reagire all'assedio e all'aggressione dei coloni armati, e dell'esercito israeliano che li protegge e li supporta, in modo nonviolento.
un gruppo di giovani, Youth of Sumud, coordina la lotta pacifica, con l'aiuto di volontari internazionali.
Nicola Zambelli, che già nel 2009 aveva documentato la loro lotta in Tomorrow’s Land, visita quei luoghi, i bambini di allora sono cresciuti e organizzati adesso in Youth of Sumud.
è una lotta impari, una resistenza piena di coraggio e perseveranza per difendere la loro terra.
si può consultare il sito del film, https://sarurafilm.com, anche per eventuali proiezioni.
buona (piena di speranza) visione - Ismaele
…La vicenda del villaggio di At-Tuwani è la storia che nel
2010 abbiamo filmato per poi raccontarla con il nostro primo film “Tomorrow’s
Land – how we decided to tear down the invisible wall” (2011 – vincitore di
numerosi premi in Italia, documentario che ha partecipato tra gli altri ai
David di Donatello, Thessaloniki Film Festival, Al Jazeera Film Festival),
centrata sull’esperienza del comitato di lotta popolare nonviolenta delle
colline a sud di Hebron. Nel corso degli ultimi dieci anni, le colonie attigue
ad At-Tuwani hanno continuato ad espandersi, incrementando il numero di
abitanti, continuando a costruire abitazioni e fattorie per gli animali. Allo
stesso tempo, l’esercito israeliano ha continuato a ostacolare la presenza
palestinese nell’area, demolendo qualsiasi nuova abitazione, ostacolando la
vita quotidiana tramite check-point volanti e controlli arbitrari, continuando
a cercare pretesti per poter allontanare gli abitanti dalle loro case.
Un documentario –
interamente autoprodotto on-line grazie a Produzioni dal Basso e off-line
grazie a decine di incontri pubblici – che ha aiutato a far conoscere la storia
di At-Tuwani, è stato visto da migliaia di persone in centinaia di proiezioni
nel mondo.
Il ritorno ad
At-Tuwani
Nel 2018 siamo tornati
ad At-Tuwani per raccontare la storia di “Youth of Sumud”, un collettivo di
giovani e teenagers nato e cresciuto sotto occupazione militare e all’interno
della lotta popolare del villaggio, composto da ragazzi e ragazze che studiano
e si impegnano per garantire a sé e ai loro concittadini la possibilità di
continuare a esistere sulla propria terra e ottenere un futuro migliore. I
ragazzi e le ragazze di YOS sono i bambini che dieci anni addietro abbiamo
filmato mentre compivano un estenuante tragitto dal villaggio di Tuba a
At-Tuwani scortati dai soldati dell’esercito israeliano (scorta istituita a
seguito dei violenti attacchi portati avanti ai danni dei bambini dai coloni di
Ma’On e Havat Ma’on, che furono fonte di proteste e indignazione nella stessa
Israele); sono i bambini che abbiamo visto andare a scuola e che sognavano la
scomparsa dell’occupazione.
Crescendo, alcuni di
questi ragazzi hanno costituito un collettivo di lotta chiamato “Youth of
Sumud”, decidendo non solo di proseguire l’azione di resistenza nonviolenta del
comitato popolare del villaggio ma anche di riappropriarsi (simbolicamente e
materialmente) delle terre che sono state sottratte ai loro concittadini,
andando ad abitare nelle grotte evacuate di Sarura.
Vogliamo raccontare la
storia di Youth of Sumud perchè possa costituire un esempio concreto di
speranza, una lotta pacifica condotta all’insegna della dignità umana, il cui
esito resta tuttora incerto ma il cui finale è scritto attraverso la storia di
ciascuno. Una storia minuscola rispetto alla Storia con la S maiuscola, ma allo
stesso tempo universale e rappresentativa di un conflitto che sembra non
trovare mai fine.
Un conflitto che, come
tutti i conflitti, potrà trovare un esito positivo solo nella piena
accettazione dell’essere umano, riconoscendone l’esistenza e dando ad esso
visibilità. E, soprattutto, come i ragazzi e le ragazze di Youth of Sumud
sembrano fare nei confronti dei loro pari, speranza…
…Sarura mostra immagini di oggi, del
2009 e degli anni intercorsi tra la prima e la cosa visita dei registi. Segue i
bambini di allora diventati ragazzi o adulti, filma le stesse strade, gli
stessi campi, le stesse zone di frontiera, gli stessi scontri fra i coloni
dell'avamposto israeliano di Ma'on, l'esercito, i palestinesi di At-Tuwani e
gli attivisti: a parte la grana del digitale, meno definita e netta, nulla pare
cambiato. La stessa aggressività dei soldati, gli stessi ragionamenti
paradossali degli occupanti (secondo i quali il problema non è l'aggressività
dei coloni, ma l'ardire dei palestinesi che si ostinano a pascolare nelle
proprie terre), la stessa tensione che coinvolge anche i registi, trasformati
da testimoni distanti a presenze partecipi.
Le linee temporali di Sarura si
sovrappongono, mentre il montaggio accosta passato e presente. Ciò che nel
frattempo è cambiata è la storia di At-Tuwani e del vicino villaggio di Sarura,
sgomberato dagli israeliani. Soprattutto, sono cambiate le teste delle persone
che lì vi abitano: oltre a resistere allo sgombero con la creazione di un
comitato di lotta popolare, con azioni pacifiche contro il governo israeliano e
con registrazioni audio e video delle violazioni dei diritti dei palestinesi,
da qualche tempo si è cominciato anche a restaurare Sarura e le sue grotte. La perseveranza, dunque, nel film è la luce di candela dell'inizio: una fiamma
tenue, un fuoco controllato che non distrugge, ma illumina, e per ora non si è
ancora estinto.
…In una
striscia di terra occupata, tra persone ormai abituate alla loro condizione, il
film testimonia un movimento che rompe la catena degli eventi, che prova a
immaginare un altro mondo, un altro modo di vivere: «il futuro è un posto
sconosciuto», recita il sottotitolo della versione internazionale.
La
questione palestinese è uno stallo perenne, una condizione che dopo
vari decenni è quasi istintivo – colpevolmente – considerare, se non naturale,
almeno strutturale, parte del mondo che l’ha creata e alla quale appartiene.
Ali, uno dei “giovani della perseveranza” di At-Tuwani, dice: «Qui
ogni bambino crede che sia normale la vita che vive, qualunque essa sia. Poi
però crescendo ho capito che ci sono persone che violano i miei diritti, e che
questo non è il modo in cui i bambini di tutto il mondo normalmente vanno a
scuola». È proprio questo lo scarto che il film cerca e filma nei
territori occupati: l’inversione di rotta della Storia e della mente delle
persone, protagonisti e osservatori, vittime e spettatori; l’iniziativa che
cambia il decorso delle cose.
…The Future Is an Unknown place nasce e cresce in questo clima di endemico
conflitto, uno scontro che dopo l’intifada sembra essersi frammentato in decine
o centinaia di piccoli conflitti. Le cronache e anche il cinema hanno
raccontato queste situazioni che non hanno solo un riflesso locale, ma fanno
inevitabilmente parte di una più grande unità. Dall’altra parte del racconto,
attraverso immagini e interviste che sanno restituire una rabbia soffocata da
una non violenza praticata e convinta, Zambelli lavora sul tempo. Un lavoro
precedente, al seguito di sigle internazionali che da sempre lavorano in
solidarietà con gli abitanti dei territori della Palestina, aveva già mostrato
le condizioni in cui erano costretti a vivere i palestinesi tra provocazioni e
aggressioni ingiustificate. Il tempo che da una parte è trascorso velocemente,
sembra invece immobile quanto agli avvenimenti. Nulla è mutato a Sarura, i
ragazzini di allora sono diventati adulti e qualcuno si è anche laureato, ma i
ragazzini di oggi, che pascolano le greggi al pomeriggio e al mattino vanno a
scuola, hanno bisogno dell’esercito che li scorti per evitare le aggressioni.
Anzi, alla fine del film si viene a sapere che nel maggio 2021 i coloni hanno
distrutto le piantagioni di ulivi e quanto i giovani della “Youth of Sumud” avevano
realizzato a Surura. Il lavoro è ricominciato subito dopo, ma il futuro, come
ci ricorda Zambelli, è una terra sconosciuta ed in questo tempo senza volto che
si snoda ancora la resistenza di questi giovani con la speranza negli occhi e
nelle parole.
…Il regista Asghar Farhadi si è esposto sui social lanciando
un appello per la liberazione dell'attrice iraniana Taraneh Alidoosti,
arrestata qualche giorno fa a causa del suo sostegno alle proteste nel Paese
contro il regime guidato dall'Āyatollāh Ali Khamenei. Farhadi ha scritto un
lungo messaggio con una foto dell'attrice.
"Ho lavorato con Taraneh in quattro film,
ora lei è in prigione per il giusto sostegno che ha dato ai suoi connazionali e
per l'opposizione alle ingiuste sentenze. Se sostenere chi protesta è un
crimine, allora decine di milioni di iraniani sono criminali" ha scritto Farhadi. Taraneh Alidoosti è stata
arrestata lo scorso 17 dicembre…
…Alidoosti boicottò la cerimonia di premiazione per protesta contro le
politiche di immigrazione sancite all'epoca dal presidente americano Donald
Trump nei confronti delle persone provenienti dai Paesi a maggioranza islamica.
un film di quando in Turchia non era un regime erdoganiano-musulmano-carcerario, un gruppo di vicini e amici, con le amicizie e le disavventure di Alì, che perde la memoria, di un bambino che non vuole essere circonciso, un cane che riesce a tornare a casa, un anello che va e viene, amori nascosti e dichiarati.
insomma un film neorealista di un ottimo regista turco, che poi farà film più impegnati.
buona visione - Ismaele
Après l'exposé de quelques dictons plutôt intrigants sur
les catégories de femmes et d'hommes qui peuvent exister, entre insatisfaites
éternelles et contents d'eux-mêmes, le film démarre et brasse nombre de
personnages et de thématiques. Au bout de quelques minutes, on se dit que ce
film devait sûrement être une comédie, mais que notre culture fait qu'on ne
comprend pas grand-chose, ni des enjeux lié à l'amour d'un chien auquel on est
allergique, ni de la signification de cette bague mise au rebut, prétendue
volée, mais payée et donnée en gage d'amour à un autre. Elle doit avoir de la
valeur, mais laquelle, lesquelles ?
Et le spectateur patient n'aura de cesse de s'interroger
tout au long du film, sur les rapports familiaux improbables entre les uns, la
peur du service militaire de l'autre, ou les trous de mémoire de celui-ci… Le
spectateur impatient, lui, finira par trouver le temps long devant cette
agitation sans queue ni tête de plus de deux heures dix. Si on sourit parfois,
on se qu'on a soit pas du tout le même sens de l'humour, soit que chaque scène
tombe à plat, malgré tous les efforts d'une honorable troupe d'acteurs.
Maggie (Brit Marling) arriva dal futuro e ha fondato una setta per aiutare le persone ad affrontare il futuro.
due fidanzati (Peter e Lorna) si infiltrano nella setta per poter fare un documentario che smascheri i loro imbrogli.
Maggie affascina tutti, ha le parole giuste per tutti, li informa che dovrà sparire e dovranno cavarsela da soli.
poi il mistero esplode, sembra che qualcuno ricerchi Maggie per arrestarla, mentre Maggie cerca una bambina, alunna della scuola dove lavora Peter.
Peter e Lorna si guardano, forse Maggie ha sempre detto la verità, lei arriva dal futuro, forse.
ciascuno interpreti le cose, niente è come sembra, o tutto è come sembra, chissà.
piccolo grande film da non perdere.
buona (misteriosa) visione - Ismaele
chi vuole qualche spiegazione, ne trova, forse, qui
…"Sound of My Voice" è un esordio all'insegna
del genere che però non disdegna incursioni nel cinema d'autore, soprattutto
quando costruisce una tensione che esula dai clichè dell'azione e del colpo di
scena, ma deriva direttamente dal volto dei personaggi e dalla bravura del
regista di sapervi leggere umori e stati d'animo. Immerso in un atmosfera
sospesa e dilatata, concentrato in spazi chiusi e claustrofobici ed illuminato
da una luce plumbea quand'anche artificiale, il film di Batmanglji è anche la
conferma di un'attrice in ascesa, Brit Marling ("Another Earth", 2011
ma anche "Le regole del silienzio", 2013) che per il momento riesce a
sfruttare il mistero di un volto da gioconda "preraffaelita" per
costruire visioni di uno spaesamento su cui si riversano le paure di un paese
in cerca di nuove identità.
…L’interpretazione di Brit Marling, già pluripremiata
per Another Earth, fissa l’incanto nell’imperturbabile fermezza che
caratterizza le grandi guide spirituali. L’eloquio del suo personaggio, tanto
brillante e profondo quanto limpido e naturale, porge il racconto dell’impossibile
con quella grazie sofferta che è il nobile sedimento del dolore, e che non
permette al cuore di dubitare della sua autenticità. Anche la ragione di
noi, distaccati spettatori, per un attimo sarà portata a cadere nel tranello. E
in quel momento, permanendo nel nostro romantico errore, proveremo il piacere
di trovarci di fronte ad un film irrisolto, che sembrava un delicato psicothriller e poi è dolcemente naufragato nell’assurdità di un
sogno in cui è tanto bello credere. Tuttavia, anche se alla fine decideremo di
arrenderci alla triste evidenza, l’amarezza di Sound of My Voice ci apparirà comunque stemperata dalla
gentilezza di un animo – teneramente infido – capace di coltivare l’inganno con
il gusto raffinato di chi ama dispensare magnifiche illusioni.
Noi spettatori alla fine siamo persone semplici. Non abbiamo
bisogno di insistiti colpi di scena, trovate raccapriccianti ed epifanie dell’ultima
ora, ci basta una buona manciata di intelligenza, qualche bel dialogo ben
scritto e un incedere elegante, aiutato da una regia degna di questo nome.
Insomma abbiamo bisogno di un film che non vada ad intaccare la nostra
autostima, telefonando fin troppo ed arrivando a giustificare qualsiasi bivio
narrativo. Sound of my voice si classifica ai primissimi posti tra le pellicole
più intelligenti dell’anno, entrando lentamente ed inesorabilmente nella mente
dello spettatore, arrivando a restituire uno spettacolo stimolante, mai banale,
ricchissimo di domande e finalmente avaro di risposte. La storia della coppia
che si avvicina ad una setta di pochi eletti, riuniti nell’adorazione di una
ragazza che dice di venire dal 2054, per smascherarne le menzogne, è di per se
un’idea estremamente intrigante, sviluppata da una sceneggiatura, caso più
unico che raro, più intelligente che furba, capace di istillare nella mente
dello spettatore il tarlo del dubbio e del forse perfino sospetto di non aver
capito nulla. Sempre più spesso il cinema cede alla tentazione di spiegare
tutto, togliendo così a noi spettatori l’etica del dibattito e la dignità
dell’ignoranza. Fin troppo traditi dalle scorciatoie narrative orchestrate da
sceneggiature esili, frutto della mente di sceneggiatori deboli, noi spettatori
senzienti ci siamo abituati ad inserire il pilota automatico, condannando noi
stessi a subire il film. Sound of my voice ci restituisce la vista e il gusto,
riconsegnandoci un cinema più libero e più affascinante, anarchica reliquia di
una gioia espressiva, fatta di dubbi, domande e lacrime. Vero punto di non
ritorno verso un altro cinema più che possibile, un cinema che forse viene da
molto lontano, dal 2054.
…En la película se aborda
el tema de las sectas o grupos religiosos, en este caso formado con una joven
que dice venir del futuro. Una líder misteriosa pero a la vez carismática que
ha formado un grupo importante de fieles. Es interesante la evolución de la
pareja infiltrada, quien al inicio están convencido de que destaparán una
farsa, y como poco a poco en uno de ellos surge la duda, la confusión por su
misión y entre ellos mismos. Toda esa intriga, el director logra trasladarla al
espectador, quien también deambula entre los distintos terrenos de veracidad.
Hay algunas críticas visibles y camufladas en los diálogos, a la psicología y
las mismas organizaciones y sectas, entre otros. Cuando al final, estamos casi
seguro de tener cierta certeza sobre el asunto, la historia toma un rumbo que
pone de cabeza todo lo se venía hilvanando y concluyendo. Aunque algunas
personas critiquen el final, a mi me ha gustado. Pero finalmente, todo el filme
se mantiene por las excelentes actuaciones del reparto, principalmente de la
pareja de infiltrados, Christopher Denham y Nicole Vicius, que realmente
destacan y viven sus personajes; sin olvidar a la líder de la secta, Maggie,
interpretada por la estupenda Brit Marling, quien siempre brilla en
pantalla.
En síntesis, un trabajo muy bueno con un tema muy interesante, con muy buen
ritmo, dosificación y sorpresas, acompañadas de muy buenas interpretaciones.
…Una cinta que habla del cambio, la duda y
el antagonismo; del grupo espiritual, consolador hasta la delirio, y el del
frenesí tradicional de la clase media, con sus ambiciones laborales y sus
angustias materialistas. Una introversión en el devenir temporal. Un futuro que
ya está escrito, un pasado mal borrado y un presenta sujeto al cambio. Un
sermón en boca de una maravillosa Brit Marling, que de entre sus múltiples y
polifacéticas tareas, destaca sobre cualquier otra la de actriz. Está
hipnótica, sublime, persuasiva y su tono y color de voz tirarían abajo
cualquier tentativa de esgrimir un argumento racional. Transmite paz,
esperanza, sabiduría panfletaria. Incluso llega a dar miedo. Un registro
interpretativo que toca los extremos sin aspavientos ni exageraciones. Lo mejor
de una película a la que le haría falta media hora más para hacerse grande,
abandonar ese tufillo a teleserie y no parecerse tanto a un buen capítulo de Fringe. Quizá con más imperfecciones y errores de los que parecen,
para creer en ella se necesita un salto de fe que cualquiera estaría dispuesto
a dar si viene del 2054 una profeta como Brit Marling.
…What's even more impressive is the fact that Marling
co-wrote the screenplay (with director Zal Batmanglij), and created this
character for herself. Not only is Maggie not a typical "pretty
girl" -- she's a grown-up with mystery and depth -- but she also has
powerful, showy moments that many actors wait years for a chance at. But
then, when it comes down to it, Marling actually has the raw skill and charisma
to play the role, and to turn in one of the great performances so far this
year.
Additionally, other characters talk
about her, heightening her allure. After Peter's opening up, Lorna talks
about Maggie as if she has superpowers; she's not only pretty, but she reaches
Peter in ways that Lorna cannot.
Aside from this great character,
Marling and Batmanglij have also whipped up a tantalizing mystery story, broken
up into ten "chapters" and sometimes launching into a puzzling scene
that is, for the moment, totally unconnected. Almost like a "B"
movie, Sound of My Voice embraces its grayish, washed-out,
low-budget video look. Batmanglij paces the movie quickly, paying it off
with a nifty zinger, and closing up shop before anyone has a chance to catch
his or her breath…
a volte chi guarda un film, anche se non legge molto, può capire un po' di cose.
per esempio si può capire:
che "l'esercito più morale del mondo", così si glorificano da soli in Israele, è un esercito di merda come tutti gli altri, e probabilmente anche peggio;
che l'affermazione che la Palestina fosse un deserto inabitato da rendere vivo da parte dello stato israeliano è una delle bugie più grandi mai concepite da cervello umano;
che la speranza dei palestinesi che aspettano un aiuto dai paesi arabi è proprio un'ingenuità, allora come oggi;
che nel 1948 in Palestina non c'è stata una guerra, in realtà è stata una caccia al palestinese, da parte di efferati assassini di origine ebraica, per rubare le terre palestinesi e per ottenere una pulizia etnica che continua da allora tutti i giorni;
che mostrare un sadico assassino di origine ebraica è uno intollerabilmente antisemita, dicono, per questo in Israele vorrebbero che Netflix censurasse Farha.
oltre ai motivi sopra esposti ci sono altri motivi per vedere il film.
prima di tutto è una storia raccontata dalla parte degli sconfitti, vista con gli occhi di una ragazzina che aveva uno splendido futuro davanti, e dal 1948 avrà una misera vita in un campo profughi.
la protagonista Farha è bravissima a rendere la paura, la disperazione e l'impotenza, sua e di tutti.
insomma, non sarà un film perfetto, come dice qualcuno, ma allo stesso tempo è un film da non perdere.
buona (Farha) visione - Ismaele
…La
regista ha raccontato di essere viva perché il padre fu un sopravvissuto
alla Nakba (che vuol dire “catastrofe”). Ascoltando le storie della
madre si interessa particolarmente a quella di Radiyyeh, che la madre ha
avuto modo d’incontrare dopo essere arrivata in Siria. Ciò che ha molto
colpito Sallam è l’idea di una ragazza rinchiusa dentro una cantina
dal proprio padre per salvarla dalla violenza degli eventi esplosi in
Palestina.
Non riuscivo a togliermi dalla testa quella ragazza,
continuavo a pensare a come poteva sentirsi in questa piccola stanza oscura,
soprattutto perché ho paura dei luoghi stretti e bui. Nel corso degli anni,
queste storie, queste persone, le loro vite, si sono unite nella mia mente,
andando lentamente a formare la storia di Farha. Non volevo trattare Farha solo
come un numero, una dei 700.000 che furono costretti all’esilio. Volevo
concentrarmi sul suo viaggio personale a sui suoi sogni, passati dal combattere
per imparare, al combattere per sopravvivere. E’ una storia di amicizia,
aspirazioni, separazioni, formazione, sopravvivenza e liberazione di fronte
alla perdita.
…Se il contesto
storico è infatti ampiamente delineato, quello più squisitamente umano manca a
volte di profondità. Darin J.
Sallam dirige con sicurezza, muovendosi con abilità nella
costrizione degli spazi chiusi in cui è ambientata l’ultima parte della
pellicola. La regista lavora con efficacia su luci e suoni, alternando momenti
più claustrofobici ad altri di introspezione, grazie al dualismo
prigione/rifugio su cui riesce a costruire una tensione che giova alla tenuta
complessiva del film. Discreta la prova del cast, nonostante qualche ingenuità
dovuta alla giovane protagonista Karam Taher e alla caratterizzazione non sempre attenta dei
personaggi. Farha è un film che tratta in maniera sentita e autentica una
pagina terribile di storia recente, non riuscendo però a mantenere sempre una
sua coerenza narrativa interna. L’accostamento della dimensione più intima e
personale a quella collettiva palestinese, pur non essendo esente da scelte a
volte sbrigative e riduttive, restituisce una testimonianza forte e vibrante di
un evento che ha segnato un intero popolo.
“Farha”, la Nakba palestinese in un film e Israele
boicotta Netflix - Michele Giorgio
La campagna contro «Farha» è
cominciata ben prima del rilascio del film su Netflix. Gli israeliani, dai
ministri fino ai cittadini comuni, o meglio la maggior parte di essi, sono
furiosi contro la piattaforma statunitense perché ha reso disponibile al
pubblico mondiale un film che attraverso gli occhi di una ragazzina, racconta
di una strage avvenuta nel 1948, durante le fasi che portarono alla nascita
dello Stato di Israele, di una intera famiglia palestinese, inclusi bambini, da
parte di uomini di una milizia ebraica. «È pazzesco che Netflix abbia deciso di
trasmettere in streaming un film il cui unico scopo è di incitare contro i
soldati israeliani», ha tuonato il ministro delle finanze uscente Avigdor
Liberman. Analogo il giudizio del suo collega alla cultura, Hili Tropper: «quel
film si fonda su di un mucchio di bugie». Dopo l’inserimento di «Farha» su
Netflix, si è anche registrato in Israele un calo degli abbonamenti alla
piattaforma. Azioni che non hanno turbato più di tanto la regista del film, la
giordana Darin Sallam, che ripete di aver rappresentato una
vicenda vera, simile ad altre avvenute nel 1948 e che Israele vorrebbe tenere
nascoste.
Il film piace a molti, naturalmente di più ai
palestinesi che vi notano una accurata rappresentazione della
violenza subita dai loro nonni e parenti anziani quasi 75 anni
fa durante la Nakba, la
catastrofe, così come è chiamato l’esodo di centinaia di
migliaia di palestinesi dalla loro terra e la perdita di tutto ciò che avevano,
a cominciare dai loro villaggi – distrutti in gran parte dopo il conflitto – e
dalle loro case. L’elaborazione del trauma nazionale della
Nakba attraverso l’arte è una delle strade privilegiate che segue da un po’ di
tempo la folta schiera di giovani registe e registi palestinesi sbocciata negli
ultimi 10-15 anni. Un percorso che l’establishment israeliano
prova ad ostacolare, in particolare all’estero, perché getta un’ombra sulle
azioni e le strategie del movimento sionista e contraddice la narrazione
ufficiale della nascita dello Stato ebraico: brutali, violenti e intransigenti
furono solo gli arabi, gli israeliani non fecero altro che difendersi e
realizzare il «ritorno del popolo ebraico dopo duemila anni nella terra
promessa». L’esodo palestinese, secondo questa tesi, fu volontario, nessuno dei
profughi e degli sfollati fu costretto a scappare sotto la minaccia delle armi.
«Questa versione non può essere contraddetta
neanche da un singolo episodio. Il motivo è semplice: la Nakba per Israele non
è mai esistita anche se persino importanti storici israeliani ne hanno scritto
sulla base di documenti ufficiali», spiega al manifestoJeff Halper,
antropologo israelo-americano autore di sei libri sulla questione palestinese.
«La Nakba non può essere insegnata o studiata nelle scuole – aggiunge Halper –
perché il suo riconoscimento metterebbe in discussione l’immagine luminosa che
la versione ufficiale ha dato di quanto è accaduto prima, durante e dopo il
1948. Anche il massacro di Deir Yassin (un
villaggio nei pressi di Gerusalemme, ndr) ampiamente documentato deve restare
chiuso in un cassetto». Di recente, ricorda l’antropologo, «ha generato
polemiche e condanne a ripetizione Tantura, un documentario (del regista
israeliano Alon Schwarz, ndr) che riferisce
con testimonianze dei protagonisti il massacro di decine di palestinesi
compiuto sempre nel 1948 da una brigata israeliana». Secondo Halper la comunità
internazionale e l’opinione pubblica occidentale accettano senza porsi
interrogativi la narrazione ufficiale israeliana perché «considerano necessario
tutto ciò che, inclusa la Nakba, ha favorito la creazione dello Stato di
Israele».
La campagna israeliana contro «Farha» nel frattempo va avanti. La trama del
film è pura fiction, scrivono sui social tanti israeliani, quelle scene,
aggiungono, non sono mai avvenute nella realtà. I palestinesi al contrario
difendono il film e insistono sul suo fondamento storico. Le atrocità del 1948, scrivono, non sono mai terminate. E
denunciano che in serie tv e film di produzione israeliana, presenti anche su
Netflix, i palestinesi sono sistematicamente rappresentati come un popolo
di violenti e terroristi.
due film (Les glaneurs et la glaneuse (La vita è un raccolto) - Agnès Varda e Les glaneurs et la glaneuse...
deux ans après - Agnès Varda) mostrano spigolatrici e spigolatori, raccoglitori degli avanzi dopo il raccolto e anche dopo la vendita.
molte perdone, per motivi ideologici, economici, etici, vivono, almeno in parte, degli "avanzi".
la grandezza di Agnès Varda è di cercarle e farcele conoscere, queste persone, con una sincerità, sorriso e umanità invincibili.
provate a cercare quasti film, e conoscerete persone che non pensavare di poter conoscere, persone come noi, sorelle e fratelli, persone che non inquinano, non fanno del male, spesso umiliati e offesi.
grazie, Agnès Varda!
buona (piena di speranza e fiducia) visione - Ismaele
…Pratica antica, la “spigolatura” è da tempo immemorabile il
connotato di un consorzio umano che ha saputo dare dignità anche ai suoi lati
peggiori.
E’ ciò che intende Varda, e per
far questo si fa aiutare dalla pittura andando a “spigolare” nei musei le tele
perdute di Jules Breton e Jean-François Millet, bellissimi dipinti di
un ‘800 segnato dai colori caldi del crepuscolo, quando il lavoro termina, o
dal sole vangoghiano di meriggi agresti quando la fatica ferve.
Quelle contadine intente alla “spigolatura” sono piccole dee di un
mondo scomparso, ninfe dei boschi, Driadi e Amadriadi che completano il lavoro
dei campi.
Quello che raccolgono non sa di rifiuto, spazzatura, miseria.
Eppure miseria c’era, e tanta, ma non si avverte l’assenza di un’etica
solidale, c’è il calore di un’umanità in cui vivere insieme sembrava ancora
cosa buona e giusta.
Non è possibile senza rabbia vedere intere pagnotte di semi pregiati
finire in cassonetti da cui sarebbero state triturate nelle discariche senza
gli “spigolatori”, o rosse e gialle mele che sarebbe stato meglio non sottrarre
ai loro rami.
Le immagini di Les glaneurs et la
glaneuse hanno un potenziale fortemente provocatorio,
rivoluzionario, sono una denuncia forte, un atto d’amore, “ un grillo su un mucchio di spazzatura”.
…In "The Gleaners and I," she has a new tool--a modern
digital camera. We sense her delight. She can hold it in her hand and take it
anywhere. She is liberated from cumbersome equipment. "To film with one
hand my other hand," she says, as she does so with delight. She shows how
the new cameras make a personal essay possible for a filmmaker--how she can
walk out into the world and without the risk of a huge budget simply start
picking up images as a gleaner finds apples and potatoes.
"My hair and my hands keep telling me that the end is
near," she confides at one point, speaking confidentially to us as the
narrator. She told her friend Howie Movshovitz, the critic from Boulder, Colo.,
how she had to film and narrate some scenes while she was entirely alone
because they were so personal. In 1993 she directed "Jacquot de
Nantes," the story of her late husband, and now this is her story of
herself, a woman whose life has consisted of moving through the world with the
tools of her trade, finding what is worth treasuring.
De todos los medios de
comunicación que hoy en día nos rodean quizás ninguno como el cine documental
para mostrarnos aquella parte de la realidad que más acusadamente lejana y
ajena nos puede resultar. El medio televisivo, con su inmediatez y su dimensión
de producto de consumo, nos puede llegar a inmunizar contra esa sensibilidad
necesaria que se llega a requerir para conmovernos a la hora de enfrentarnos a
esas situaciones de injusticia social que campan a nuestro alrededor, invocando
un dejá vu en los noticiarios, donde el drama colectivo de
millones de seres humanos parece frivolizarse al intercalarse estas tragedias
entre los eternos bloques de información deportiva (perdón, futbolística). Sin
embargo, este género cinematográfico que inmortaliza el presente nos deja muy
frecuentemente pequeñas joyas, sublimes aportaciones que nos posibilitan
reconocer el mundo que habitamos, reflexionando sobre él y tratando de dar
respuestas a las inquietudes que nos abordan e incomodan. Suponemos que con esta
filosofía nació en el año 2000 de la cabeza de la veterana realizadora francesa
Agnès Varda el documental titulado Los espigadores y la espigadora (Les
glaneurs et la glaneuse).
Ya desde los efímeros
títulos de crédito, esas imágenes que nos introducen en la narración y que por
el solo hecho de ser las primeras suelen tener una importancia primordial en
todos aquellos “autores” que se precien de ser llamados como tales, observamos
que estamos ante una obra que tiene pretensiones de parecer improvisada. Nos
recibe la penetrante mirada de un gato, escrutadora, llena de inquietud por
observar lo que le rodea y que, por tanto, parece quererla para sí la propia
Agnès Varda, y su porte noble y distante (como lo será en cierta forma la
actitud de la directora, que intentará retratar, y no juzgar ni hacer apologías
ni proselitismos, dejando que el espectador saque sus propias conclusiones) se
aposenta sobre una pantalla de ordenador en la que aparece el nombre de la
productora: estamos ante el ensalzamiento de la economía de medios, de la
utilización de todos aquellos elementos que están a nuestro alrededor,
esperando a ser usados para alguna tarea (aunque no sea aquella para la que
fueron concebidos), y esta idea parece imponerse como la filosofía sobre la
cual se vertebrará el discurso capital del filme, aquel que nos habla sobre la
reutilización, el aprovechamiento, la segunda vida de las cosas...
By strict definition gleaners
describes the practice of gathering crops left on the ground after the harvest,
such as any grain. But that old-fashioned practice has all but given way to
machines doing that job. Veteran seventysomething French New Wave filmmaker
Agnes Varda (“Far From Vietnam”/”Vagabond”/”Cleo from 5 to 7”) shoots a moving
humanist/social conscience documentary that gets its title from an 1867
painting by Jean-Francois Millet entitled that “Les Glaneuses” (“Women
Gleaning”). It shows three peasant women in a wheat field, stooping to pick up
what’s left behind after the harvest. Inspired by this painting Ms. Varda, with
her digital video camera in her hand, tracks down modern-day gleaners across
France and interviews them whenever possible…